Intervista ad Ágnes Heller di Massimo Congiu
È da tempo che l’edificio europeo è sottoposto a scosse provenienti da diverse parti dell’Unione Europea e che sta mostrando una certa fragilità. Diversi sono i temi di discussione sul futuro dell’Europa ed è centrale il contraddittorio tra i sostenitori di una linea sociale e quelli che invece credono in un’Unione basata sostanzialmente sulla prevalenza delle logiche di mercato e sulla flessibilità del lavoro. È chiaro da tempo che l’esistenza dell’UE si basa su un’unità monetaria e non su aspetti identitari che possano fare da collante tra i Paesi membri e contribuire in modo determinante alla solidità della costruzione europea, ed è altrettanto chiaro che l’UE non è in grado a tutt’oggi di esprimere un indirizzo comune in termini di politica estera.
La crisi legata ai migranti sta mettendo a dura prova la diplomazia di Bruxelles e la sua capacità di concepire una linea politica con la quale fronteggiare l’emergenza in modo efficace. Contestualmente, i Paesi del Gruppo di Visegrád (Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia) esprimono una critica ferma alle politiche dell’Unione in ambito migranti e non solo, e si impegnano ad affermare la loro linea, basata sulla rigida difesa dei confini nazionali. In questo quadro, si è inserito il referendum sulla Brexit, una scelta che la filosofa ungherese Ágnes Heller valuta con molta severità, sia per i possibili effetti deflagranti, sia, ancor prima, per la decisione stessa di sottoporre al voto popolare una materia tanto delicata e complessa: un ossequio alle diffuse voghe populiste e, prima ancora, un’abdicazione dalle responsabilità nel governo politico di processi gravidi di implicazioni.
La crisi legata ai migranti sta mettendo a dura prova la diplomazia di Bruxelles e la sua capacità di concepire una linea politica con la quale fronteggiare l’emergenza in modo efficace. Contestualmente, i Paesi del Gruppo di Visegrád (Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia) esprimono una critica ferma alle politiche dell’Unione in ambito migranti e non solo, e si impegnano ad affermare la loro linea, basata sulla rigida difesa dei confini nazionali. In questo quadro, si è inserito il referendum sulla Brexit, una scelta che la filosofa ungherese Ágnes Heller valuta con molta severità, sia per i possibili effetti deflagranti, sia, ancor prima, per la decisione stessa di sottoporre al voto popolare una materia tanto delicata e complessa: un ossequio alle diffuse voghe populiste e, prima ancora, un’abdicazione dalle responsabilità nel governo politico di processi gravidi di implicazioni.
L’Unione Europea sta affrontando un momento molto delicato che la mette a dura prova; il referendum nel Regno Unito e, soprattutto il suo risultato, non fanno che sottolineare queste difficoltà. Qual è la sua opinione sul voto britannico?
"Credo che quella delle autorità del Regno Unito sia stata una mossa sbagliata. La storia si ricorderà del premier David Cameron come di colui che ha distrutto e smembrato il Paese, perché adesso la Scozia si vuole rendere indipendente, l’Irlanda del Nord vuol fare la stessa cosa, probabilmente anche il Galles si vorrà staccare dal Regno Unito. Cameron ha dunque commesso una sciocchezza e, ripeto, sarà ricordato come il premier che ha smembrato non l’Unione europea, bensì il proprio Paese. Ora come ora è difficile dire come l’Unione reagirà a quanto è accaduto; può rafforzarsi o indebolirsi e cessare di esistere come entità ben definita. Quello che è successo è un po’ come la polmonite: il paziente può morire, oppure può superare le fasi più difficili della malattia e uscirne rafforzato."
Ma in cosa è consistito l’errore commesso dalle autorità britanniche?
"L’errore principale è stato porre come quesito referendario l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, che è una questione che riguarda un intero Paese e diverse generazioni. È un grande errore chiedere un voto referendario su aspetti che concernono questioni così importanti e delicate. Il referendum può essere utilizzato quando c’è da discutere e da decidere in merito a problematiche di ordinaria amministrazione e meno importanti di questa. La cosa peggiore è che con il referendum viene meno la responsabilità di chi indice la consultazione; nessuno si assumerà la responsabilità delle scelte espresse dal voto, perché a scegliere sono stati i cittadini che si sono recati alle urne. Un’altra cosa importante da sottolineare è quella delle reazioni a livello europeo. Diverse fazioni politiche e diversi partiti hanno considerato la Brexit quasi come un loro successo. Voglio dire che ogni fazione politica ha dato la sua interpretazione al caso Brexit: ad esempio, il premier ungherese Viktor Orbán ritiene che quanto è avvenuto sia da imputare alla crisi migranti, mentre, in Francia, Marine Le Pen dà la colpa alla Germania che, a suo avviso, gestisce l’Unione Europea quasi come fosse di sua proprietà; negli Stati Uniti d’America Bernie Sanders ritiene che la Brexit sia una questione legata al problema del capitalismo internazionale. Ognuno, insomma, fornisce la sua spiegazione senza fermarsi ad analizzare i fatti che hanno portato a quel referendum. Detto questo, vale la pena analizzare, a mio avviso, la composizione del voto. Se lo facciamo, vediamo che gli ultrasessantenni hanno detto “Sì” all’uscita del loro Paese dall’Unione, mentre invece i giovani si sono espressi in modo contrario. Ma vediamo anche che sono stati soprattutto gli inglesi a votare per il “Leave”, mentre gli scozzesi e gli irlandesi del nord hanno fatto la scelta opposta."
