di Renato Caputo e Pasquale Vecchiarelli
L’esplosiva “crisi di autorità”, che si è aperta attraverso la deflagrante esplosione della rabbia popolare con il No alle politiche neoliberiste, deve trovare necessariamente uno sbocco a Sinistra. Se non si porta a casa un risultato concreto, l’eliminazione quanto meno di Jobs act e buona scuola, il rischio è che si aprano degli scenari davvero inquietanti. Considerata la vergognosa gestione del voto degli italiani all’estero, la modalità in cui è stato posto il quesito referendario, il controllo quasi totalitario dei mezzi di comunicazione, i costanti interventi a “gamba tesa” dei poteri forti a livello internazionale, il fantasma del governo tecnico, dello spread e del crollo delle borse, considerato l’incredibile assist dei sindacati che, a pochissimi giorni dal voto, hanno firmato dei contratti da troppo tempo attesi – per altro assolutamente inaccettabili non solo nel metodo, ma anche nel merito – il 60% di No ha dello straordinario.
Tanto più che per volontà dello stesso governo, a ulteriore dimostrazione che siamo nelle mani di “apprendisti stregoni”, il referendum costituzionale è stato stravolto in un plebiscito sulle riforme (neoliberiste) realizzate su impulso dell’esecutivo. La vittoria del NO al referendum sulla controriforma costituzionale Renzi-Boschi, dunque, ha svelato, meglio di qualsiasi rapporto statistico, la profonda sofferenza delle classi popolari aggredite da una grave crisi economica che perfino la fantastica narrazione renziana non è riuscita a nascondere.
Tanto più che per volontà dello stesso governo, a ulteriore dimostrazione che siamo nelle mani di “apprendisti stregoni”, il referendum costituzionale è stato stravolto in un plebiscito sulle riforme (neoliberiste) realizzate su impulso dell’esecutivo. La vittoria del NO al referendum sulla controriforma costituzionale Renzi-Boschi, dunque, ha svelato, meglio di qualsiasi rapporto statistico, la profonda sofferenza delle classi popolari aggredite da una grave crisi economica che perfino la fantastica narrazione renziana non è riuscita a nascondere.
In tal modo si è aperto un grande spazio per le forze anticapitaliste e antiliberiste. Tuttavia, non potendosi mantenere spazi vuoti in politica, se tale spazio non è prontamente occupato dalle forze della Sinistra di classe, finirà per essere inevitabilmente occupato dal populismo della Destra sociale, o dalla demagogia interclassista di chi pretende di essere al di là delle differenze fra la Destra e la Sinistra, ovvero al di sopra del conflitto sociale. Inoltre è da considerare che anche dopo una dura sconfitta, le classi dominanti, avendo dalla loro parte uno schieramento molto più esteso e articolato di funzionari immediatamente utilizzabili per la lotta ideologica, sono in condizioni di riorganizzarsi velocemente. Allo stesso tempo è proprio in quelle crepe, che di volta in volta la storia ci presenta, che è necessario infilarsi con maggiore vigore per spingere sulle contraddizioni e chiarificare il campo a tutti i raggruppamenti di lavoratori in lotta e portare alla luce “l’invisibile” scontro di classe.
La maggioranza delle forze della Sinistra radicale non è stata in grado di prevedere un simile scenario e si è, così, dimostrata in massima parte incapace di occupare il grande spazio che si è aperto con una proposta politica e sociale in grado di sfruttare a proprio vantaggio i nuovi e favorevoli rapporti di forza che si sono prodotti.
Una considerevole parte del 60 per cento di No, che hanno bocciato le politiche (liberiste) del governo, è composto proprio da quei settori sociali di cui la Sinistra di classe dovrebbe costituire l’avanguardia e che, invece, è sempre più egemonizzata da forze populiste e bonapartiste più o meno reazionarie. In effetti, nonostante che a votare No siano stati essenzialmente i giovani, che si vedono davanti un futuro quanto mai precario, i cittadini delle regioni più povere e martoriate del paese, a dimostrazione che la “Questione meridionale” è una problematica quanto mai attuale, i ceti sociali subalterni – che popolano le periferie del nostro paese – tale voto è stato principalmente un voto di protesta, espressione immediata della rabbia popolare, generalmente priva di una reale coscienza di classe. Proprio per questo – come del resto dimostrano i casi inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, austriaci e statunitensi, per limitarci ai più noti – tale rabbia sociale se non viene organizzata in funzione della lotta di classe, rischia di essere anestetizzata in una fratricida guerra fra poveri, terreno quanto mai fertile al riaffermarsi della mala pianta del razzismo, brodo di coltura dei fascismi.
