di Gabriele Polo
Un tempo c'erano i paesi ricchi, quelli poveri e – in mezzo – quelli “in via di sviluppo”. Poi la globalizzazione ha spazzato via questi ultimi, insieme alla loro ambigua qualificazione, rimpiazzati con esotismi o neologismi da farmacia (dalle “Tigri asiatiche” ai “Bric”). Sono rimasti i paesi ricchi e quelli poveri. L'Italia era tra i primi, sesta-settima (o ottava?) potenza industriale del mondo e a buon titolo sedeva tra i signori della Terra. Ci siede ancora, ma sempre più abusivamente. Soprattutto dal punto di vista dei suoi abitanti. Perché se è vero che con la crisi finanziaria il numero e il patrimonio dei ricchi italiani sono cresciuti di un bel po', come sempre accade quando il gioco si fa duro sono cresciti molto di più i poveri e le loro miserie.
Parliamo di povertà vera, quella che sembrava bandita dallo sviluppo (l'ambiguo termine, appunto) del dopoguerra e della società dei consumi in cui ce n'era per tutti (o quasi); molto per alcuni, poco per altri, ma pezzettoni o pezzettini da distribuire. Con la crescita (ahia, altro termine imbroglione), con le politiche distributive, per avere consenso o per rispondere al conflitto sociale. Insomma, la storia dell'Italia repubblicana e democratica. Oggi il panorama è cambiato: quello nuovo, fatto di stracci, sudore e puzza, lo incontriamo agli angoli delle strade, nei discount, nei luoghi abbandonati delle città. E, ormai, persino nelle statistiche. Solo gli acccecati – dalla ricchezza o dal potere – non se ne accorgono (e magari sbattono contro un referendum).
Il numero secco è semplice quanto doloroso: in Italia 4,6 milioni di persone vivono nell'indigenza assoluta, quasi l'8% della popolazione residente. Dieci anni fa erano non arrivavano a 2 milioni. Un'impennata che ha toccato tutte le aree del paese, in quella ancor oggi più ricca – il nord – la povertà è persino triplicata: nel 2005 i poveri al nord erano 588mila e poco più di un milione al sud, oggi sono sono rispettivamente 1,8 e 2 milioni circa.
Oltre ai numeri è rilevante – e nuova – la qualità di questa povertà: le persone che non possono permettersi casa, vestiti, cibo e spese mediche non sono più solo i cosidetti “marginali” (come i clochard, gli ammalati cronici o i disoccupati di lunga data), ma tra loro cresce la quota di chi ha un'occupazione; e non sono solo le vittime del moderno riformismo che ha reso il lavoro sempre più precario o intermittente, ma anche i “lavoratori stabili”. Spesso il lavoro non mette al riparo da ristrettezze e immiserimenti: tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all'11,7 per cento. E se con la crisi per i lavoratori il rischio di finire in miseria è aumentato nella maggioranza dei paesi Ue, l'Italia è il quarto paese in cui è cresciuto di più: nel 2005 erano a rischio povertà 8,7 lavoratori su 100, nel 2015 sono diventati 11. Qui siamo ancora sul terreno definito come “povertà assoluta” quella sotto i livelli della sussistenza. Appena più “sopra” ci sono i “relativamente poveri”, laddove il discrimine fissato dall'Istat è la spesa media per consumi pro capite. Contando le persone al di sotto della linea di povertà relativa si arriva a 8,3 milioni di poveri (tra “assoluti” e “relativi”, cioè il 13,7% della popolazione italiana contro l'11,1 del 2005).
C'è poi la “zona grigia” - quella più difficile da censire – costituita da chi la povertà non la vive ancora direttamente ma rappresenta un rischio concreto con il rischio di esclusione sociale. Si tratta di persone a basso reddito o che vivono in famiglie a "bassa intensità di lavoro”: l'Eurostat ha valutato che tra 2005 e 2015 questa quota è passata dal 25,6% al 28,7 per cento. In tutta l'Unione europea, l'Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro.
In termini di famiglie (1.6 milioni quelle considerate povere, 6 su 100 in situazione d'indigenza, ben 30 su 100 quelle a rischio che, ad esempio, non possono permettersi di riscaldare tutti i giorni il proprio alloggio) le maggiori difficoltà si riscontrano tra i nuclei operai. Le famiglie che dipendono da una persona che sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile. Del resto le statistiche sull'occupazione a volte possono trarre in inganno. Infatti gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l'Istat è sufficiente un'ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso sono aumentati quelli che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. In questo capitolo si inserisce la beffa-tragedia dei voucher: erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015 e nell'anno in corso probabilmente supereranno quota due milioni.
La crisi ha cambiato la “faccia” della povertà anche sul piano generazionale: fino al 2011 non c'erano grandi differenze tra le varie fasce d'età e i più poveri erano gli over 65 (circa 4,5% si trovava in povertà assoluta). Con la distruzione di posti di lavoro la situazione si è rovesciata: il tasso di povertà è diminuito tra gli anziani (4,1%) mentre è cresciuto tra i giovani: di oltre 3 volte tra i giovani-adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni e nella fascia tra i 35 e i 64 anni. E a proposito di giovani, quelli tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano (i cosidetti Neet) in Italia sono il 15% del totale, quelli a rischio povertà il 32,2%.
L'impoverimento italiano rappresenta anche una cambiale sul futuro: le famiglie più penalizzate sono quelle giovani: negli ultimi dieci anni il tasso di povertà assoluta è aumentato di 3 volte quando il capofamiglia ha meno di 55 anni, è cresciuto di 2,7 volte quando ha tra i 55 e i 64 anni, mentre è diminuito nei casi in cui ha più di 65 anni.
Che tutto sia non solo peggiorato ma anche rovesciato rispetto agli anni dello “sviluppo” lo testimonia la condizione di grave disagio materiale tra i bambini: l'Italia è il secondo paese – dopo la Grecia – in cui più è aumentata la povertà infantile con l'11,4% dei bambini sotto i 6 anni che vive una grave privazione materiale (+5,3% sul 2005).
E, poi, le donne: oltre a quella sociale (operai) e generazionale (giovani) la crisi ha avuto anche una versione di genere, colpendo più le donne: il numero di quelle che vivono in povertà assoluta è più che raddoppiato tra 2005 e 2015. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, nel 2015 la percentuale ha superato il 7%, tra le difficoltà di conciliare lavoro e famiglia e la differenza salariale tra i sessi cresciuta negli anni della crisi.
Come si vede le cifre sono impietose. Occupazione in calo, dumping salariale, precarietà sono state le chiavi di questo impoverimento. A cui vanno aggiunte le “politiche sociali”, cioè un progressivo smantellamento o – meglio – privatizzazione del welfare che contribuisce a un abbassamento dei redditi reali e a un peggioramento della qualità della vita; fino alla deprivazione materiale. Che oltre alla povertà porta con sé il disagio o la rabbia, la depressione o il rancore. O tutto questo insieme, nello spaesamento del presente. Ma questa è un'altra questione; anzi, la questione.
Fonte: Fiom-cgil.it
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