di Maurizio Montanari
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città. La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi.
Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’ dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi. L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico’ extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no. Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’ imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. Quanto poco ci vorrebbe a pisciare su anni ed anni di faticosa costruzione di rapporti a volte difficili, densi di elementi transferali da tenere sotto controllo. Quanta fatica per raggiungere, con i limiti della mia imperfezione, la meta dell’uno per uno. Come entreranno in seduta tutti questi analizzanti che votano no? Anni ed anni di rettifica personale, con lavori minuziosi e faticosi sulla pelle del proprio inconscio, resisteranno alla diagnosi di massa effettuata dal video? E quelli che son padri e votano no, o che hanno padri che votano no, sono pronti a vivere da mummie, affette dalla patologia del masochismo? Si tramuterà in un allungamento delle sedute per elaborare la diagnosi inaspettata, o basterà non parlarne?
L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva. Usare la diagnosi per stigmatizzare, categorizzare, delocalizzare tutto quello che sfugge alla propria capacità di ordinare simbolicamente, risponde alla necessità arcaica del dipingere il dissenziente come barbaro, malato, una sorta di golem mummificato ed angosciante che cammina per strada terrorizzando la tranquilla popolazione e premendo alle porte, come nella serie Wayward Pines. Taglio di bistecca con mannaia; tre pezzi di carne: i vecchi mummificati, gli adolescenti perenni abbagliati da grillo, e, finalmente, gli ‘eletti’ dotati di verbo, idee e sognatori. E pazienza se sul sito dell’ordine degli psicologi trovo scritto che: lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza.
Diceva quel tale ‘Le eresie devono pur esistere’, ed è proprio questo il vero spirito laico dello psicoanalista. Aprire la porta ed accogliere tutto ciò che è dissonante, incomprensibile. Quell’elemento di sorpresa che distingue la clinica analitica da un processo di normalizzazione. All’analista non frega nulla dell’ordine pubblico.
Ridiamo pure delle mummie ma, dietro al grottesco, si nasconde il giudizio. Chi fa lo psicoanalista, lo sa. Essere masochista, paranoico, fobico, schizofrenico, dissociato, non è una colpa. Sono strutture che il soggetto si trova ad abitare, lui nonostante. La psicoanalisi non giudica, accoglie. Ho ricevuto un insegnamento in questo campo, giacché tra tanti maestri fallaci, qualche clinico rigoroso l’ho incontrato, seppur tardi. L’insegnamento consiste in questo: quando parli di clinica, e fai il mestiere dell’analista, usi il linguaggio al pieno delle sue potenzialità, gravido delle sue implicazioni e devi essere pronto a sopportare le conseguenze di ciò che dici. Il masochista non è secondo Lacan semplicemente colui il quale gode soffrendo, bensì un deietto(1). Dunque un soggetto deresponsabilizzato. L’accozzaglia del no sapeva di essere gruppo di burattini in cerca di padrone, come Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’? In realtà i mille no che io conosco, il mio compreso, affondano radici in motivazioni ben coscienti e consapevoli. Molti di loro semplicemente hanno pensato di dire no perché questa riforma è fatta male. O perché non amano Renzi e la sua compagine. O perché hanno i loro motivi.
Se usassimo il giudizio clinico fuori dallo studio, stravolgendo come detto l’essenza stessa della psicoanalisi, la Leopolda potrebbe apparire un luogo di obbedienza, dove si vota sì perché è ciò che ha detto il capo. Potrei abusare delle nozioni diagnostiche riempiendomi la bocca di parole come “forza della legge perversa”, alienazione e fedeltà. Potrei addirittura scomodare la perversione. Il perverso in fondo non è che un uomo di fede, un essere che cerca, edifica e venera un Dio al quale votarsi. Ma non farei lo psicanalista. Ciò nonostante nessuno riuscirà mai a togliermi dalla testa la convinzione che nel caso della nomina di Telemaco abbia agito una vera lex perversa. Tramutato in Caino, fa fuori il fratello di partito e ne prende il posto. Senza passare dalle urne, senza mai quell’incontro con il principio di realtà chiamato voto. Come mummia continuo a sedermi su vecchie e solide certezze: per cambiare la Carta Costituzionale, devi sapere cosa fai. Ma, soprattutto, devi esser certo di rappresentare davvero l’intenzione popolare, la maggioranza del paese, e questo, lo si voglia o meno, lo si ottiene attraverso il voto. Diversamente ti atteggi a minoranza autoeletta ed illuminata, che ti porta a redigere un quesito referendario nel quale mostri i pregi di questa tua modifica, ma tieni i difetti nella stilografica.
