La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 17 dicembre 2016

Economia malata, teoria convalescente. Intervista a Giorgio Gattei

Intervista a Giorgio Gattei di Marco Palazzotto
Abbiamo assistito al fallimento del movimento per Tsipras in Europa e il governo greco oggi non fa che perpetrare una politica di austerità in continuità con i precedenti governi (in teoria) più a destra. Podemos sembra non riuscire a superare l’impronta populista dell’anti-casta in salsa grillina. Idem in Italia in cui il M5S si accinge, probabilmente, ad accrescere il proprio potere, soprattutto se il governo Renzi non riuscirà a superare il voto referendario. Alcuni segnali positivi arrivano dall’Inghilterra, che almeno vede ricompattare una sinistra attorno a Corbyn.
Che percorsi occorre intraprendere in Italia e in Europa, secondo te, per costruire un movimento di massa che faccia da contraltare alle politiche di austerità e che tenti di superare il potere dei grandi comitati d’affari europei rappresentati dalle istituzioni UE e dal blocco franco-tedesco?
"Sullo stato attuale di ciò che avrebbe dovuto essere una “sinistra eterna” e di cui ha parlato da qualche parte François Furet (ma che adesso proprio ‘eterna’ non può dirsi), al momento la vedo andare alla deriva per la perdita del doppio ancoraggio alla marxiana critica dell’economia politica e alla pratica della lotta di classe che è stata sostituita da una accozzaglia di “scontri di civiltà”, guerre di religione, conflitti geopolitici e quant’altro. Va però detto che questo fallimento della “sinistra” non è proprio tutto colpa sua, perché come si poteva mantenere “marxista” e “classista” dopo lo squagliamento vergognoso (perché senza nemmeno un gemito) dell’URSS e dopo la dimostrazione logica dell’erroneità di quella “trasformazione dei valori in prezzi di produzione” che avrebbe dovuto confermare che il profitto non è altro che sfruttamento del lavoro altrui? A ciò si è poi aggiunto un tale rimescolamento delle classi sociali che ha trasformato il “capitalismo padronale” di un tempo, quando di contro avevamo le altre persone, nell’attuale “capitalismo patrimoniale” in cui di fronte abbiamo le altre cose. E mi spiego.
Una volta le posizioni di classe erano nette: da una parte c’erano i proletari, sia di città che di campagna, con il loro salario, e dall’altra i “padroni delle ferriere” con i profitti, i proprietari di terre e di case con le rendite, i possessori di risparmi in banca o in borsa con gli interessi e i dividendi. Insomma, c’eravamo noi e c’erano loro. Ma oggi? Complice la grande “rivoluzione salariale” degli anni ’60-’70, il lavoratore medio ha visto crescere il proprio reddito fino al punto di potersi permettere l’acquisto della propria casa e (caso mai) anche una seconda abitazione, mentre col denaro risparmiato s’è comprato azioni e obbligazioni sia pubbliche che private, e perfino il suo accantonamento pensionistico è affidato a fondi d’investimento il cui rendimento è fatto dipendere dall’andamento volubile di borsa. Per questo nella sua denuncia dei redditi possono arrivare a confluire, oltre al salario, anche rendite, interessi, dividendi e addirittura profitti se nel tempo libero esercita, lui o la sua famiglia, una qualche attività in proprio. Ed è per questo che il suo livello di benessere economico viene ad essere il risultato non soltanto dalla remunerazione che gli paga il suo datore di lavoro, ma pure dalla redditività del patrimonio mobiliare e immobiliare che ha costituito nel tempo, alla stessa maniera (fatta salva la dimensione quantitativa) dei “riccastri” di una volta.
È quindi per precisa convenienza economica che pure lui si dimostra contrario a qualsiasi provvedimento fiscale che colpisca i redditi patrimoniali o il patrimonio tout court, inveendo ad esempio contro l’imposta sulla casa (IMU) che gli hanno imposto di pagare. E per evitare altre imposte, invoca uno “Stato al minimo” che nel suo immaginario equivale ad un “Fisco al minimo”, ed è perfino disposto a rinunciare ai vantaggi dell’odioso Welfare State (che dovrebbe pagare con le tasse) perché convinto di potere far meglio e a minor costo a proprie spese richiedendone i servizi ai privati (che comunque su quei servizi ci lucrano). E se poi il reddito adeguato per pagarsi il suo benessere gli venisse a mancare, ha già pronta la ciambella di salvataggio delle mille istituzioni della sussidiarietà che suppliscono ai vuoti della “mano pubblica” e alle quali, finché può, generosamente concede donazioni monetarie e tempo di volontariato pur di sentirsi la coscienza “di sinistra” a posto, senza domandarsi se per caso quelle istituzioni non facciano profitti a sue spese. A suo dire, tutto ciò che guadagna dovrebbe restare in tasca sua, sfuggendo a quella “mangiatoia” dello Stato dove non ci stanno che “rubberie” e “corruzzzione”.
