di Simone Fana
Insieme a Giuseppe Di Vittorio e Vittorio Foa, Bruno Trentin rappresenta certamente il leader sindacale più amato nella storia del movimento operaio italiano. La sua intensa attività intellettuale e la sua lunga militanza nella CGIL e nel PCI hanno esercitato un’influenza profonda nella cultura della sinistra sindacale e politica, che si è estesa ad intere generazioni. Questa attitudine ad interrogare mondi e generazioni estranee al sindacalismo di classe sarà uno dei tratti del pensiero di Trentin che lo renderanno punto di riferimento per un variegato mondo di realtà sindacali e di movimento.
In questo saggio si proverà a tratteggiare alcuni nodi della riflessione di Trentin, con l’ambizione di situare e connettere la ricca esperienza intellettuale con alcune tappe principali della vicenda storica del maggior sindacato italiano dal dopoguerra ad oggi.
In questo saggio si proverà a tratteggiare alcuni nodi della riflessione di Trentin, con l’ambizione di situare e connettere la ricca esperienza intellettuale con alcune tappe principali della vicenda storica del maggior sindacato italiano dal dopoguerra ad oggi.
Nato in Francia, dove trascorse l’adolescenza, Bruno Trentin si avvicinerà da giovanissimo allo studio del marxismo e alle opere teoriche dello stesso Marx, che finiranno per influire sulla sua visione del sindacato di classe e sulla critica rigorosa al modello capitalistico. Un processo di maturazione intellettuale che troverà nella lotta partigiana contro il nazi-fascismo un passaggio cruciale per segnare la visione del mondo del giovane Trentin. Al termine della guerra si trasferisce ad Harvard, dove vince una borsa di studio, prima di approdare alla CGIL in qualità di ricercatore dell’Ufficio studi economici, diretto allora da Vittorio Foa.
L’interesse a restituire la complessità delle trasformazioni storiche nel mondo del lavoro lo porteranno ad interrogarsi sulla relazione tra la configurazione materiale dei rapporti di produzione, le teorie e le visioni del mondo che ne forniscono le basi di legittimazione. A questo aspetto dedicherà uno dei suoi primi saggi, pubblicato nel 1962, intitolato Ideologie del neo-capitalismo, dove si interrogherà sui nessi tra le trasformazioni degli assetti dell’impresa capitalistica e la diffusione delle teorie delle human relations di importazione americana. Un testo che trae origine da un ampio dibattito in seno al PCI e alla CGIL, dove matureranno orientamenti e posizioni divergenti sull’analisi delle fasi di sviluppo del capitalismo italiano, sintetizzate negli atti del convegno Tendenze del capitalismo italiano del 1962. La lettura delle influenze esercitate dalla scuola del neo-istituzionalismo sulla cultura sindacale e sul modello di relazioni industriali della Cisl diviene il terreno di indagine privilegiato per interpretare gli sviluppi del sistema capitalistico italiano. Il richiamo alla partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa e la centralità della produttività come principio ordinatore delle relazioni di potere nei luoghi di lavoro, verranno lette da Trentin come una convergenza culturale e di interessi tra il sindacato bianco e il governo a guida democristiana. La volontà di comporre il conflitto in una logica concertativa e tecnocratica diverrà strumentale ad un riassetto dei poteri nella società italiana, in chiave corporativa. Un elemento che si lega alla convinzione sull’interdipendenza tra le forme della produzione capitalistica, la struttura delle relazioni industriali, le istituzioni politico-rappresentative e le forme di organizzazione della partecipazione democratica.
Da questa angolatura Trentin muoverà le sue critiche alla politica di riforme del primo governo di centro-sinistra (1963-1964), individuando nel programma di intervento pubblico promosso dallo Stato una strategia di integrazione del conflitto di classe. Ad una teoria della programmazione centralizzata, diretta e pianificata dallo Stato in sintonia con le forze imprenditoriali, Trentin contrapporrà un’articolazione democratica della rappresentanza, rifiutando la tendenza ad ancorare la dinamica salariale alla produttività del lavoro. In aperto contrasto con il movimento sindacale cattolico individua nella dipendenza del salario dalla produttività una resa del sindacato da un terreno di lotta politica, che investa i rapporti di produzione e la direzione degli investimenti, ad una pratica redistributiva e ancillare ai meccanismi di accumulazione.