Liquidare l’avversario perché indossa indumenti diagnostici, significa adottare una micidiale prospettiva secondo la quale la protesta, il dissenso, diventano ipso facto paranoiche, perché attentano alla verità del capo. Ecco allora il vecchio, democristiano, ritorno di noi vs loro. Con Berlusconi gli altri erano ‘invidiosi’, oggi invece accomunati da una unica trinariciuta ‘passione masochista’. La “Guerra all’Eurasia” è stata dichiarata e la costruzione del nemico, che ora è anche malato, prende forma nel coro dei plaudenti, concretizzandosi in un ‘fuori fuori’, rivolto agli ex amici di partito, vissuti come un’orda compatta di Uruk-Ai che cinge d’assedio le insonorizzate mura della Leopolda. Un’orda non pensante, che sta per entrare nella stanza dove alcuni eletti stanno riscrivendo la carta, anche per il loro bene, e questi nemmeno lo sanno. Come nel film ‘Gattaca’, come nelle parole di Philp Dick ‘Coloro che ti sono avversi, sono pazzi’.
Questo perché il potere, alla fine, è sempre uguale a sé stesso, per sua stessa natura, è paranoico, e non tollera le voci dissenzienti perché è forcluso. E la sua forclusione è direttamente proporzionale alla forza muscolare che mette in campo per zittire le voci dissonanti. Libero di fare quel che vuole dentro a regole rigide impartite agli altri, costituisce quel discorso che la psicoanalisi deve avversare, non lisciare. Può essa essere messa al servizio di un potere che si blinda, che cambia i direttori dei telegiornali in corso d’opera per garantirsi una miglior audience? Che manganella i dissenzienti fuori le mura? Non mi si dica, per l’amor di Dio, che i manifestanti fermati alle porte della Leopolda dalle forze dell’ordine e dal servizio di sicurezza del Pd erano tutti facinorosi black block. Non mi si cerchi di avvalorare la tesi fatta passare dal palco: ‘là fuori loro ci odiano!’ Era Berlusconi ad usare la logica dell’amore vs odio, che tanto gli ha fruttato. Al netto delle condotte violente, era la voce contrastante. Erano quel reale inassimilato che, se forcluso a manganellate, torna, e sempre tornerà, come insegna Lacan, dalla finestra, che dovrà essere sempre più spessa, più barricata. Per proteggere gli eletti dall’avanzare scomposto del nemico, che avrà le sembianze vieppiù del persecutore, del perturbante, del kakon. ‘La mummia’, ‘il vecchio’, ‘il conservatore’, ‘ il cattivo partigiano’, passerella linguista degli orrori a significare che nell’altro qualcosa non funziona, e dentro alla piramide c’è la salute e la tranquillità.
Nessuno in realtà li odia. Né tantomeno truppe cammellate vogliono rubare loro i sogni. Sono loro ad avere un sogno che cercano di imporre come buona pratica di vita urbi et orbi. Hanno un sogno, ma non rappresentano null’altro che sé stessi. Staccati dall’elettorato, incuranti della loro effettiva rappresentatività, paventano predoni onirici, quando non si tratta che della gente, degli uomini del quotidiano. Quella stessa gente che del referendum sa poco o nulla, malamente informata, e per nulla istruita. Il 33% degli Italiani ha appena sentito parlare delle questioni referendarie. Il 14% dichiara di non saperne nulla. E qua, la nuova compagine telemacoide dimostra di aver del tutto abdicato all’erotica dell’insegnamento, quella cioè di informare le masse, dando la giusta dose di conoscenza. Per dirla alla Orwell “l’ignoranza è forza”.
Io sono un uomo di sinistra dunque abissalmente lontano da Renzi, dal renzismo e dalla claque della Leopolda. E poco mi interessano. Dunque queste righe non sono da intendersi come una sorta di dichiarazione politica, non sarebbe questa la sede. Ma poiché il mestiere dell’analista tento di praticarlo, mi è parso doveroso ricordare che l’analisi è sfida, è verità minoritaria. E’ incontro con l’alterità, messa in discussione di un sapere, qualunque esso sia. L’analisi, in quanto tale, è una resistenza all’omologazione, al dire comune. Il dire analitico rompe le palle al padrone, non lo blandisce. E’ la sfida di ogni giorno nell’aprire la porta a uomini e donne che non hanno denaro, e hanno sempre meno parole. La vera sfida sta nel parlare con la medicina, con la psichiatria. Anche con la politica, ma non accovacciati al camino mentre il padrone sorseggia il tè.