Non sapendo più di economia (il marxismo era anche stato una palestra di educazione economica popolare, ma questa educazione ormai si è persa), non sa più nulla della “natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (copyright Adam Smith) e si accontenta di giocare al “libero mercato” sicuro di potersela cavare con quel poco potere di monopolio che possiede quando affitta una seconda casa oppure deposita in banca i propri risparmi o li azzarda in borsa (salvo poi invocare, quando ci rimette, l’intervento “salvifico” dello Stato, come se lo Stato i propri soldi non li ricavasse da quelle imposte e tasse che lui si rifiuta di pagare). Per questo è favorevole, finché gli “affari” vanno bene, anche alle politiche di austerità espansionistica (che tuttavia espansionistiche non sono, ma la spiegazione richiederebbe un discorso troppo lungo), inconsapevole che quelle politiche non sono nemmeno d’origine autoctona, ma gli vengono imposte dall’esterno nell’interesse di affaristi e speculatori finanziari stranieri che trovano la propria ragion d’essere in quella che una volta sarebbe stata chiamata la geometria dell’imperialismo."
Parlando di crisi non potevamo non chiedere – come abbiamo fatto in altre occasioni su questo sito – un parere sulla crisi europea. Senza entrare nell’inflazionato dibattito “Euro sì - Euro no”, chiediamo come leggi questa nuova fase del capitalismo. Il nuovo secolo è cominciato con una grande crisi proveniente dagli Stati Uniti d’America, la cosiddetta crisi Dot-com, e ancora oggi viviamo nell’onda lunga della grande crisi dei subprime, sempre proveniente dal paese nordamericano. Sembra che oggi, soprattutto in Europa, non si riescano a trovare delle controtendenze che superino questa – come l’hanno definita alcuni economisti – lunga stagnazione. Cosa ci aspetta in Italia e in Europa nel prossimo futuro?
"Con quanto appena detto sono già entrato nell’argomento di questa domanda: come sta di salute l’economia di oggi (lo dico subito: male) e quali possono essere le “medicine” da prendere per superare il suo presente stato di malessere?
Si diffidi sempre di chi racconta che le difficoltà economiche attuali sono dovute alla mancanza di risparmio a fronte di un troppo indebitamento, perché è vero il contrario: c’è nel mondo troppo risparmio o, per meglio dire, ce n’è troppo rispetto agli investimenti che vengono fatti. E così quel risparmio in eccedenza viene prestato alle famiglie e agli Stati indebitandoli entrambi, soprattutto gli Stati che “non possono fallire” e che rimborseranno i creditori con imposte e tasse a carico dei propri cittadini (che si presume siano sempre cittadini altrui). Ora di una simile situazione di sovra-risparmio, che si sta cronicizzando, hanno preso a parlare economisti come Larry Summers e Paul Krugman segnalando il pericolo di una stagnazione secolare (ma l’aggettivo è esagerato) quale cifra caratteristica di uno stato di malessere in cui c’è grande capacità di risparmio, perché i profitti, le rendite, gli interessi e i dividendi sono alti mentre i salari sono bassi, ma non c’è convenienza ad investire nella produzione “reale” perché le aspettative di domanda non si prevedono allettanti. Il che si capisce: se si riducono i salari, s’indebolisce la domanda di consumo delle famiglie che ben difficilmente potrà essere compensata da quella dei “riccastri” ed è per questo che le banche hanno provato a sostenere la domanda delle famiglie concedendo loro, con azzardo e dovizia, il “credito al consumo”, ma gli è andata subito male e ci è arrivata addosso la Grande crisi dei mutui subprime! Ora fronte ad una situazione economica siffatta che fare? Per capirci qualcosa di più c’è bisogno di un po’ di strumentazione analitica quale può essere data dalla teoria dei saldi settoriali a cui si arriva considerando che il Reddito nazionale (chiamiamolo Y) è pari alla somma dei Consumi delle famiglie C, degli Investimenti privati I, della Spesa pubblica G al netto delle Tasse T e dalle Esportazioni X al netto delle Importazioni M, ossia:
Y = C + I + G – T + X – M
Se poi si tiene conto che il Risparmio S non è che il Reddito al netto dei Consumi:
S = Y – C
allora la formula di cui sopra finisce per arrangiarsi così:
(S – I) = (G – T) + (X – M)
