di Vindice Levis
In un’intervista alla Nuova Sardegna del 15 gennaio 1984, rilasciata al direttore Alberto Statera mentre in aereo si recava in Sardegna per il suo ultimo massacrante tour politico, Enrico Berlinguer a proposito dei moti del pane affermava che: “fu una forte e tumultuosa protesta della parte più povera della città, provocata soprattutto dalla penuria dei generi alimentari di prima necessità ma anche dalla permanenza in molti posti di comando di gerarchi fascisti, nonostante da mesi fosse caduto il regime e la Sardegna fosse stata liberata”. Aggiungeva Berlinguer che “la massa principale era di donne e giovani dei quartieri popolari, che allora erano il centro di Sassari”.
A questo proposito Berlinguer rammentava “ bene anche la montatura imbastita da molti capi della polizia, che inventando di sana pianta reati gravissimi mai commessi cercarono di scompaginare la forte organizzazione giovanile comunista che si era formata nei mesi precedenti nella nostra città”.
E’ Nino Manca, nel suo libro curato da Tore Patatu ed edito nel 1993 dalla Libreria Dessì, a darci una descrizione viva di quanto accadde in quei mitizzati “moti del pane”, sorta di romanzo di formazione dei giovani comunisti, all’indomani della caduta del fascismo in una città stretta tra fame e inquietudine. Eravamo, scrive Manca, una “massa di persone in età giovanile, assolutamente inesperta nell’organizzare manifestazioni o dimostrazioni di qualsiasi natura, e ancora più incapace di organizzare e gestire manifestazioni così dure e così aggressive come furono quelle di allora”.
Di quei “moti” emerge una caratteristica precisa: la spontaneità e il ribellismo e una volontà di far sentire una protesta dopo due decenni di fascismo e la guerra. E caratterizzò i giovani comunisti nella conquista di una certa autonomia anche al di fuori, e contro, le direttive del “partito dei grandi”. Nino Manca si chiedeva se i giovani comunisti “caddero nel tranello della provocazione, partecipando ai moti del pane”. Se questa ci fu è certo tema non secondario ma non da affrontare ora. Sicuramente che quella esperienza formò Nino Manca e altri della sua generazione, compreso Enrico Berlinguer.
Nel definire il tema della mia comunicazione, abbiamo infatti inteso intrecciare questi due personaggi così diversi per estrazione sociale ma accomunati dall’idea comunista. Forse vaga e confusa. Ma non si trattava tuttavia di giovani del tutto a digiuno di politica se Nino Manca ricorda che loro pensavano “alle teorie di Marx ed Engels e ancora alla rivoluzione di Lenin ed alla dittatura del proletariato”. Senza scordare che si affacciavano alla vita politica sottoposti a una occhiuta vigilanza poliziesca.
Francesco Barbagallo uno dei biografi più sensibili di Berlinguer ricorda che il futuro segretario si iscrisse al Pci clandestino a metà agosto del 1943 ricevendo la tessera nella serra del comunista pistoiese Renato Bianchi. Berlinguer costituì e divenne segretario del circolo giovanile comunista che, entro l’anno, conterà una cinquantina di aderenti tra giovani operai e studenti. Barbagallo ricorda che a fine novembre la polizia sciolse una riunione identificando i convenuti e Berlinguer inviò una lettera, in inglese, alla Commissione militare alleata in Sardegna chiedendo senza successo l’uso di un teatro appartenuto alla Gil.
In una Sardegna affamata, il 13 e il 14 gennaio 1944 il futuro segretario generale del Pci e i militanti del movimento giovanile comunista parteciparono attivamente ai cosiddetti moti del pane. La base della rivendicazione era molto concreta: distribuzione di generi alimentari, in particolare pane, pasta olio. Manca ricorda che “la morsa della miseria in quel momento non risparmiava nessuno fatta eccezione… per piccoli gruppi di privilegiati”.