La definizione degli obiettivi comuni in materia di sviluppo economico assume, nella prospettiva dello studioso Trentin, il tentativo di sciogliere il potenziale “politico” del conflitto di classe dentro una visione tecnocratica, guidata dagli interessi del capitalismo di Stato. La dipendenza della dinamica salariale dai livelli di produttività media, definito in uno schema di centralizzazione dell’intervento pubblico avrebbe come risultato di indebolire l’azione rivendicativa del sindacato, che vedrebbe ridursi lo spazio di rivendicazione generale, a partire dal controllo sull’organizzazione del lavoro. Un elemento rafforzato dall’analisi del contenuto delle politiche di riforma, che non ponendo in discussione gli assetti proprietari dell’impresa monopolistica, vanificherebbe il portato democratico dell’impianto programmatorio, riducendo gli spazi di partecipazione operaia al disegno riformatore.
A questa visione del sindacato come soggetto di “governo” di una politica di programmazione, convergente con gli interessi dell’impresa monopolistica, Bruno Trentin contrappone una lettura antitetica che si richiama alla sua idea di autonomia del movimento sindacale. Da queste premesse teoriche, Trentin rintraccia nel ruolo dei Consigli di Fabbrica il terreno privilegiato in cui si delinea il ruolo del sindacato come attore della vita economica e democratica del paese. L’esperienza dei Consigli di Fabbrica nasce in Italia nel biennio infuocato 69-70 e risente del clima conflittuale che matura in Europa e negli Stati Uniti, in una fase generale di ripresa delle lotte operaie. Trentin ritroverà nell’esperienza consiliare le tracce di una tensione democratica che ha accompagnato il movimento operaio nei decenni precedenti, in quel tentativo di ricomporre l’unità di classe, in un legame sempre più stretto tra fabbrica e società. Ed è in questa prospettiva che Trentin individua nell’esperienza dei Consigli di Fabbrica una funzione di controllo sull’organizzazione del lavoro, centrale per orientare il processo di accumulazione capitalistica e allo stesso tempo un nuovo strumento di organizzazione democratica, in cui si esprime l’autonomia del movimento sindacale. Il conflitto distributivo sui fattori di produzione, sui tempi e ritmi del lavoro, sui diritti di formazione e informazione dei lavoratori e quindi sull’organizzazione interna del processo produttivo è il terreno su cui orientare il meccanismo di accumulazione e le scelte di investimento dell’impresa. Lontano dalle suggestioni che vedono i Consigli di Fabbrica come una risposta spontanea del sindacato di classe al potere gerarchico dell’impresa, Trentin riconosce la necessità di un sbocco politico dell’attività consiliare. La dialettica tra base e vertice nell’azione sindacale, tra movimento e organizzazione, diviene uno dei fattori centrali per imprimere un ruolo decisivo al movimento sindacale nella vita politica ed economica dello Stato. Da qui la necessità di garantire meccanismi di coordinamento tra la fabbrica e la società, tra le condizioni reali del lavoro e la loro unificazione nella politica di classe, che saranno al centro della sua visione del sindacato come soggetto politico. Un soggetto politico che non si limita ad un’azione redistributiva, ma che agisce sul piano della produzione, intervenendo sulle scelte allocative e distributive del capitale. Nella visione di Trentin, il controllo della produzione è fondamentale per incidere sui nodi di fondo dello sviluppo economico del paese. Come scrisse in un saggio del 1983:
"Investendo i problemi centrali, nodali della produzione e dell’occupazione e non solo della distribuzione del reddito, il sindacato cessa di essere, se mai lo è stato, una forza di mercato per diventare un soggetto politico a pieno titolo (p.222)."
Contro la visione che intende confinare il sindacato al ruolo di mediatore di interessi settoriali, Trentin contrappone l’idea del movimento sindacale come attore generale del processo di democratizzazione dello stato. Produzione e occupazione costituiscono gli ambiti di azione del sindacato, nonché i luoghi di formazione e consolidamento dell’autonomia del movimento sindacale, in grado di incidere sugli assetti dell’economia nazionale e sulla dimensione dei rapporti tra le forze produttive. Una lettura che trova una corrispondenza nella cultura del movimento operaio che si forma nel contesto delle lotte del biennio ’69-70 e nella prima parte degli anni ’70, vissute da Trentin nelle vesti di segretario della FIOM.