da cui si vede che, se a sinistra c’è troppo risparmio rispetto agli investimenti (S > I), bisogna che a destra ci sia spesa pubblica maggiore delle tasse (G > T) e/o più esportazioni rispetto alle importazioni (X > M). In sintesi, a fronte di un sovra-risparmio nel “settore privato”, il rimedio può essere soltanto una economia “trainata dalle esportazioni” (export-led, come si dice) oppure “trainata dalla spesa pubblica” (deficit-led) oppure un mix di entrambe (export-led + deficit-led) – e da qui non si scappa. Però sarebbe opportuno quantificarlo questo sovrarisparmio. Ho i dati per l’Unione Europea a 19 paesi (che è quanto a noi è più vicino) e da essi si apprende che il “saldo privato” (S – I) è positivo e in crescita essendo passato dai 545 miliardi di euro del 2011 ai 676 mld del 2015, mentre a compensazione il “saldo estero” (X – M) risulta altrettanto positivo e in aumento dai 135 mld del 2011 ai 461 del 2015 ed il “saldo pubblico” (G – T) è positivo ma in calo, essendosi ridotto dal 409 mld del 2011 ai 215 mld del 2015 (questa diminuzione è la conseguenza delle politiche di austerità introdotte con l’accordo di fiscal compact del 2012 in cui si richiede che in un anno prossimo a venire il bilancio pubblico di ogni paese sottoscrittore sia portato “al pareggio o in avanzo”). Abbiamo così conferma che l’Unione Europea soffre di troppo risparmio rispetto agli investimenti, che compensa con l’export-led (a crescere) e col deficit-led (ma a calare). E di questa difficoltà si sono finalmente accorti anche i governatori di Bundesbank e Banque de France che in una lettera congiunta del febbraio 2016 hanno proposto l’istituzione di un Ministro del Tesoro europeo proprio per affrontare “il paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti”.
E sulle prospettive future di questi saldi settoriali che si può dire? Intanto che, data la complicata congiuntura geo-politica di quest’anno (Brexit, Trump e referendum) e del prossimo (elezioni in Francia, Austria, Olanda, Germania e fors’anche in Italia) è assai probabile che aumenti quel risparmio precauzionale allergico all’investimento (in caso d’incertezza non è forse meglio accantonare quattrini?), mentre nell’ipotesi che persistano ancora le politiche di austerità di cui tutti si lamentano ma nessuno sembra in grado di correggere, non resta che cercare al di fuori del “saldo pubblico” il rimedio per compensare l’eccedenza del “saldo privato”.
Che il rimedio possa stare nell’aumento del “saldo estero”? C’è da dubitarne perché al momento la globalizzazione non gode più tanto di buona fama e sempre più si levano inviti ad adottare politiche di “protezione nazionale”. In passato, all’ombra della globalizzazione gli scambi tra le nazioni erano cresciuti in percentuale più velocemente del PIL mondiale, ma ora non è più così: come documenta il WTO, per la prima volta da 15 anni nel 2016 gli scambi sono cresciuti dell’1.7% a fronte di un aumento del PIL globale del 2,2% e questa contrazione dei commerci è dovuta al fatto che grandi economie nazionali, come gli Stati Uniti o la Cina, stanno diventando più “introverse” che “estroverse”. Intanto gli Usa non comperano più petrolio dal resto del mondo perché, con le nuove tecniche del fracking, ne hanno fin troppo in casa propria e addirittura hanno preso a venderlo sul mercato internazionale, mentre la Cina, in via di trapasso ad economia post-industriale e di servizi, punta più sull’espansione della domanda interna, sostenuta dall’aumento programmato dei salari, invece che sulle esportazioni. Così gli scambi internazionali si riducono come fu già durante la Grande Crisi degli anni ’30, e gli economisti, proprio come allora, avanzano suggerimenti protezionistici, come dazi o controlli sui movimenti dei capitali, in caso di crisi nazionali particolarmente accentuate. Con l’elezione di Trump c’è addirittura il caso che gli Stati Uniti possano porsi come un freno a quegli accordi commerciali che “ci rubano occupazione e imprese”, dopo esserne stati i promotori. E c’è chi ne sta già facendo le spese come il TTIP, il grande accordo di libero scambio tra USA e UE che sembra ormai sulla via del ripudio, o come i grandi spedizionieri di container che nel 2016 hanno registrato cali nel trasporto del 30% rispetto all’anno precedente e dell’80% rispetto al 2007.
