di Dario Dongo e Marta Strinati
Anche oggi, come ogni giorno, c’è chi trascorre la giornata raccogliendo frutti a 20 metri di altezza (come un palazzo di 6 piani), servendosi di un’asta che pesa 12 chili. È il popolo del palma, in Indonesia, fotografato da Amnesty International in un vibrante rapporto di denuncia. Indagini, interviste e fotografie che smascherano la grande bugia del «palma sostenibile certificato» da Rspo (Roundtable on Sustainable Palm Oil). Bambini di 8 anni devono rinunciare alla scuola, all’infanzia, per affrontare un lavoro che strema il fisico e brucia le mani. Un soccorso necessario ai loro padri che, se entro fine giornata non riescono a consegnare una tonnellata di raccolto, perdono una quota della già misera paga.
Così lontano tuttavia, lo sfruttamento dei lavoratori indonesiani in agricoltura sbiadisce e anzi riceve implicite approvazioni, come quella recente di un membro del governo Renzi, Andrea Olivero. Viceministro dell’Agricoltura, lo stesso dicastero che ha celebrato la tanto attesa legge anti-caporalato, eppure si è schierato pubblicamente a favore di questo grasso tropicale ottenuto in condizioni estreme, solo per sostenere Ferrero e la sua Nutella. Una scelta inopportuna, evidentemente, che peraltro la dice lunga sullo scollamento maturato tra i rappresentanti di governo e gli italiani, ormai chiaramente consapevoli della necessità di arginare l’invasione di olio di palma, pericoloso per la salute, per l’ambiente, per i lavoratori delle piantagioni e movente primario del land grabbing, la rapina delle terre.ù
A rinfrescare le conoscenze sul tema provvede ora Amnesty International, che ha intervistato 120 lavoratori impiegati nelle piantagioni collegate alla Wilmar, colosso indonesiano nel commercio di olio di palma, elaborando un rapporto che merita di essere letto. Ecco cosa racconta.
Il lavoro nelle piantagioni è tutto manuale, molto faticoso. I raccoglitori usano un bastone pesante 12 kg per staccare i grappoli da piante alte fino a 20 metri. Poi raccolgono da terra i grappoli: ognuno pesa dai 10 ai 25 kg e fornisce da mille a tremila semi utili. Li caricano su una carriola e li trasportano – su un terreno dissestato – fino al punto di raccolta. Le bacche devono arrivare al frantoio entro 24 ore.
Da qui l’olio estratto viene consegnato alle raffinerie (la sola Wilmar ne possiede 15, oltre a piantagioni e frantoi), dove viene processato. Vale la pena ricordare che qui avviene la raffinazione a elevata temperatura, causa dei contaminanti cancerogeni e genotossici che residuano nell’olio di palma impiegato anche negli alimenti, come segnalato dall’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare.
Un lavoro così usurante è pagato a cottimo con salari da fame e un meccanismo di bonus-malus illegale. Modalità fuorilegge anche in Indonesia, paese che aderisce all’Ilo, l’Organizzazione Onu per la tutela dei diritti dei lavoratori, e che ha legiferato stabilendo l’orario di lavoro standard in 40 ore settimanali, e fissando per gli straordinari un tetto di tre ore al giorno (o 14 ore a settimana) per un compenso da 1,5 a 3 volte il salario orario. La norma (decreto 7/2013) vieta esplicitamente che il lavoro a cottimo sia pagato meno del salario minimo, ma questo succede sistematicamente, complice l’assenza di controlli in un settore controllato da colossi incontrastabili.
Nelle aziende su cui ha indagato Amnesty International il salario di un raccoglitore di frutti della palma varia in funzione della quantità consegnata: obiettivi imposti dall’azienda, ma in molti casi irraggiungibili, anche lavorando più delle 8 ore giornaliere. Un esempio: Abm (un fornitore di Wilmar) stabilisce per i lavoratori un obiettivo di raccolto giornaliero di quasi una tonnellata (950 kg) dagli alberi piantati nel 2006 (gli obiettivi variano in funzione dell’età delle piante: iniziano a dare frutti dopo 3 anni e raggiungono il picco massimo tra il sesto e il decimo).