Il mutato scenario, apertosi con la repentina affermazione del crescente disagio per le politiche liberiste, che hanno imperversato nell’ultimo quarantennio, ha trovato larghi strati della Sinistra radicale totalmente impreparati e incapaci di andare al di là di una meccanicistica riproposizione di schemi politicisti del passato, dalla riproposizione dell’“arco costituzionale” sorto nel secondo dopo guerra dall’opposizione al totalitarismo nazi-fascista, al rilancio sic et simpliciter di una coalizione interclassista a difesa della Costituzione. In tal modo, tale Sinistra non appare in grado di abbandonare la propria vocazione minoritaria, che punta, sin dai tempi del Risorgimento, a rappresentare in primo luogo il ceto medio istruito, necessariamente minoritario, piuttosto che interpretare e organizzare i ceti sociali subalterni a partire dai loro bisogni reali, di natura in primo luogo “strutturale”, ovvero socio-economica.
Così invece di preparare, sebbene in ritardo, le condizioni per uno sciopero generale reale, e non “di rappresentanza”, in grado di mettere in crisi il governo – prontamente clonatosi in un sostanziale Renzi bis – ampi settori della Sinistra antiliberista perdono momenti preziosi alla ricerca di soluzioni politiciste, per realizzare una coalizione in vista delle prossime elezioni, destinata inevitabilmente agli ormai consueti esiti minoritari. In tal modo si rischia di consegnare il paese alla spaventosa alternativa di dover scegliere – come avvenuto negli Stati Uniti e come rischia di avvenire anche in Francia – fra gli alfieri del neoliberismo e i populisti più meno di Destra, più o meno bonapartisti.
Da questo punto di vista è quanto meno allarmante che, al momento, l’unica mobilitazione prevista contro un governo il quale – per quanto decisamente in contrasto con la sovranità popolare e la volontà generale, pretende sfacciatamente di mantenere il controllo delle istituzioni – sia stata lanciata dalla Lega di Salvini e l’unica forza che si sia schierata in modo radicale contro il neo-governo – scimmiottando la peraltro fallimentare tattica dell’Aventino – sia il movimento grillino. È, dunque, indispensabile che la Sinistra di classe si riaggreghi – lasciando da parte gli inutili conflitti interni per far prevalere, nel suo ambito minoritario e ininfluente, una “parrocchia” piuttosto che un’altra – in un fronte sociale antiliberista e anticapitalista sulla base di un programma minimo in funzione di rilanciare la mobilitazione a livello nazionale per organizzare a breve una manifestazione e in prospettiva lo sciopero generale. Al centro del programma minimo non può che esserci il ritiro del Jobs act e della Buona scuola che, come ha ammesso persino la sedicente sinistra Pd, è la causa principale del trionfo del No al referendum. A questo proposito non è accettabile né la trattativa a ribasso su singoli punti della sedicente Buona scuola, che vorrebbero portare avanti i sindacati maggiormente rappresentativi, né ci si può ciecamente affidare al referendum indetto da un sindacato che ha ampiamento dimostrato di essere disponibile a svendersi per un piatto di lenticchie.