Se quindi non c’è da sperar troppo di compensare il sovrarisparmio sulla parte destra dell’equazione dei “saldi settoriali”, non resta che affrontarne direttamente il lato sinistro dove spicca la sua forbice con gli investimenti. Ma in che modo? È ovvio: aumentando gli investimenti oppure riducendo il risparmio. E nella prima direzione si è mossa decisamente la BCE con lo strumento classico della politica monetaria, ossia con la riduzione del tasso d’interesse che ormai è stato portato al limite estremo di quasi lo 0,00%. Ciononostante gli investimenti privati non ne hanno affatto risentito, il che è evidente: siccome gli investimenti dipendono dalla differenza delle aspettative di profitto rispetto al tasso d’interesse, se le prime sono negative anche un tasso d’interesse nullo non può rianimarli. Per questo Mario Draghi ha provato a stimolarli con il “bazooka” (come lui stesso l’ha chiamato) del Quantitative Easing, che consiste nell’aumentare la base monetaria europea (la BCE è l’unica istituzione autorizzata a stampare euro) tramite l’acquisto di titoli pubblici e privati in circolazione. Ma, non potendo per statuto acquistarli direttamente dalle imprese e dagli Stati nazionali (come invece è consentito alla Federal Reserve americana), ha dovuto comperarli sul “mercato secondario”, ossia dalle banche che li possiedono nel loro portafoglio. Si riteneva che con il denaro ricevuto in cambio le banche avrebbero generosamente concesso prestiti alle famiglie e soprattutto alle imprese, eppure non è affatto andata così.
Il Quantitive Easing è cominciato di fatto nel marzo del 2015 e fino a dicembre è stata emessa moneta per 658 mld di euro; nello stesso periodo di tempo i prestiti bancari alle famiglie sono aumentati di 102 mld, ma quelli alle imprese si sono ridotti (!) di 42 mld, così che la ricaduta sull’economia “reale” è stata di soli 60 mld. Ma la differenza di moneta emessa dove è andata a finire? In grandissima parte è ritornata alla BCE, nel conto generale di tesoreria che ogni banca vi detiene, che in effetti è aumentato di 515 mld, e ciò nonostante che la BCE, per scoraggiarne il rientro, abbia imposto un tasso d’interesse negativo sui propri depositi dello 0,30% (lo 0,40% dal marzo 2016). Ma tant’è: se non si prevedono prospettive di profitto dalla produzione “reale”, non è più conveniente parcheggiare il contante presso la più che sicura BCE, anche pagando un “pedaggio”, piuttosto che prestarlo ad imprenditori che li investirebbero a rischio e forse malamente?
Però a questo punto che cosa resta per riequilibrare il “saldo settoriale privato” se non quello di aggredire direttamente quel troppo risparmio distruggendolo? E come si fa? Bisogna tornare alle banche, che sono istituzioni intermedie che sono creditrici per i prestiti che concedono ai clienti (famiglie e imprese), ma pure debitrici per le azioni e obbligazioni che hanno emesso e per i depositi che ricevono. Ora si dà il caso che nella congiuntura attuale i debitori non siano più in grado di restituire integralmente i prestiti ricevuti. Qualche cifra: per il sistema bancario italiano si stimavano all’inizio del 2016 almeno 200 mld di euro di crediti “in sofferenza” rispetto ai 44 mld del 2008, e con prevalenza di quelli alle imprese (144 mld) quale conseguenza inevitabile (come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia) di 90 mila imprese che nel frattempo sono fallite e di un calo del 20% della produzione industriale. 