La sfida della psicoanalisi sta nell’essere laddove viene vista con sospetto, con timore. Anni passati a discutere con il Pd di Modena (che un tempo non lontano ospitava la federazione del partito comunista più grande d’Europa) di eutanasia, vittime del fine lavoro, della non legge sulla tortura, di perversione e di terrorismo, delle violenze perpetrate da parti delle forze di polizia. Ospite, relatore ed organizzatore in dibattiti dove alla fine del confronto ci sono state strette di mano cordiali, sorrisi. E niente più . Niente selfie, niente cene o foto di gruppo. Cortesia fredda ma gentile. L’utilizzo che ho fatto della psicoanalisi a quei tavoli, è il solo che conosco. Portare domande, interrogativi, questioni che possano puntare il dito sulla mancanza del maitre, sul suo sentirsi pieno nel dare risposte. La psicoanalisi non può dunque essere di casa dal padrone. Possono invece esserlo gli uomini, questo si, con le loro idee e le loro aspirazioni. Ma l’uso dell’analisi si fonda sul suo essere quotidianamente impegnata in un processo di ri-territorializzazzione. Credo che il suo vero valore stia in quell’essere territoriale e non padronale, come Deleuze e Guattari sostenevano a proposito della letteratura.
“Odiate ogni letteratura da padroni”, “Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, sognano una cosa sola: assumere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di stato”.
Telemaco, dal suo palco autoreferenziale, non poteva dire ‘lo faccio perché io lo dico’, sarebbe stata una tautologia psicotica, un ‘farsi un nome’. La legittimità ad incarnare il posto di Telemaco, presuppone un Ulisse. Un padre, poi superato, nel solco del quale ci si muove. Già ma dove trovarli, ora che ci sono solo mummie in giro? Uno a dire la verità c’è stato. Col patto del Nazareno, che fece storcere più di un naso, stabilì un rapporto di non belligeranza, e di quasi filiazione nei programmi con Berlusconi, più di una volta sorpreso a rispecchiarsi nelle gesta del toscano. Poi le strade si sono divise. Dove trovare dei padri, dunque? Se i padri nobili mancano, si arruolano i padri morti. Quello che il gruppo leopoldino ha messo in atto è una vera e propria riesumazione del padre defunto, artatamente ricolorato al quale, come nella macabra scena de ‘La casa delle finestre che ridono’, si fanno pronunciare quelle parole mai dette che permettono di agire in nome e per conto di, guadagnando così la linea conservativa patrilineare. Berlinguer, Nilde Iotti, Indro Montanelli, Giovanni Falcone. Tutti morti, tutti per il si.
'(…e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria è più prosa che poesia..'. )
Come Rino Gaetano, fatico a vedere il volto poetico di Telemaco, che non è poi così nuovo. Scuola democristiana, Sindaco, presidente di Provincia. Se lui è poeta, ai miei occhi prosaici ci sono i frutti del suo lavoro. Mettere i propri uomini ai posti chiave dei media, è roba vecchia. L’appoggio da parte di parlamentari di destra, alcuni dei quali plurinquisiti, è un residuo del vecchio trasformismo. Ho visto troppi insegnanti scaraventati in giro per lo stivale, ridotti a merce viaggiante in omaggio al progetto della ‘buona scuola’. Altrettanti giovani annichiliti e depressi da un mercato del lavoro che gli sbarra la strada, facilitato in questo dal mirabile progetto delle ‘tutele crescenti’, per vedere il premier nella sua versione dantesca. Più prosaicamente ho visto metodiche da vecchia Repubblica, compresa la mancia da 80 euro. Non vedo poesia, dicevo. E mentre ascolto Giorgio Gori, partecipante della prima Leopolda divenuto poi sindaco affermare che ‘Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe l'esame di cittadinanza’, trovo in giro una vecchia dichiarazione del Pd, prima che la rottamazione avesse inizio:
“La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”. Partito Democratico, 2008…
Note
[1] ’Il volere invece del masochista è quello di occupare rispetto all’altro la posizione di oggetto, di cosa , di elemento disponibile, sacrificabile’. Ancora, ‘Ciò che il masochista intende far apparire (...) è che il desiderio dell’Altro fa la legge(…) ‘Il masochista appare in questa funzione che chiamerei quella del deietto’.
Articolo pubblicato su psychiatryonline.it
Fonte: sinistrainrete.info
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