di Sergio Cimino
Secondo il dato aggiornato in tempo reale riportato nel “The global debt clock” presente sul sito dell’Economist [1], nel momento in cui viene scritto questo articolo, il debito pubblico mondiale ammonta a 60.295 miliardi di dollari americani, all’incirca 56.000 miliardi di euro. L’aumento costante del contatore riesce meglio di qualsiasi parola o confronto numerico, a rendere le dimensioni del fenomeno e la percezione della sua incontrollabilità. Quasi un’entità sovrumana, una divinità non soggetta alle condizioni che regolano l’esistenza di noi mortali. Tic, tac, tic, tac…e nel frattempo questo Molok ha ingrandito il suo corpo di altri 5 milioni di dollari.
Come per tutte le divinità, anche il debito pubblico ha una sua storia, che in gran parte risente di quello che pensano, sono e fanno i suoi profeti. Molta nebulosità viene sparsa nei suoi dintorni, da chi ha tutto l’interesse a farne materia da iniziati.
Non è quindi improbabile che si riscontri una certa diffusione di luoghi comuni e di verità di comodo, finalizzate ad ingabbiare un approccio critico alla questione.
È quindi spesso una certa sorpresa quella che si dipinge sul volto di chi acquisisce la consapevolezza dell’enorme mole assunta dal debito pubblico degli Stati Uniti (circa 16mila miliardi di dollari), con un valore assoluto stratosfericamente superiore a quello dei Paesi definiti PIIGS (circa sette volte quello dell’Italia, ad esempio, il cui debito ha però un peso mediatico nettamente superiore).
Ed a smontare la più che scontata obiezione circa le maggiori dimensioni economiche degli USA, è sufficiente considerare che anche analizzando il rapporto PIL/Debito pubblico americano (93,6%), non ci si discosta in modo sostanziale da Paesi come la Spagna (che anzi ha un rapporto lievemente migliore, 91,1%) i quali però occupano un posto ben diverso nell’opinione pubblica, per quanto concerne il tema delle finanze pubbliche.
Quando poi si considera che unitamente al Giappone (12mila miliardi), gli Stati Uniti rappresentano circa il 45% del debito mondiale complessivo, si rischia davvero di non essere creduti.
Analogo destino è riservato alla constatazione che il Bilancio pubblico italiano è in avanzo primario da ormai molti anni (ossia le entrate sono superiori alle spese), e che il disavanzo è causato dagli interessi che si pagano annualmente sul debito (70-80 miliardi di euro). Elemento che poco si concilia con la narrazione dominante, di un popolo che ha vissuto sopra le proprie possibilità.
Questa perla ideologica, questo veleno che infetta alla radice la crescita di una coscienza critica dei popoli che interiorizzano un ingiustificato senso di colpa, è proprio il dato su cui ci si vuole soffermare per continuare la nostra analisi, che vuole avere un taglio soprattutto politico, o meglio, vuole riaffermare la politicità della questione.
Considerando il mondo nel suo complesso, le relazioni economiche e finanziarie soggiacciono alle leggi che regolano il sistema capitalistico (non potendosi considerare, se non con pesanti forzature, l’economia cinese come qualcosa di diverso). Queste si sostanziano a livello internazionale per una mai interrotta conflittualità per l’accaparramento di risorse strategiche, l’espansione delle zone d’influenza, la conquista di nuovi mercati, arrivando fino alla risoluzione degli attriti che inevitabilmente ne conseguono, attraverso lo scontro militare. Dal punto di vista sociale, i miliardi di uomini e donne che sono costrette a vendere (a condizioni che permangono disumane nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo e in costante peggioramento nei cosiddetti Paesi avanzati) le proprie energie vitali psico-fisiche a chi detiene i mezzi attraverso cui viene riprodotta l’esistenza materiale, agiscono in una struttura di rapporti sociali, non differente da quella del secolo scorso (e per certi versi sempre più simile a quello precedente…).
I segni di questo dominio che continua incontrastato, in forme produttive diverse, con una incessante evoluzione tecnologica che ne nasconde spesso la sostanza, trovano un elemento fortemente caratterizzante proprio nel debito.
Finora ci si è soffermati solo sul debito pubblico, ma se le osservazioni si allargassero a quello privato, le considerazioni che si potrebbero fare risulterebbero addirittura amplificate.
Il debito diviene il marchio più genuino del modo di produzione capitalistico. È la traccia più evidente di un sistema che per sopravvivere a sé stesso, ha la necessità imperitura di creare squilibri. E questi trovano la migliore espressione nel debito.
Si arriva al punto che, perseverando a voler ricondurre il fenomeno del debito pubblico nelle coordinate a noi più familiari, del singolo rapporto che intercorre tra un debitore e un creditore, si oscura il fatto che tutti i Paesi del mondo sono debitori e che nessuno di essi è creditore…
Per trovare i creditori bisogna avvicinarsi alla realtà, utilizzando il microscopio dell’analisi sociale.