Ma se le banche non ricevono indietro i soldi prestati, come potranno ripagare i loro creditori? Non possono e per evitare il fallimento dovranno chiedere agli azionisti di sottoscrivere un adeguato aumento di capitale a copertura di quei crediti “deteriorati” oppure fare intervenire lo Stato ad acquistarli, liberando le banche dal loro ingombro, con i soldi ricavati da maggiori imposte oppure in deficit spending. Però nella Unione Europea della “austerità ad ogni costo” ciò non è più consentito perché dal gennaio 2016 è stata introdotta la nuova procedura del bail-in (in Italia sperimentata in anticipo, nell’autunno 2015, per il “salvataggio” di quattro banche chiacchieratissime i cui creditori hanno visti ridursi per legge i propri risparmi al 17,8% del valore nominale). Con il bail-in si è stabilito che a copertura dei prestiti “deteriorati” siano i creditori bancari a farne le spese con una svalutazione coatta (nell’ordine) delle azioni di chi ha investito a rischio, delle obbligazioni di chi ha prestato ad interesse e perfino dei depositi oltre i 100.000 euro di chi ha soltanto parcheggiato il contante (in quest’ultimo caso è come se un teatro, di fronte ad un incasso insoddisfacente, trattenesse i cappotti ricevuti in guardaroba per rivenderli). Ma nella nuova Europa della finanza vale il principio che non soltanto è colpevole chi chiede soldi a prestito (nella lingua germanica la parola schuld significa sia debito che colpa), ma pure chi li presta, così che, se il risparmio viene affidato a banche incapaci di valorizzarlo, la colpa è del prestatore incauto e non del banchiere incompetente! Né sono valse le proteste avanzate da più parti (anche dal governatore della Banca d’Italia) perché il presidente dell’Eurogruppo ha spiegato che ormai “le regole sono cambiate” e la Corte di Giustizia europea ha sancito con sentenza che la condivisione delle perdite bancarie da parte di tutti i creditori, correntisti compresi, “non viola le regole dell’Unione”. La logica è quella per cui (“La Repubblica”, 25 luglio 2016) anche “il risparmiatore deve imparare a rischiare” e quindi, pur di salvare le banche, che li perda i suoi soldi!
Siamo così giunti al termine del nostro viaggio dentro i “saldi settoriali” dell’economia europea: al povero salariato che, a vario titolo, ha “patrimonializzato” i propri risparmi sfruttando gli anni dorati della “rivoluzione dei redditi”, di fronte ad un “saldo estero” che non tira a sufficienza perché la globalizzazione è stanca e ad un “saldo pubblico” a calare perché la spesa pubblica è vista come il peggiore dei mali, a fronte dell’inerzia degli investimenti privati perché “il cavallo non beve”, non resta, dopo aver perso i propri risparmi in Borsa per colpa del mercato, che vederseli azzerare per forza di legge in Banca. Aveva pensato di poter partecipare pro quota alla nuova dimensione del “capitalismo dei patrimoni” comportandosi da brava formichina che non spende e risparmia, ma la sua è stata soltanto una illusione di essere promosso a rentier (redditiero) come i ricchi di un tempo perché la sua natura resta quella del salariato cosicché alla prima difficoltà del capitale la sua incongrua intrusione nel campo patrimoniale va respinta e quei suoi soldi risparmiati gli devono essere tolti."
Infine un argomento che interessa il nostro percorso di studi. Abbiamo scelto – dopo varie discussioni – di costituirci, come collettivo PalermoGrad, in associazione, chiamandola proprio WERT (cioè “valore”). Riteniamo che sia ancora importante dibattere in ambito accademico, ma soprattutto in ambito politico, di valore-lavoro. L’anno scorso abbiamo discusso un tuo testo sull’argomento (Storia del valore-lavoro, Giappichelli 2011), oltre ad aver organizzato vari seminari su autori come Smith, Ricardo, Marx, Luxemburg, Hilferding, Schumpeter, Sraffa e altri. Ti chiediamo perché secondo te sia oggi importante continuare a discutere di valore-lavoro, anche in un momento in cui in quel po’ di sinistra radicale che esiste, l’argomento è stato messo in soffitta con l’intero impianto teorico del secolo scorso.
"Per comprendere lo stato attuale della teoria del valore-lavoro (il mio referto medico è questo: è in convalescenza, perché la malattia è superata, ma ben pochi ancora lo sanno) è necessario ripassarne un po’ la storia. 