Nino Manca nella sua lunga attività fu impegnato nell’analisi delle condizioni materiali della gente e impegnato a cambiarle. Nel descrivere lo spettacolo di miseria di molte zone di Sassari, racconta che in vicolo Sant’Elena, la famiglia di Pietro Francesco Conti, ogni notte doveva tirare su con una carrucola il tavolo da pranzo che rimaneva così sospeso per aria durante tutta la notte, muto spettatore della miseria imperante. La stanza, unico vano – ricorda pignolo – aveva una superficie di 25 metri quadrati e vi abitavano nonna e nonno, padre e madre, cinque figlie femmine e tre maschi”.
Veniamo a quei moti del gennaio 1944 alla fine dei quali si registrarono 37 arrestati, compreso Enrico Berlinguer, mentre altri quattro riuscirono a darsi alla latitanza. Le accuse variavano dalla propaganda e apologia sovversiva antinazionale fino al disfattismo oltre che al saccheggio e alla detenzione d’armi. Si rischiavano insomma fino a 15 anni di carcere. I giovani comunisti parteciparono con i loro aderenti e la polizia lo rilevò nei verbali e nei rapporti. La sede della questura allora era al piano terra del palazzo del governo in piazza d’Italia. Nino Manca riporta uno di questi verbali svelando così le contraddizioni sulla tesi della preparazione secondo alcune “confessioni” estorte.
“La sera del 12 gennaio Enrichetto Berlinguer riunì tutti i compagni nella sede del partito per dare istruzioni per la dimostrazione dell’indomani”. Vengono anche illustrate queste attività: “Entrare a viva forza nel palazzo del governo in piazza d’Italia, bastonare tutti quelli della prefettura, buttare dalla finestra il prefetto perché fascista; assalire e saccheggiare tutte le case dove si trovavano generi alimentari”. Verità o provocazione? Nino Manca ricorda che altre testimonianze affermano il contrario: che Berlinguer non fu il capo e che i vecchi Cota e Lentini avevano dato severe disposizioni di non fare la dimostrazione.
Una bandiera rossa apparve ed era stata confezionata, ricorda Nino, dal compagno Ricci che abitava in via Alghero. Altre deposizioni, contraddittorie e certamente estorte con metodi violenti indicavano attività tutte da verificare: un arrestato dichiara “che durante le due riunioni del 12-13 gennaio udì dal compagno Ruiu che costui aveva messo a disposizione del Berlinguer otto bombe a mano e, contestualmente seppe dal compagno Mura che il Berlinguer aveva compilato un elenco degli edifici da saccheggiare, tra cui c’erano le sedi della ditta Fara, del pastificio Farbo Maseddu e l’ammasso dell’olio”.
Ma molte delle deposizioni cambiarono davanti al giudice istruttore, Sechi. Ed emerse che Berlinguer teneva al massimo lezioni di comunismo e sui doveri dei comunisti, che mi sembrano in linea col personaggio, “ma di non aver udito parlare di atti di violenza”. Da registrare che il capo della questura era l’ispettore Fabris che era stato uno egli ispettori generali dell’Ovra. Un autentico fascista, lo definisce Nino Manca.
Cosa voleva Togliatti? Voleva un partito nuovo, di massa, capace di parlare al paese, superando rapidamente la mentalità della clandestinità e cospirativa. In un libro di Girolamo Sotgiu di molti anni fa (Movimento operaio e autonomismo), si riporta un intervento di Togliatti al II convegno dei quadri del Pci svoltosi nel maggio del 1947, piuttosto severo: “Mi pare che il Partito in Sardegna non sia riuscito a impostare una battaglia o una serie di battaglie che attirasse su di se l’attenzione delle masse onde far loro da guida”. Quella di tre anni prima era una battaglia diversa, con il fascismo appena caduto e la guerra in corso.
I partiti erano ancora semiclandestini. La gioventù comunista cercò di tenere la prima assemblea nel forno di via Bellieni, poi riusci ad aprire una sede a un piano in via San Sisto. Curiosamente la prima uscita pubblica avvenne il 2 novembre 1943 quando i comunisti tornarono in vita proprio il giorno dei morti. “In quell’occasione si riuniscono tutti i compagni accreditati dal partito per rendere omaggio alla tomba di Masimo Stara”. Poi, con molte precauzioni, parteciparono a un’assemblea nell’abitazione di Renato Bianchi in regione San pietro dove si elesse un tempiese, Tamponi, primo segretario provinciale.