Stiamo assistendo alla vittoria del populismo in Europa?
"Io direi che la decisione stessa di indire un referendum per decidere di una questione di questo tipo è di per sé una scelta populista. Il referendum è in sé uno strumento populista. La cosa che fa pensare è che questa decisione è estranea alla tradizione politica del Regno Unito. Il populismo e il principio di mobilitare le masse con discorsi demagogici appartengono più all’Europa continentale che al Regno Unito. L’aspetto di rilievo è che questo referendum è stato indetto da un premier conservatore come Cameron. Ciò ha scosso un po’ tutto il quadro politico del Paese, che da questo punto di vista ha una lunga tradizione di tipo liberale, al contrario di quello che è successo sovente nella storia dell’Europa continentale e che sta succedendo ora negli Stati Uniti con Donald Trump."
Ma a suo avviso cosa sta succedendo in Europa? Cosa non funziona? Cosa c’è da cambiare?
"Per rispondere a queste domande parto dalla considerazione che in Europa non c’è una tradizione in termini di democrazia liberale. Infatti, ogni volta che si è verificata una situazione di crisi le masse si sono messe a invocare un duce, un führer, hanno insomma cercato l’uomo forte che potesse guidarle. L’altro aspetto sul quale riflettere è che i vertici dell’Unione hanno sempre pensato che quella europea fosse una tradizione politica liberale consolidata. Cosa non vera.
Pensiamo un attimo alla storia dell’Europa, consideriamo le numerose vittime della Seconda guerra mondiale o la storia dei Paesi europei legati all’Unione Sovietica e al Patto di Varsavia, oppure alla Spagna di Franco o al Portogallo di Salazar o alla Grecia. Questa Unione è fondata soprattutto su fattori di carattere economico e non identitari e sociali. Manca fra i Paesi membri la condivisione di un’identità europea unificante. Se oggi chiediamo a un ragazzino cosa significhi essere europeo non riuscirà a dare nessuna risposta, mentre invece risponderà senza esitazioni se gli viene chiesto cosa significhi essere francese, tedesco o italiano.
L’aspetto caratterizzante l’Europa è quello di essere costituita da Stati nazionali i quali danno di norma risposte nazionaliste alle situazioni di crisi. Nei Paesi più legati alla religione si avrà un nazionalismo di tipo religioso, mentre invece nei Paesi cosiddetti pagani, come l’Ungheria, si avrà un nazionalismo diverso, non confessionale, nel quale la divinità è rappresentata dalla nazione per coloro i quali si ritrovano in questo culto. Così è sempre molto facile che quando ci si trova davanti a una crisi la risposta sia sempre di tipo nazionalista. Ed è quello che stiamo vivendo oggi in Europa. Ripeto, non si è venuta a creare un’identità unitaria europea, ci sono invece diverse identità nazionali, che tendono ognuna ad affermare la propria supremazia all’interno del Continente. Come succede nel mondo del calcio in cui le diverse squadre dicono «noi giochiamo meglio, vinciamo e perciò siamo i più forti». In occasione del cinquantesimo anniversario dell’insurrezione popolare ungherese del 1956, ho preso parte a un convegno a Roma, nel quale ho detto ai presenti che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave in Europa."
Siamo in una fase di decadenza europea?
"Quello di “decadenza” è un concetto del XIX secolo. Se pensiamo alla letteratura, per esempio a quella francese dell’epoca, potremmo associare questo termine a Baudelaire, per esempio. Ma in politica cosa può significare questo termine riferito all’Europa? Possiamo pensare alla società borghese o piccolo-medio borghese, che nel XIX secolo stava perdendo la sua ragion d’essere, ma questo decadentismo a cosa ha portato? Alla Prima guerra mondiale, al trionfo stesso dei nazionalismi, dell’uomo forte che rappresentava comunque la vittoria sul decadentismo. Prendiamo ad esempio Mussolini, che non era decadente: l’Italia del ventennio non era un Paese decadente, così come non lo erano Hitler e il Terzo Reich. Più che di decadenza parlerei, in riferimento a oggi, di nichilismo, che non è caratterizzato dalla caduta di una classe sociale, ma da un crollo nel quale le persone non riescono più a distinguere il bene dal male, e non credono in niente. E questo forse è ancora più pericoloso."
È il momento di Putin?
