di Felice Besostri
Una volta era la Toscana che tracciava la strada, con le sue leggi elettorali regionali, alle leggi elettorali per il parlamento italiano: il Toscanellum 1 ha preceduto il Porcellum e il Toscanellum 2 l’Italicum. Ora ci prova con la nuova legge per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale la Sicilia, che, come Regione autonoma, è scampata alla furia revisionista del disegno di legge costituzionale Boschi-Renzi, salvando i suoi sperperi e mantenendo alti i costi della politica. La rottura con il modello nazionale comunale è completa e anche con l’Italicum.
Non è forse un caso che sia stato un Tribunale siciliano, quello di Messina, a mandare per primo in Corte costituzionale l’Italicum con un ordinanza del 17 febbraio scorso. Una scelta positiva, che rischiava però di azzerare gli altri 17 ricorsi se avesse fatto scuola sulla procedura: composizione collegiale ed intervento obbligatorio del pm. Il prossimo 4 ottobre alla Consulta c’è il rischio che l’Italicum possa essere parzialmente annullato, nella parte in cui prevede un premio di maggioranza in seguito ad un ballottaggio. Dopo le elezioni di Roma e Torino il ballottaggio non è più popolare, quindi la Sicilia non lo prevede, se non nel caso che nessuna lista o coalizione raggiunga la nuova soglia per la conquista del premio di maggioranza. Non solo, abolisce anche il voto disgiunto tra candidato sindaco e liste collegate e il premio di maggioranza è assegnato in base al consenso della lista o delle liste collegate, che ottengano almeno il 40% dei voti validi. L’elezione diretta del sindaco come persona non esiste più, deve essere l’espressione di una coalizione vasta, cioè di un sistema di partiti. L’ispirazione del tutto contingente è chiara: in questo modo si eliminano dalla scena singole personalità come Leoluca Orlando Cascio (47,42% al primo turno e 72,43% al ballottaggio alle comunali di Palermo nel 2012) e il M5S, il primo partito alle elezioni regionali 2012 con 285.202 voti e il 14,88%. Nel 2017 si rivota a Palermo e in Sicilia per l’Assemblea regionale: niente scherzi anche perché il Pd deve mandare a casa Crocetta e promuovere Faraone.
Il nuovo sindaco, espressione dei partiti, apparentemente del tutto contraddittoriamente viene blindato chiedendo per la sfiducia una maggioranza del 60 per cento, che sale ai due terzi nei comuni fino a 5mila abitanti. Le dimissioni contestuali della maggioranza assoluta dei consiglieri non basta più, si deve dimettere il 60 per cento: come possa governare un Sindaco con la maggioranza assoluta dei consiglieri all’opposizione resta un mistero. In realtà basta che non approvino il bilancio che il comune sia sciolto in seguito al commissariamento regionale, cioè lo si mette in mano alla politica. Premio di maggioranza alla migliore minoranza, soglia di accesso elevata al 5%, nessun quorum di partecipazione per validità elezione: il rivoluzionario principio democratico una testa (non una pancia) un voto non vale più. Specie se la testa vuol pensare e per pensare sapere, cioè essere informata. Quel che sorprende è l’incoerenza: si danno premi di maggioranza ma non si elevano i quorum, tranne quelli per la sfiducia. Uno statuto comunale si approva sempre a maggioranza assoluta, quindi non è nemmeno necessario il consenso della stessa maggioranza. Il vertice dell’incongruenza è che non si sono cambiate le norme sull’ineleggibilità, continua a dover essere contestata nella prima seduta del consiglio comunale a maggioranza assoluta. E così il sindaco si presenta con una maggioranza precostituita del 60%, e nel caso fosse in una condizione di ineleggibilità – come Sala a Milano – il consiglio dovrebbe condannarsi all’auto-scioglimento. Un effetto paradossale della «democrazia governante» a qualsiasi costo, anche contro la maggioranza degli elettori. Più che un bel viatico per una democrazia partecipata è piuttosto un’estrema unzione.
La critica è semplice, ma l’alternativa deve nascere dal voto, dal momento che non basta riuscire a far riconoscere per via giudiziaria evidenti incostituzionalità del sistema elettorale. L’incostituzionalità del Porcellum ha consentito ad un parlamento di nominati, in grande maggioranza eterodiretti in spregio all’articolo 67 della Costituzione, di devastare la Costituzione e quindi di prepararsi a completare l’opera. Il che accadrebbe anche se l’Italicum dovesse essere dichiarato incostituzionale, ma dopo che sarà applicato alle prossime elezioni.
Per i sistemi elettorali comunali e regionali la corte costituzionale ha giocato d’anticipo. Con le decisioni sulla legge elettorale comunale della provincia autonoma di Trento – con la sentenza n. 275 del 2014 – sulle elezioni di secondo grado di province e città metropolitane – con la sentenza n. 50 del 2015 – e infine, approfittando di una controversia sulla legge elettorale europea, per mettere al ripari proceduralmente tutte le leggi elettorali regionali presenti e future – con la sentenza n. 110 del 2015. In sintesi i principi enunciati nella storica sentenza n°1 del 2014 (quella contro il Porcellum) non si applicano de plano agli altri sistemi elettorali e in ogni caso non si applica la procedura seguita in quella circostanza: accertamento del diritto di votare secondo Costituzione di competenza del Tribunale ordinario (più d’uno nelle singole regioni) ma solo impugnando i risultati elettorali davanti ad un unico Tar con sede nel capoluogo di Regione e dopo che la legge elettorale regionale in ipotesi incostituzionale ha esplicato i suoi effetti sulla stessa libertà di voto dei cittadini.
Le sorti della democrazia italiana sono in pericolo e non mi sembra che di questo vi sia un chiara coscienza. Se si è contro ai premi abnormi di maggioranza a liste o coalizioni, allora bisogna essere capaci di costruire alternative basate sul consenso elettorale. È una sfida anche per il movimento 5 stelle. Allo stato non ci sono molte speranze. Una volta pensavo che la sinistra fosse in difficoltà perché prigioniera del passato, ora constato che è condizionata dalla cronaca e quindi incapace di progettare un qualsiasi futuro.
Fonte: il manifesto
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