Il passaggio ‘da sfruttati a produttori’, per citare un celebre saggio dello stesso Trentin, investe la capacità del movimento sindacale di portare l’azione rivendicativa nel cuore della vita economica dello Stato, rovesciando i rapporti di potere, dai luoghi di lavoro all’insieme della società. La visione di un sindacato come soggetto politico si declina nel pensiero del segretario della FIOM nella rottura della divisione tradizionale tra sociale e politico, tra un’azione rivendicativa nei luoghi di lavoro e il piano istituzionale diretto alla conquista dello Stato. In aperta polemica con i sostenitori dell’autonomia del politico, da un lato, e i fautori di una concezione pan-sindacale e tradeunionistica dall’altro, intendendo con queste ultime tendenze l’accentuazione dei tratti corporativi della lotta operaia. (si rimanda al saggio di Sassoon nel volume già citato), Trentin propone l’unificazione del terreno di lotta economica con il piano complessivo della lotta politica.
Ai fautori del primato del politico, Trentin rimprovera il limite di una visione leninista, espressione di una “coscienza esterna” incaricata di tradurre e interpretare il piano della rivendicazione operaia, riducendo il ruolo del movimento sindacale a funzione dell’egemonia del partito. E’ utile ricordare che tra i sostenitori del “primato del politico” Trentin riconduce sia alcune tendenze del pensiero operaista (che stavano assumendo sin dagli anni ’80 una prospettiva “riformista”, a partire dalla concezione redistributiva del ruolo dello Stato) sia la tradizione rivoluzionaria di derivazione marxista. Una critica che verrà ripresa con forza ne La Città del lavoro, in cui Trentin non lesinerà accuse di “astrattismo” al Gramsci di “Americanismo e Fordismo”.
Con eguale rigore critico, Trentin rileva che i fautori dell’autonomia della lotta sindacale dalla sfera della politica corrono il rischio di trasformare il piano del conflitto da una logica di trasformazione dei rapporti di potere in seno alla società in un’ottica squisitamente redistributiva ed economicista. In questo quadro teorico si delinea la critica che Trentin muove al modello corporativo, ampiamente consolidato nei paesi socialdemocratici del Centro-Nord Europa. L’istituzionalizzazione del sindacato nell’ambito dello scambio triangolare con il fronte padronale e lo Stato allude ad un modello di concertazione delle politiche economiche e di sviluppo, che riduce, nell’impostazione di Trentin la portata generale delle rivendicazioni sindacali in un’ottica compensativa e settoriale. Lo scambio politico tra salario e occupazione, tra politiche di moderazione salariale e rilancio dell’occupazione che caratterizzano le pratiche concertative nelle socialdemocrazie europee prefigura un’identificazione del sindacato con il terreno del mercato della politica, smarrendo i termini di un’azione più generale nel cuore della società e dei rapporti di produzione. Una considerazione che si esprime in una duplice declinazione, che investe sia la dimensione della rappresentatività del movimento sindacale rispetto alla dialettica interna tra base e vertice, sia un’accezione teorico culturale che si richiama ad una critica del keynesismo di sinistra.
Nell’individuazione degli elementi di crisi del sindacato, nella fase di recessione economica che attraversa l’Europa tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni ’80, Trentin registra la perdita di contatto tra l’azione del sindacato sul piano della politica istituzionale e le rivendicazioni che si aprono nei contesti produttivi. La rottura del patto sociale tra democrazia e capitalismo, che spiega la fine del Trentennio Glorioso, contiene per il sindacalista italiano elementi interni alla stessa struttura del sindacato di classe e ai suoi riferimenti teorici e culturali. Diversamente da Schimitter ed altri teorici del corporativismo (su cui si rimanda il lettore interessato a Colin Crouch, Relazioni Industriali nella storia politica Europea), Trentin individua nell’accentramento del ruolo del sindacato nella sfera politico-istituzionale e nel suo ruolo di partner di governo una causa della crisi del sindacato europeo e non semplicemente una conseguenza della fase recessiva che attraversa l’intero continente. L’aver privilegiato una funzione redistributiva, individuando nel salario l’elemento centrale di rivendicazione e di legittimazione, ha esposto il movimento sindacale ad una debolezza rispetto alla controparte padronale, proprio per l’incapacità di mutare il terreno del conflitto dalla sfera distributiva a quella politica. La caduta dei profitti e della produttività ha indebolito la possibilità del sindacato di svolgere quell’azione redistributiva, che aveva portato avanti con successo durante l’epoca del boom della crescita economica. Ad una sorta di “euforia” della crescita e rapporto fideistico con il progresso, inteso in termini fondamentalmente “quantitativi” Trentin contrappone la necessità di misurarsi sui fattori che determinano la qualità dello sviluppo.