Non c’è dubbio che, se le merci fossero prodotte a solo lavoro, il loro valore coinciderebbe esattamente con la quantità del lavoro occorso per produrle. E questa era stata l’opinione avanzata da Adam Smith e confermata da David Ricardo, che però aveva dovuto ammettere che la cosa si complica quando interviene anche un solo bene-capitale perché allora (ma la soluzione sarà di Marx) quel valore dovrà tenere conto, oltre che del lavoro “di oggi”, anche del lavoro “di ieri” che ha prodotto il bene-capitale. Tuttavia (e qui Marx ha sbagliato) nell’imputare il lavoro “di ieri” all’“oggi” esso va capitalizzato secondo il saggio del profitto per il tempo trascorso da ieri a oggi, con il bel risultato che il valore delle merci prodotte con lavoro e beni-capitali supera necessariamente il lavoro “di ieri e di oggi” per una quantità di profitto quale conseguenza di qualcosa d’altro dal lavoro (che so? Una fantomatica produttività del capitale in quanto tale?). Finita la stretta equivalenza del valore al lavoro (il che è stato ufficialmente riconosciuto più o meno in coincidenza con l’involuzione ultima dell’URSS), gli economisti “di sinistra”, orfani dell’una e dell’altra, hanno ripiegato sulla presupposizione di un sovrappiù (da intendersi come il prodotto netto che rimane dopo aver tolto dal prodotto lordo tutti i beni-capitali che sono serviti a produrlo) quale risultato indiscutibile della “tecnica” in uso, il cui valore va soltanto ripartito tra salario e profitto secondo il rapporto di forza tra le classi sociali. È stata questa la ritirata strategica dello “sraffismo” a cui i marxisti “duri e puri” si oppongono perché rifiutano di riconoscere un qualsiasi difetto nella formulazione della teoria del valore-lavoro di Marx.
A ripresa invece della teoria del valore-lavoro si è mossa la New Interpretation (che peraltro adesso sappiamo essere implicitamente presente in Sraffa stesso, sebbene di ciò gli “sraffisti” altrettanto “duri e puri” non vogliano sentir parlare) nella quale si riconduce il valore di quel sovrappiù alla quantità del solo “lavoro vivo” impiegato, non essendoci più bisogno di calcolare il lavoro “di ieri” che ha prodotto i beni capitali che sono stati eliminati dal computo del sovrappiù. È questa la teoria del neovalore-lavoro a cui fanno riferimento all’estero economisti come Duménil e Foley e in Italia Stefano Perri, Riccardo Bellofiore e io stesso. 
Dopo di che è possibile procedere oltre. Utilizzando un suggerimento avanzato dallo stesso Sraffa in alcuni appunti personali recentemente pubblicati, se si considera che il salario monetario pagato all’inizio del periodo di produzione viene poi speso alla fine del periodo traendo i beni di sussistenza dalla massa del sovrappiù, giusta l'equivalenza del suo valore col “lavoro vivo” ne consegue che il valore dei beni-salario acquistati non è altro che la quota di partecipazione dei lavoratori al “lavoro vivo” che hanno erogato in complesso, e cioè quella sua parte che Marx ha chiamato “lavoro necessario”. Dopo di che, per differenza dallo stesso “lavoro vivo”, quanto resta non è che pluslavoro, ossia la parte di “lavoro vivo” di cui i capitalisti si appropriano a titolo di profitto. È così riconfermato che il valore del sovrappiù prodotto non è altro che lavoro (vivo), mentre il profitto è pluslavoro, ossia sfruttamento del lavoro (vivo) altrui.
Restano soltanto due ultime considerazioni da fare. La prima è che il profitto, in quanto pluslavoro, dipenderà dalla dimensione del “lavoro vivo” attivato all’inizio del periodo di produzione, ma pure dei prezziche verranno imputati al sovrappiù quando i lavoratori, spendendo il salario monetario ricevuto, accederanno al valore dei beni-salario a loro necessari, e quindi al loro “lavoro necessario”. E quindi il profitto avrà due variabili di riferimento: lo sfruttamento dei lavoratori nel luogo della produzione e lo sfruttamento dei consumatori sul mercato, potendo compensarsi il calo di uno sfruttamento con l'aumento dell'altro.
La seconda rinvia all’importanza strategica di quel salario monetario pagato all’inizio del periodo di produzione: scomposto nel salario pagato individualmente (contrattato con il sindacato) moltiplicato per la quantità di “lavoro vivo” complessivamente attivato (che è invece a discrezione delle imprese), è dal suo ammontare disponibile all’inizio del periodo di produzione che risulta la quantità del “lavoro vivo” che, in collegamento non soltanto quantitativo ma anche qualitativo con i beni-capitali esistenti secondo il “coefficiente tecnologico” in atto, darà luogo alla quantità del sovrappiù di cui si ricerca il valore-lavoro. E proprio in merito a questo ammontare di salario monetario iniziale possiamo ritrovare un interessante collegamento con la teoria del circuito di Augusto Graziani in cui si attribuisce alle banche il compito di fornire in anticipo alle imprese la quantità di moneta necessaria a pagare il salario ai lavoratori da mettere all’opera per la produzione di quel sovrappiù il cui neo-valore è pari al lavoro vivo contenuto."

Fonte: palermo-grad.com 

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