di Nadia Urbinati e Andrea Pertici
Il risultato del referendum del 4 dicembre ci restituisce una Costituzione forte. Forte sin dalla nascita perché frutto di un lavoro comune dei partiti rappresentati alla Costituente, che la elaborarono insieme nella Commissione dei Settantacinque e l’approvarono a larghissima maggioranza in Assemblea, con l’88% dei voti favorevoli. Tutti, al di là delle posizioni politiche, spesso molto distanti, si riconobbero sempre in quel testo. Dal referendum del 4 dicembre la Costituzione esce addirittura rafforzata, perché gli italiani hanno chiaramente detto (con 19.420.730 di “No”), di non volere “riforme grandi” che modifichino radicalmente gli equilibri tra i poteri e, implicitamente, le stesse forme di attuazione e tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili.
Naturalmente, questo non impedisce le mirate modifiche e gli interventi di manutenzione che siano ritenuti necessari da un’ampia maggioranza parlamentare.
Una Costituzione forte, anche per la sua stabilità, è in sostanza - per dirla con la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (ex parte Milligan, 1866) - «una legge per il tempo di guerra e per il tempo di pace», in grado di fronteggiare cioè qualunque situazione (anche straordinaria) e di contenere il potere, chiunque lo detenga in quel determinato momento.
Stupisce, quindi, che modifiche radicali o ribaltamenti della Costituzione, volti a indebolirla, alterando l’equilibrio tra Governo e Parlamento e introducendo disposizioni complesse e talvolta oscure (rimesse fatalmente all’interpretazione della maggioranza di turno), siano (stati) sostenuti come argini nei confronti del “populismo”. Al di là delle approssimazioni sull’utilizzo di questo termine, infatti, proprio il “rischio” di un governo populista dovrebbe spingere a salvaguardare una Costituzione forte nella limitazione del potere della maggioranza. Che poi è il senso stesso della Costituzione.
Invece - e paradossalmente - abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti, sostenendo la riforma con argomenti propri della retorica dell’anti-politica, come quello di “meno politici” o di “meno poltrone”. Al di là di tutte le valutazioni che si potranno fare, possiamo dire che quello del 4 dicembre è stato un voto in effetti contro il populismo — quello più insopportabile quello del governo, come ha ben chiarito Ezio Mauro all’indomani del voto su questo giornale.
Certamente, la retorica divisiva e l’uso plebiscitario del referendum costituzionale hanno fagocitato altri populismi. E possono ora favorire un fenomeno che deve destare preoccupazione: quello di pensare che la difesa della Costituzione sia essa stessa un partito, che il “no” a quella revisione contenga un messaggio che vada oltre l’obiettivo specifico, raggiunto il 4 dicembre. Lo scarsissimo spazio che i media hanno inteso dare durante la campagna referendaria alle posizioni politiche — e costituzionali — più ragionate e ragionevoli ha una sua responsabilità nell’aver istigato questo uso populista della battaglia per il “No”. Una responsabilità che si assomma a quella di chi, a fronte di una richiesta di rottura rispetto a modalità decisionali verticistiche e chiuse rispetto ai cittadini, non si preoccupa, oggi, di elaborare risposte convincenti, ma continui ad arroccarsi nei palazzi, offrendo risposte sbagliate o insoddisfacenti.
Tutto questo giustifica la preoccupazione circa il permanere di una pratica e di un linguaggio populisti, il persistere di populismi opposti, di una lotta politica che è giocata con le armi plebiscitarie. Sì, abbiamo una Costituzione capace di limitare il potere di chiunque sarà in maggioranza e anche le loro tendenze populiste, ma è irresponsabile sottovalutare l’erosione delle aggregazioni partitiche a tutto vantaggio dei vertici plebiscitari che questa lunga campagna ha consolidato.
Riemerge così il significato portante della Costituzione come testo condiviso da tutti e a tutti capace di “opporsi” in particolare quando siano al potere. Con il referendum questo significato è stato confermato, e anzi riconquistato (per la seconda a distanza di dieci anni). Si tratta di un significato da custodire (senza che questo comporti la rinuncia a interventi puntuali e di manutenzione costituzionale) da parte di tutti, e anche contro ogni altro tentativo di farne un programma di lotta politica, quasi che ci possa essere un “partito della Costituzione”.
La Costituzione non poteva diventare il testo di una parte che affermava la “sua” riforma così come non può essere rivendicata come “propria” dalla parte che a quella stessa riforma si è opposta. Chi si è espresso contro la riforma costituzionale per avere una Costituzione forte e capace di unire non può farne infatti un documento fondante per una parte o - peggio - per un partito. I partiti - potremmo dire riprendendo Costantino Mortati - sono “parti totali” mentre la Costituzione è “il totale” nel cui ambito si svolge il confronto tra i diversi partiti politici della Repubblica.
Fonte: La Repubblica
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