Nella lettura della dialettica tra ciclo economico e condizione del lavoro si esplica una contraddizione profonda tra la visione socialdemocratica-keynesiana e il marxismo trentiniano. Seppur con alcuni distinguo rispetto ad una concezione meccanicistica del marxismo ortodosso, Trentin riconosce le tensioni che si aprono nel rapporto tra ciclo espansivo dell’economia e forza contrattuale del movimento dei lavoratori, rifiutando qualsiasi elemento di linearità tra le condizioni positive dell’accumulazione e il piano di rivendicazione del movimento operaio. Da questa premessa, si esprime la divergenza di orientamenti tra Trentin e una parte della sinistra politica rispetto al progresso tecnologico e alla funzione “neutra” dell’innovazione tecnologica in termini di miglioramento complessivo dell’economia nazionale e di influenza sulla dimensione culturale del movimento operaio (per una completa ricostruzione della dialettica interna al PCI sul tema si rinvia alla pubblicazione degli atti del Convegno promosso dall’Istituto Gramsci nel 1962, dal titolo Tendenze del capitalismo italiano. Un aspetto, quest’ultimo, che richiama le riflessioni del primo “operaismo” e in particolare gli studi di Panzieri sull’influenza della tecnologia nella definizione della composizione tecnica della classe operaia. In tal senso, il controllo sull’organizzazione del lavoro funge, nella lettura di Trentin, da terreno di scontro nella definizione della direzione dello sviluppo e di orientamento del processo di accumulazione, rifiutando l’ipotesi di un “accordo esterno” sui livelli salariali e di produttività.
Alla centralità di una cultura salarialista, Trentin contrappone un’azione sindacale che recupera terreno sul piano complessivo del rapporto di potere tra lavoro e capitale, ponendo nuovi contenuti e prospettive alla rivendicazione del movimento dei lavoratori. Da qui l’attenzione che il sindacalista italiano pone sui temi della conoscenza e sulla necessità di allargare la sfera dei diritti sindacali in tema di inquadramento professionale, di ridefinizione del sistema delle qualifiche e sul ruolo della formazione permanente come strumento di soggettivazione del lavoro. Una prospettiva che troverà spazio nella contrattazione nazionale, attraverso il meccanismo delle 150 ore, che assicurerà il diritto alla formazione per i lavoratori interessati dal contratto di riferimento. Se sul piano teorico-ideologico le distanze tra Trentin e una parte del movimento sindacale europeo e italiano alludono ad una divergenza, mai sopita, tra cultura riformista e culture di orientamento marxista, tra controllo della produzione e meccanismi di redistribuzione, sul piano della rappresentanza e del profilo organizzativo questa distanza assume elementi ulteriori.
