di Roberto Ciccarelli
Il Jobs Act è l’ultima trincea del renzismo senza Renzi. L’ha ribadito ieri il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni («non ho nessunissima intenzione di cambiare linea sull’articolo 18») e il ministro dell’Economia Padoan («Il mercato del lavoro migliora grazie al Jobs Act»). Siamo ancora nell’epoca della «post-verità» che tante illusioni ha prodotto nel fronte governativo prima del referendum del 4 dicembre. Questa strategia delL’autosuggestione si regge su almeno quattro miti. Vediamoli.
PRIMO MITO: il Jobs Act crea più occupazione. Secondo i dati Inps, rielaborati dalla fondazione Di Vittorio, nei primi 9 mesi di quest’anno le assunzioni a tempo indeterminato (926 mila) sono inferiori non solo a quelle dei primi 9 mesi del 2015 (con una differenza di -443 mila, -32,3%), ma anche a quelle dei corrispondenti periodi del 2014 (-65 mila) e del 2013 (-85 mila). Ciò che davvero aumenta sono le 2,7 milioni assunzioni a termine, con una variazione rispetto al 2015 di +91 mila unità, di +154 mila rispetto al 2014 ed una ancora più cospicua rispetto al 2013 (+325 mila). Non solo il Jobs Act non produce più occupazione, ma ne produce molto di meno rispetto al periodo in cui non c’era Renzi (2014).
SECONDO MITO: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – «pilastro» del Jobs Act – «produce» occupazione «fissa». Avendo cancellato l’articolo 18 è un’affermazione insensata. Per l’Inps da gennaio ad agosto 2016 i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, sono aumentati del 28%. In otto mesi sono passati da 36.048 a 46.255. Numeri che cresceranno con il taglio degli incentivi alle imprese: da 8.040 a 3.250 euro nel 2016, resteranno pieni al Sud nel 2017. Questo significa avere abolito la tutela nei confronti del licenziamento. Il Jobs Act funziona e lo pagano i lavoratori che hanno un contratto stabilmente precario.
TERZO MITO: ciò che produce occupazione non è questo contratto, ma la riforma Poletti dei contratti a termine. Non se la ricorda più nessuno, ma è la misura più devastante prodotta dal governo Renzi. Questa «riforma» è in vigore dal 16 maggio 2014 e ha modificato, a poco meno di due anni dalla riforma Fornero, il limite dei rinnovi contrattuali per un lavoratore a termine: dai 12 a 36 mesi con un massimo di cinque proroghe, all’interno delle quali è possibile rinnovare il contratto infinite volte, anche una al giorno. I dati citati in precedenza confermano: questo è il motore del precariato che moltiplica il precariato. Se si vuole abolire il Jobs Act bisogna abolire anche questa riforma che porta il nome di Giuliano Poletti. E, con essa, tutte le leggi sul precariato dal pacchetto Treu nel 1997, approvato dal governo Prodi (centro-sinistra), a oggi.
QUARTO MITO: i voucher. Al di là delle soluzioni cosmetiche adottate per diminuirli (un Sms un’ora prima dell’inizio della prestazione),si ritiene che il «ticket» che si compra nei tabaccai serva a fare emergere il lavoro nero. La ricerca Inps «Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015», di Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio, ha dimostrato tutt’altro: i buoni da 10 euro destinati al pagamento orario delle prestazioni occasionali sono un «iceberg» del lavoro sommerso e segnalano che il «nero» è in gran parte rimasto sott’acqua. Il voucher è una prestazione associata molto spesso al lavoro part-time. Un altro strumento per governare le vite precarie.
L’occupazione che «cresce» è in realtà quella precaria dentro e fuori il perimetro del lavoro subordinato precarizzato. Il milione e 380 mila voucheristi (nel 2015) sono il futuro del lavoro in Italia: senza tutele, né contratto, ma a prestazione. Dietro la trincea scavata dal governo Gentiloni, si vive nella società della prestazione, e nell’economia dei «lavoretti» dove il lavoro è un cottimo postmoderno, mentre la vita è intermittente. La si sente, la si vive e la si soffre. Oltre la «post-verità».
Fonte: Il manifesto
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