"Non parlerei di era di Putin perché, anche se è vero che, da un lato, la politica europea è rappresentata da lui, da Erdoğan e anche da Orbán, che fa parte di questa categoria di uomini politici, dall’altro lato ci sono Angela Merkel e papa Francesco che rappresentano una diversa politica europea. In questo momento non vedo nessuno prevalere sull’altro. Vedo piuttosto una sorta di equilibrio fra questi modelli."
Possiamo dire che esista in Europa un effetto Orbán? Pensiamo, ad esempio, alla sua influenza all’interno del Gruppo di Visegrád e all’attuale governo polacco autoritario e conservatore che ha fatto scelte simili a quelle già operate a suo tempo dal governo ungherese del Fidesz.
"Se pensiamo alla Polonia, c’è da considerare che Jarosław Kaczyński è venuto prima di Viktor Orbán. A parte questo, ritengo che il primo ministro ungherese voglia vestire i panni dell’uomo forte, del primo violinista nell’orchestra dei Quattro di Visegrád. A dire il vero, però, penso anche che Orbán non voglia che il Paese esca dall’Unione Europea: credo che voglia piuttosto prendere le redini dell’UE e guidarla."
Veniamo alla crisi migranti. Sembra proprio che l’Unione Europea non sia stata in grado di far fronte all’emergenza e alle reazioni dei diversi Paesi che hanno scelto la politica della chiusura nei confronti dei flussi migratori, anche di quelli provenienti da scenari di guerra.
"I governanti europei si trovano in una situazione di grande imbarazzo, ma qui c’è da fare un ragionamento preliminare: partiamo dalla considerazione che il diritto moderno è fondato sui principi di quello francese postrivoluzionario. Esso prevede l’esistenza del diritto del cittadino e del diritto dell’essere umano. Ora, con la crisi migranti, questi due diritti sono entrati in conflitto. Se ragioniamo in termini di diritti umani e ci riferiamo alle persone che scappano da scenari di guerra e da situazioni di grande crisi, diciamo “accogliamoli, che vengano pure. Dall’altra, abbiamo il diritto del cittadino che decide chi far entrare in un dato Paese e chi no. Tali diritti sono entrati in rotta di collisione in questi ultimi anni e ancora non si trova una soluzione, cosa che porta a un notevole disagio fra i governi dell’UE."
Un’Europa del disagio e forse dell’impasse, da un certo punto di vista, ma anche un’Europa della chiusura e dei reticolati ai confini, vedi i casi di Ungheria, Austria e Macedonia, quando sembrava che l’epoca del filo spinato alle frontiere fosse ormai finita.
"La chiusura dei confini da parte dell’Ungheria, dell’Austria e della Macedonia, non significa che sia stata trovata una soluzione. In questo momento è in atto un grave conflitto, ci sono stati degli accordi fra l’Unione europea e la Turchia, ma non si sa cosa ne sia stato davvero, anche perché poi nessuno ne ha più informato. In realtà, non intendo parlare di soluzioni anche perché la soluzione è propria dei problemi matematici e questo non lo è. Dico, piuttosto, che questa situazione si potrebbe gestire facendo una netta differenziazione fra profughi, ossia tra coloro i quali chiedono asilo politico, e i migranti. Se parliamo di profughi politici, abbiamo come riferimento principe il diritto dell’uomo, che ogni Paese deve essere tenuto a rispettare, non riesco a immaginare il contrario. Ogni Paese deve avere l’obbligo di accettare la richiesta d’asilo da parte di profughi, di persone che vengono da scenari bellici. Mentre invece se parliamo in generale di migranti, ossia di persone che lasciano il loro Paese non perché vi siano la guerra o un sistema che dà luogo a persecuzioni politiche, etniche o religiose, ma solo per trovare un lavoro migliore e migliori condizioni di vita sul piano economico, allora va fatto un discorso diverso. Forse, in quel caso dobbiamo dare la priorità ai diritti del cittadino."
Pensa che, a maggior ragione in questo momento, possa essere utile, a livello europeo, l’azione di un movimento di sinistra moderno e intraprendente in grado di impegnarsi per una democrazia più stabile e compiuta?
"Movimento di sinistra è un termine molto ampio, perché può significare diverse cose. Al suo interno ci può essere anche l’estrema sinistra populista, che in alcuni Paesi si sta rafforzando. Io credo che, in realtà, ci sia bisogno della mobilitazione della società civile in movimenti che vogliano l’instaurazione o la restaurazione di una democrazia liberale, con la quale dar luogo a un’equa redistribuzione della ricchezza. Ci vorrebbero dei movimenti capaci di impegnarsi dal basso per garantire i diritti dei cittadini, delle persone, delle minoranze e di focalizzare il loro impegno sull’istruzione. Oltre a questo, occorre lavorare molto per la fine degli squilibri sociali ed economici. Se la forbice tra i benestanti e gli strati più disagiati della popolazione continua ad allargarsi i vari populismi prospereranno e la gente finirà veramente col credere alle soluzioni prospettate dai loro leader."
Fonte: dirittiglobali.it
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