Nel rapporto tra base operaia e movimento sindacale o tra classe e organizzazione, nei termini di Vittorio Foa, Trentin individua nella crisi di rappresentatività del sindacato europeo un’articolazione di quella crisi “di modello”, di cui si accennava nelle righe precedenti. La fase di ristrutturazione del capitalismo europeo, che seguirà le crisi petrolifere degli anni ’70, acuirà la crisi del sindacato di fronte alla frammentazione della forza lavoro e ai processi di segmentazione dei mercati del lavoro. L’istituzionalizzazione del sindacato nel governo dell’economia e la distanza dai luoghi della produzione sociale indebolirà la capacità del sindacato di farsi carico di un progetto di composizione delle spinte rivendicative. La distanza dal terreno dell’organizzazione del lavoro in una fase di scomposizione del processo produttivo e di nuova divisione dell’economia consentirà al fronte padronale di imporre una riorganizzazione dei fattori della produzione con estrema facilità. Uno scenario che proiettato al contesto attuale rende nitida la difficoltà del sindacato a far fronte alle nuove sfide imposte da settori come quello della logistica e dell’economia on demand, caratterizzata dalla frammentazione del ciclo produttivo e dalla crisi degli istituti tradizionale della rappresentanza sindacale. Il divorzio tra classe e organizzazione, espressione di una crisi democratica interna al movimento sindacale, spiegherà i rilievi critici con cui Trentin giudicherà la svolta dell’Eur e le divergenze con l’allora segretario della CGIL, Luciano Lama. Nel saggio già citato, Trentin dirà a proposito:
"Ma quel che resta come dato politicamente rilevante […] è questa coscienza diffusa dello scadimento della linea dell’Eur a mero scambio tra salario e promesse. È questa consapevolezza […] dell’ineluttabile squilibrio che un negoziato neo-corporativo finisce con il determinare a danno di un movimento sindacale il quale intenda rappresentare un interesse generale o quanto meno l’interesse generale delle classi lavoratrici. Anche se la memoria storica è mistificata, la coscienza, che questa memoria riflette, dei limiti organici dello scambio neo-corporativo, esprime, a mio avviso, un’intuizione di massa sostanzialmente giusta (p.223)."
Parole che raccontano una fase di passaggio che ridisegnerà il quadro dei rapporti di forza tra la classe capitalistica e il mondo del lavoro, sino ai giorni nostri in cui la divaricazione tra la dinamica salariale e la produttività del lavoro spiega in larga parte l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze e l’indebolimento dei margini di redistribuzione funzionale del reddito. L’assenza di un controllo sul processo di accumulazione consentirà all’impresa di ridefinire le regole del gioco, allentando i vincoli distributivi, favorita ulteriormente da un contesto informale e frammentato delle relazioni industriali, come quello italiano. Una fase lunga di crisi organica che si consoliderà con le sconfitte della CGIL sul punto unico di contingenza e con l’accordo del ’92 sul costo del lavoro, che ironia della sorte porta la firma di Bruno Trentin, divenuto da qualche anno segretario della CGIL. La firma di quell’accordo in un clima di tensione per le condizioni di instabilità finanziaria e politica segnò profondamente Trentin, che rassegnò immediatamente le dimissioni da segretario della CGIL, che furono respinte dalla segreteria. Ed in questo quadro di consapevolezza, circa la chiusura di una fase storica che Trentin scriverà La Città del Lavoro, uno dei suoi ultimi contributi al dibattito culturale sulle trasformazioni del lavoro e delle sue forme di rappresentanza. Riprendendo le tappe salienti della sua riflessione teorica, Trentin riconoscerà nella crisi delle culture politiche tradizionali e nell’inservibilità delle categorie storiche di interpretazione del conflitto di classe, la necessità di esplorare nuovi sentieri di ricerca e di azione. La dialettica tra teoria e prassi dovrà rintracciare in uno spazio inedito, svuotato dalla presa identitaria dei riferimenti storici del movimento operaio, gli elementi di una ricomposizione progettuale e non ideologica del mondo del lavoro. In questo quadro, Trentin individua nel rapporto tra il lavoro e la vita, nel legame sempre più pervasivo tra il contenuto dell’attività lavorativa e il vissuto soggettivo, il terreno ineludibile per costruire un progetto di trasformazione dell’esistente. Tuttavia, non ci sarà nelle sue pagine nessun approdo ad una teoria della liberazione dal lavoro, come alcuni lettori poco attenti dell’opera di Trentin intravedono. Trentin resterà fedele, nonostante tutti i mutamenti intercorsi nella composizione di classe, all’idea di un nesso decisivo tra lavoro e cittadinanza come viatico per una società più giusta e più libera.
Per approfondire:
Barca L., Botta F., Zevi A., I comunisti e l’economia italiana, 1944-1974 Antologia di scritti e documenti, Movimento Operaio/23, De Donato Editore, 1975, Bari.
Perulli P., Trentin B. (a cura di), Il sindacato nella recessione, Modelli e tendenze delle politiche contrattuali in occidente, Movimento Operaio/74, De Donato Editore, 1983, Bari.
Fonte: quattrocentoquattro.com
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