Si tratta, al contrario, non solo di organizzarsi per sostenere e unificare quanto più possibile le vertenze in corso, ma di sostenere il No dei lavoratori a contratti irricevibili, firmati alle loro spalle da parte delle burocrazie sindacali. Dal punto di vista, invece della lotta per la democrazia formale e la salvaguardia dei valori fondanti della Costituzione, bisogna in primo luogo battersi per la reintroduzione dell’unica legge elettorale che garantisce realmente il principio della pari dignità dei voti espressi, ovvero il sistema proporzionale senza alcuno sbarramento, non a caso da sempre introdotto per tagliare fuori le forze realmente anticapitaliste. In secondo luogo è indispensabile pretendere l’immediato ritiro della norma che prevede il pareggio di bilancio in Costituzione, stravolgendola sino a farne la garanzia della continuità delle politiche neoliberiste. In terzo luogo, come ha riconosciuto persino Fassina, bisogna battersi per l’eliminazione dei trattati costituenti dell’Unione europea che impongono ai singoli Stati le politiche neoliberali a partire dal Fiscal Compact, vera e propria spada di Damocle sulle teste dei ceti sociali subalterni. Infine è indispensabile una drastica riduzione del debito pubblico, artificialmente gonfiato dalle classi dominanti per mantenere la propria egemonia, che costringe qualsiasi governo eletto a non poter sviluppare una politica economica autonoma rispetto ai diktat imposti dai privati detentori del debito. Infine, in prospettiva, è irrinunciabile riaprire la questione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e di ritmi di produzione, alla quale è però propedeutica la lotta al cottimo, al precariato, allo straordinario e, di conseguenza, la lotta per l’aumento del salario e la diminuzione della disoccupazione.
Considerati gli attuali rapporti di forza – che rischiano di essere ulteriormente compromessi dal ritardo con cui arriva nuovamente la Sinistra di classe a questo potenzialmente decisivo tornante della storia – tenuto conto della perdurante crisi economica, del rialzo del prezzo del petrolio e la conseguente inflazione, della minaccia, oltre che del Fiscal compact, della manovra aggiuntiva imposta dai poteri forti dell’Unione Europea, si potrebbe ricostruire intorno al primo punto, la lotta contro Jobs act e Buona scuola, il fronte antiliberista e intorno ai seguenti il fronte anticapitalista, base indispensabile di una reale ricomposizione dei comunisti, al di là delle sedicenti ricomposizioni politiciste, volte essenzialmente a portate acqua al proprio mulino.
Tanto più che se non si costruiscono almeno delle assemblee a livello locale e nazionale, per non lasciare le piazze alle forze populiste più o meno di Destra, rilanciando il conflitto sociale fino a imporre il ritiro delle misure maggiormente antipopolari del governo Renzi, gli stessi consensi ottenuti sulla piattaforma del No sociale rischiano di andare perduti o peggio di passare, almeno in parte, ai populisti, finendo oltretutto per vanificare lo storico risultato del referendum.
Anche perché per rimanere credibile il No sociale non può limitarsi alla realizzazione della parte negativa del proprio programma, al semplice No al referendum costituzionale, ma deve farne, come promesso, la base di un rilancio del conflitto sociale contro le politiche liberiste. L’occasione prodottasi con l’ampia maggioranza dei cittadini, a partire dalle giovani generazioni e dai subalterni, pronti a sfidare le politiche del governo non può essere sprecata, altrimenti non solo si apre la strada allo scatenamento della guerra fra poveri in vista di soluzioni autoritarie, ma la stessa possibilità di una affermazione elettorale – alla quale gli affetti da “cretinismo parlamentare” prioritariamente puntano – sarebbe inevitabilmente compromessa.
Senza contare che, di fronte alla crisi di egemonia del blocco sociale dominante, se non si è in grado di costruire un blocco sociale alternativo, in grado di egemonizzare gli indecisi e i settori sociali intermedi, o si apre la strada a derive bonapartiste di Destra o si favoriscono “i fenomeni morbosi più svariati”. In altri termini, le forze filogovernative con questa “crisi di autorità” perdono il consenso di cui godevano e sono tentate a non porsi più come classe “dirigente, ma unicamente ‘dominante’, detentrice”, come osserva Gramsci “della pura forza coercitiva”. D’altra parte “l’interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale”, non potrà trovare soluzione nella semplice “restaurazione del vecchio” anche perché, come la storia insegna, una “restaurazione compiuta” [1] è poco più che una distopia.
Note
[1] A.Gramsci, Quaderni dal carcere (Q 3, §34, p. 311).
Fonte: La Città futura
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