Se il raccoglitore raggiunge l’obiettivo percepisce il salario concordato, se lo supera riceve un bonus (una trappola per i bambini, che finiscono per lasciare la scuola e lavorare assieme ai genitori). Ma se fallisce l’obiettivo di raccolta riceve un salario ridotto di un settimo, indipendentemente dalle ore lavorate. Un lavoratore di Spmn ha testimoniato ad Amnesty International che l’azienda impone un obiettivo di raccolta di 24 sacchi di frutti «puliti» in cambio di 84,116 rupie indonesiane (circa 6 euro), che rappresentano il salario minimo. In realtà, alla fine di una giornata di lavoro l’uomo non riesce a consegnare più di 18 sacchi e la paga scende a 59.400 rupie (circa 4 euro), ben inferiore al salario minimo.
Violazioni simili si verificano nei confronti degli addetti alle unità di manutenzione degli impianti (per lo più donne). Qui c’è un carico di lavoro quotidiano. Se la lavoratrice non riesce a smaltirlo, si accumula al giorno successivo. Il volume di lavoro da svolgere è misurato in quantità di prodotti chimici da spargere nella piantagione. Per esempio, alla Pt Milano bisogna spruzzare nove serbatoi di prodotti chimici ogni giorno oppure diffondere da 15 a 17 sacchi di fertilizzanti. Ma se viene a piovere, la paga salta o viene dimezzata.
Oltre che faticosa, questa mansione prospetta rischi sanitari anche gravi. Tra i prodotti chimici che i lavoratori devono diffondere ve ne sono alcuni molto pericolosi per la salute, vietati sia dall’Unione europea sia dalla stessa Indonesia, tra i quali il paraquat.
Tenendo presente il tipo di lavoro appena descritto, è facile comprendere quanto sia feroce «costringere» i bambini a lavorare nelle piantagioni. Ancora una volta, la mancanza di controlli lascia mano libera allo sfruttamento. La legge indonesiana infatti stabilisce in 15 anni l’età minima del lavoratore e in 18 anni l’impiego in attività pericolose per la salute psicofisica e per lo sviluppo sociale del giovane. Ma Amnesty International ha raccolto prove schiaccianti sull’impiego di bambini in attività pericolose nelle piantagioni di proprietà di due società controllate Wilmar (Pt Daya Labuhan Indah, Pt Milano) e di tre fornitori della stessa Wilmar (Abm, Spmn, e Pt Hamparan).
Tutti i bambini impiegati hanno meno di 15 anni, alcuni hanno iniziato a lavorare a 8 anni. La maggior parte di loro aiuta i genitori a raggiungere l’obiettivo di raccolta giornaliera nel tempo libero: dopo la scuola, nel fine settimana e nei giorni festivi. Ma alcuni hanno abbandonato la scuola per lavorare tutto il giorno.
Trasportano carichi pesanti, i sacchi con i frutti, spingono le carriole sul terreno dissestato della piantagione. Rischiano sia lesioni per l’eccessiva fatica, sia le malattie dovute all’esposizione alle sostanze chimiche continuamente diffuse.
I ricercatiori hanno dovuto faticare per rompere l’omertà dei lavoratori adulti che portano i propri bambini nei campi. Il terrore di perdere il lavoro è più forte della protezione dei figli. Infine, Amnesty International è riuscita a intervistare 5 padri raccoglitori e 5 bambini impiegati nello stesso lavoro. Come un ragazzo di 14 anni, che ha raccontato di lavorare da due anni nella piantagione di una filiale di Wilmar: «Ho lasciato la scuola per aiutare mio padre perché non poteva più fare il lavoro. Lui era malato. Vorrei tornare a scuola».
Sullo stesso percorso è avviato un bambino di 10 anni, che ha già abbandonato la scuola e da quando aveva 8 anni aiuta il padre che lavora presso un fornitore Wilmar. A dispetto della legge e della policy sventolata dalla Wilmar e dai suoi fornitori, tutti sanno. Il padre ha detto: «Il caposquadra vede che i miei figli mi aiutano, dice che è un bene». Anche i dirigenti vedono. Uno di loro «è venuto quando il mio bambino mi stava aiutando e non ha detto nulla. Non esce dalla macchina, urla gli ordini al caposquadra senza scendere dall’auto».
Fonte: Il manifesto
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