I creditori sono i cosiddetti investitori istituzionali (banche, finanziarie, multinazionali ed assicurazioni).
I creditori sono gli stessi, o i loro parenti più stretti, che detengono le chiavi della macchina produttiva, che dettano le leggi a cui si sottopongono la quasi totalità degli esseri umani per poter soddisfare i propri bisogni. Gli stessi che investono produttivamente le proprie risorse finanziare solo nel caso in cui è possibile estrarre plusvalore dalla messa in moto di masse di forza-lavoro. Prescindendo se tali attività siano rispondenti ai bisogni socialmente più impellenti o se le modalità attraverso le quali si soddisfano tali bisogni, rispettino gli equilibri naturali del pianeta.
Ma quel che è più importante, è che il debito rappresenta un vincolo che zittisce qualsiasi possibilità per queste masse, di organizzarsi politicamente, per perseguire finalità diverse dalle classi dominanti.
Il debito viene ad essere il vincolo storicamente più efficace all’agire sindacale e politico della classe lavoratrice. Il vero segno distintivo di un’epoca.
Un dispositivo di comando così potente, che infrange anche la barriera temporale, ipotecando le condizioni vitali delle generazioni future.
Le ricette politiche seguite in quasi quarant’anni sono ormai note a tutti: deregolamentazione del mercato del lavoro; defiscalizzazione a favore dei ceti dominanti; privatizzazione dei servizi pubblici. Tutte misure che nella loro varietà, possono essere ricondotte alla sottrazione dalle disponibilità della classe lavoratrice, di margini sempre più ampi del valore prodotto. E in tal senso, si può parlare anche di plusvalore estorto sempre più sotto una forma più simile alla rendita che al profitto, tema che meriterebbe una più approfondita analisi.
La connotazione del dominio che configura il debito, condiziona pesantemente anche le dinamiche relative alla riproduzione temporale della classe lavoratrice. A fronte di un fenomeno che come detto non conosce battuta d’arresto, con un debito pubblico mondiale che aumenta incessantemente, il futuro che si prospetta, somiglia sempre più ad uno di quegli scenari un tempo patrimonio esclusivo delle peggiori distopie.
Il debito ha la possibilità di divenire un fardello che peserà sui futuri lavoratori fin dalla loro nascita.
Tornano in mente le storie di antiche schiavitù, in cui questa si perpetuava di generazione in generazione, attraverso l’eredità debitoria dei genitori, dei nonni. Un inestinguibile legame. Un marchio di classe, capace di formare un imposto collante sociale, in condizioni storiche pur così favorevoli all’affrancamento umano generale, dalla società divisa in classi.
Come considerare ad esempio, per tornare a casa nostra, i principi politici sottesi alla misura dell’APE, la misura che lega la possibilità di fruire del anticipatamente del salario differito (anticipatamente rispetto al continuo spostamento in avanti operato dalle brutali riforme previdenziali succedutesi negli ultimi decenni), attraverso la creazione di un indebitamento del lavoratore verso le banche? La rendita scava nel salario un ulteriore erosione. E se è vero che in caso di premorienza scatta la copertura assicurativa (con premio a carico del lavoratore…altra erosione…), chi in tutta franchezza, può escludere che a fronte di un “aggravarsi” del peso assunto dal debito, e dalla inevitabile chiamata alla corresponsabilità della classe lavoratrice (che è poi ormai una responsabilità esclusiva, frutto di un patto sociale che prevede sacrifici unilaterali), qualche mente sopraffina, un intellettuale organico alla classe dominante, possa partorire la geniale idea di far pesare (magari solo parzialmente…sono umani loro) il debito residuo dopo la morte del lavoratore, sulla percentuale della pensione di reversibilità (e magari qualcuno ancor più organico al potere, più realista del re, far discendere conseguenze anche sugli eredi…).
Per distruggere questo dispositivo, bisogna conoscere la Bestia fin dentro le sue profondità. Bisogna ritornare a quello che si diceva al principio: alla sua storicizzazione, scevra dalle nebbie dell’esoterismo. Bisogna dotarsi o far propri strumenti di analisi politica che sviscerino la Bestia, evidenziandone i bubboni cresciuti grazie alla socializzazione delle perdite private. All’incrementarsi delle spese che hanno sostenuto lo sviluppo capitalistico avulso da quello sociale. All’incestuoso legame di centri di interesse privato con gli organi deputati al governo della cosa pubblica. Alla dinamica delle spese di guerra.
È quello che ci ripromettiamo di fare in un prossimo articolo.
[1] Questi dati e quelli successivi, sono tutti ricavati dal sito http://www.economist.com/content/global_debt_clock
Fonte: La Città futura
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