Tra il novembre 1943 e il gennaio 1944 il circolo giovanile comunista mette insieme 126 iscritti con il direttivo composto da: Enrico Berlinguer, segretario e Giovanni Masala suo vice quindi gli studenti Paolo Achenza e Angelo Magliona, gli operai Carmine Dasara, Giovanni Cossu e il nostro Antonio Manca noto Nino.
Veniamo al racconto vivo delle due giornate dei moti. La protesta era partita dal rione Le conce, con una prevalente presenza di donne; un’altra cosa certa era “l’iniziativa di alcuni giovani comunisti che, di comune accordo con qualche compagno anziano, avevano introdotto nel corso della manifestazione una bandiera rossa”.
Per dire del clima: Nino Manca racconta un episodio curioso. Che un tale Lorenzo Ruiu vendette due bombe a mano a un giovane comunista che se le portò alla manifestazione del giorno dopo. Nino se ne accorse e le requisì depositandole, racconta, “presso la propria abitazione con l’intento di scaricarle e destinarle alla costruzione di accendisigari”. Durante una successiva perquisizione furono sequestrate dalla polizia.
Il 14 si verificarono gli scontri più duri, questa volta con l’impegno dell’esercito con carri armati leggeri, mitraglie, fucili, moschetti che occuparono tutta l’area del centro da piazza Castello a piazza Municipio fino a porta Sant’Antonio. Rapidamente la cronaca di Nino Manca ci racconta di un corteo in via Mercato e in via Rosello, un’irruzione al mercato del pesce, dove il direttore dottor Marras venne colpito con un cestello. Un primo scontro avvenne al corso Vittorio Emanuele dove si registrarono i primi feriti e alcuni arresti. Due giovani vennero liberati in questo modo: Mario Usai, noto Buttaracciò se li fece consegnare senza colpo ferire dai militari che se la diedero a gambe levate.
Quindi in quelle fasi convulse “ci fu un’incursione al panificio della ditta Arru-Fadda in via Capo d’oro” dove vennero sottratti cinque quintali di pane”. Un concentramento si formò in piazza Santa Caterina dove c’erano gli uffici annonari, spostandosi in piazza Municipale presidiata dall’esercito. I manifestanti “superando la barriera delle mitragliatrici la occupano, trovandosi a contatto fisico con i soldati che si trovano mescolati con la folla dei dimostranti senza che nulla di grave accada”.
La sera i giovani comunisti trovarono la sede di San Sisto occupata dalla polizia che effettuò arresti a largo raggio. “L’impatto col carcere deve essere considerato di una drammaticità unica e inenarrabile” ci racconta. Gli arrestati, compreso Nino, sono rinchiusi in celle sotterranee e dopo sistemati in cinque o sei in celle da una sola persona senza letto e branda, senza materasso con una coperta che fungeva da stuoia. L’esperienza della galera durò cento giorni. Alla fine dell’istruttoria molte delle accuse caddero. Nino Manca fu rinviato a giudizio per adunata sediziosa e anche del reato di detenzione abusiva di armi da guerra.
Il 26 aprile 1944 Enrico Berlinguer veniva confermato segretario del circolo giovanile e Nino il vice diventando, il 4 luglio, lui stesso segretario, incarico che lasciò per arruolarsi nei gruppi di combattimento della guerra di liberazione. A Nino succedette Pietro Carta al quale lasciarono 325 iscritti. Nel frattempo il giovane Berlinguer si trasferiva a Roma, chiamato da Togliatti a ricostruire il movimento giovanile comunista.
Questo testo è la relazione al convegno su “Nino Manca, il politico, l’uomo il sindacalista” svoltosi a Sassari il 16 dicembre per iniziativa dell’Associazione Luigi Polano
Fonte: fuoripagina.it
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