di Marco Bertorello
Questa settimana la Federal Reserve statunitense ha aumentato i tassi d’interesse di un quarto di punto, arrivando a 0,50-0,75%. Non accadeva esattamente da un anno. Dopo quel primo aumento, anch’esso di un quarto di punto, ne ha annunciati ben 4 nel corso del 2016. Durante l’anno, però, si è intravisto il perdurare di debolezze nell’economia degli Usa che, combinate con altre incertezze sul piano internazionale, hanno spinto il Fomc (l’organo di direzione e controllo della Fed) a rinviare le decisioni.
Il tira e molla tra falchi e colombe all’interno della Fed si è protratto fino a ora: i primi ritenevano ingiustificato prolungare un costo del denaro così insignificante, denunciando in alcuni casi persino il rischio che tale scelta potesse favorire la creazione di nuove bolle finanziarie; i secondi rimanevano più cauti sui risultati raggiunti dall’economia a stelle e strisce e si preoccupavano poi degli effetti che l’aumento avrebbe causato sul piano internazionale, a partire da quei paesi emergenti che in questi anni di moneta facile hanno visto indebitarsi fortemente in dollari le loro imprese. Gli Usa crescevano, dunque, ma non abbastanza, e gli emergenti non erano ancora pronti al cambio di marcia. Ora si tratta di comprendere come il panorama sia cambiato al punto da modificare l’atteggiamento delle colombe e della presidente Janet Yellen.
Un cambiamento che può essere misurato non tanto sull’ultimo aumento, atteso da tempo ormai, quanto dal numero degli aumenti stabilito per il prossimo anno: tre anziché due. Quindi la ripresa negli Usa c’è, ma non si sta rivelando il volano necessario alla principale potenza globale: per quest’anno la crescita prevista è inferiore al 2%. La disoccupazione è scesa, ma il tasso di occupati è lontano dai tempi d’oro, i salari continuano a ristagnare e i processi di reindustrializzazione appaiono perlopiù simbolici. I risultati della recente campagna elettorale, infatti, confermano un profondo malessere sociale.
Ciò che è migliorato, però, è il contesto globale, in cui la crisi dei paesi emergenti si è stabilizzata, a molti di essi è stato concesso il tempo necessario per cambiare la valuta in cui sono indebitate le loro imprese (non certo per ridurre i loro debiti), inoltre la ripresa del prezzo del greggio lascia prevedere una fase di ripresa dell’inflazione (benché le spinte deflazionistiche non fossero causate unicamente dai prezzi delle materie prime).
La ripartenza del costo del dollaro se da un lato è indice dello stato di salute dell’economia, tanto che i mercati finanziari dopo aver preso le contromisure non sembrano particolarmente preoccupati, dall’altro può innescare una stagione di guerre valutarie e protezionismo commerciale, rendere meno competitive le aziende americane e più costosi i titoli di Stato (Treasuries).
Le ragioni della Fed appaiono dunque spiegabili con un’analisi dei fondamentali, ma soprattutto con quella che l’ultimo numero dell’Economist definisce il «nuovo modello americano di business», impresso dall’elezione di Trump e più in generale da un clima favorevole alla ripoliticizzazione del mercato presente in molti paesi occidentali. Un modello fondato su un deciso interventismo statale che oggi per la prima volta negli Usa è approntato in assenza di una crisi emergenziale. La rivista britannica sottolinea i rischi di questa «nuova normalità»: dalla cattiva allocazione del capitale alla poca competitività, al prezzo che potrebbero pagare proprio le classi più deboli attraverso un aumento del costo della vita.
Al contempo, verrebbe da aggiungere, attualmente tale modello risulta essere l’unica offerta politica sufficientemente organica in grado di smuovere il contesto stagnante. Tutti si aggrappano a essa, dalla finanza all’economia, vecchia e nuova, e pure la Fed sembra non voler rimanere indietro.
Fonte: Il manifesto
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