di Paola Pilati
Siamo nel pieno dell'era dell'incertezza. Il Global Economic Policy Uncertainty Index , che usa i dati di 17 paesi che insieme fanno i due terzi del Pil mondiale, in novembre ha toccato una vetta mai raggiunta negli ultimi vent'anni superando quota 275. Tanto per avere un termine di paragone, l'11 settembre quell'indice arrivò poco oltre quota 175, e altrettanto fece con la guerra del Golfo, e all'inizio della crisi finanziaria globale era intorno a quota 200. Ora, a farlo andare in orbita ci hanno pensato la Brexit, l'elezione di Trump, e il referendum italiano.
Messo a punto da tre economisti (Scott Baker della Northwestern University’s Kellogg School of Management, Nick Bloom della Stanford University, e Steven Davis della University of Chicago Booth School of Business) l'indice dell'incertezza della politica economica dimostra come più quest'ultima sale, più il mondo del business tira in remi in barca, smettendo di investire e assumere, e i consumatori smettono di consumare e mettono al pizzo i risparmi. Una relazione intuitiva, forse, ma che acquista impatto, e concretezza, in quanto rappresentata con un grafico e con un numero.
Cosa rispecchia esattamente quel numero? Gli indici (oltre a quello globale ce n'è uno per ciascun paese, partendo dagli Usa) sono costruiti basandosi sui messaggi di incertezza che trapelano degli articoli di giornale, dunque contando quante volte il termine incertezza (e le sue varianti) compaiono negli articoli che trattano di economia e di politica. È insomma il clima profondo del paese che si vuole intercettare, e il sistema, per quanto non basato su un complesso algoritmo, funziona.
Basta vedere come si è mosso l'indice per l'Italia: negli ultimi vent'anni il livello più alto è stato raggiunto nel marzo 2013, a quota 240. Cioè all'indomani delle elezioni di fine febbraio che hanno portato alla ribalta i 5Stelle, e con il difficile avvio del governo con l'incarico a Bersani, mentre veniva eletto papa Bergoglio. Insomma, uno scenario di assoluta novità su molti fronti, e complessivamente inquietante. Quel livello si è sgonfiato negli anni successivi, ed è tornato a impennarsi fino a quota 180 solo nel corso dello scorso novembre.
Naturalmente questo non è l'unico modo di misurare l'incertezza. Ci sono altri indicatori, dalla volatilità della Borsa ai prezzi dei future, a quelli delle opzioni per vendere e comprare un titolo, a quanto spesso cambiano le previsioni su crescita del Pil e occupazione: nessuno di loro basta a dare una quantità di incertezza, ma tutti convergono a determinarla. Di certo c'è solo che l'incertezza ha un effetto micidiale sul clima economico, come il mondo ha sperimentato dal crack della Lehman Brothers in poi, evento che ha concluso l'era della “Grande stabilità”. Un'era che, ora lo sappiamo, si cullava sulla certezza della crescita infinita, ma era una certezza mal riposta.
Misurare l'incertezza non è un gioco da economisti. A prendere molto sul serio la questione incertezza e il suo impatto sono innanzitutto le banche centrali: dalla Bank of England alla nostra Banca d'Italia il tema è diventato soggetto di attente analisi. Non senza qualche dileggio: Kristin Forbes, economista americana e membro del Monetary policy committee della Boe, a fine novembre ha paragonato l'incertezza al “whipping boy”, il ragazzo che prendeva le frustate, di solito un caro amico del principino che veniva punito al suo posto durante le dinastie Tudor e Start.
Un capro espiatorio, insomma, delle marachelle dell'erede, che all'epoca non si poteva toccare. Così come l'incertezza viene accusata di essere la causa di tutto ma, dice Forbes, in realtà nel caso della Brexit forse non è l'unica spiegazione del clima traballante che domina l'economia britannica.
Eppure la stessa Boe ha messo a punto da tempo un suo indice di incertezza, che si è mosso anch'esso coerentemente con gli eventi: impennandosi quando nel 1992 la sterlina uscì dallo Sme e fu svalutata, quando iniziò la crisi finanziaria e durante l'instabilità dell'area euro nel 2011 e infine dopo il referendum del “leave”. D'altra parte la misura dell'incertezza registrata dalla banca centrale britannica ha condizionato, ammette la Forbes, la decisione di non muovere i tassi assunta a novembre dalla Boe. Insomma, sarà pure un indicatore sfuggente, ma guida le mosse della politica monetaria, e non solo a Londra.
Sicuramente quello che l'incertezza condiziona è lo spread sui mercati, cioè il differenziale di rendimento tra un titolo considerato sicuro (come quello tedesco) e un altro. O meglio, lo ha sempre condizionato, almeno finora. Infatti, riflette l'analista di SocGen Guy Stears, con l'attuale livello di incertezza gli spread dovrebbero essere al top, incollati all'andamento dell'indice che rappresenta il clima generale come è stato in tutti i momenti di shock da incertezza del passato. Invece no.
Niente fughe dai bond, niente preoccupazioni per l'indebitamento molto alto delle imprese, gli spread (uno per titolo rispetto al proprio benchmark) se ne stanno belli tranquilli. Ma non è una bella notizia. Perché la spiegazione che la casa d'investimento dà è che i mercati del credito stiano sottovalutando il rischio che stanno correndo. E questo è molto pericoloso per chi deve investire del denaro, sia il proprio che quello altrui. Un pericolo che ci riporta stranamente al clima di dieci anni fa, quando ballavamo tutti sul Titanic senza rendercene conto.
Fonte: L'Espresso
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