di Claudio Conti
“Houston, abbiamo un problema…” Parafrasando, visto che la centrale di comando sul bilancio è la Commissione Europea, in queste ore il governo Renzi starà messaggiando un “Bruxelles, abbiamo un problema serio…”. La crescita s’è fermata. Prima era stenta e insufficiente a ridurre il debito pubblico (che infatti continua ad aumentare), pur in presenza di tagli straordinari alla spesa pubblica (sanità, pensioni, università scuola, ricerca, ecc). Ora, semplicemente, non c’è più.
I dati Istat fotografano uno stallo assoluto nel secondo trimestre dell’anno in corso (aprile-giugno) rispetto a quello precedente, mentre la crescita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno si ridimensiona pesantemente: appena lo 0,7%, invece dell’1 e qualcosa scritto nei documenti di previsione su cui si fonda la prossima legge di stabilità.
“La variazione congiunturale è la sintesi di un aumento del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda, vi è un lieve contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte), compensato da un apporto positivo della componente estera netta”. La traduzione è piuttosto semplice: ci tengono precariamente a galla l’agricoltura e i servizi, perché il settore industriale continua la marcia indietro (del resto tutte le imprese hanno ridotto mediamente gli investimenti e l’output). Anche la domanda interna è in calo (e come potrebbe aumenatre se il salario medio si va riducendo di precarizzazione in precarizzazione?), e il pareggio viene raggiunto solo grazie a un po’ di export suplementare.
Si conferma insomma un andamento da “paese arretrato”, che comprime i consumi interni e cerca di guadagnare posizioni sui mercati esteri grazie a prezzi più contenuti. Ma anche un ignorante assoluto in materia economica considererebbe demenziale un “modello di sviluppo” ce presuppone un arretramento drastico sulla via dello sviluppo.
Per il governo Renzi il dato è quasi mortale. Sul fronte interno, infatti, demolisce la narrazione relativa all’”efficacia” del Jobs Act nel rilanciare produzione e occupazione. Se il Pil si ferma, infatti, anche l’occupazione non può che peggiorare, qualsiasi siano le condizioni contrattuali (parola grossa, lo ammettiamo…) dei lavoratori e il grado di innovazione tecnologica medio. Insomma, difficile presentarsi all’appuntamento referendario potendo vantare “grandi successi”, “ripartenze”, ecc.
Ma diventa difficile anche promettere, in modo credibile, grandi “concessioni al popolo” se la controriforma costituzionale dovesse essere approvata. Con numeri del Pil così ridotto, infatti, buona parte della “flessibilità” sui conti strappata a Bruxelles viene vaporizzata prima ancora di poter essere utilizzata. Le maggiori spese allo studio (per anticipo pensionistico, ricongiunzioni, quattordicesime, ecc), miranti a comprare un po’ di consenso pre-elettorale, diventano improvvisamente fumo negli occhi per revisori dei conti della Troika (Bce, Ue, Fmi).
Il che crea un problema anche per i cerberi di Bruxelles: lasciar sforare i parametri di Maastricht per mantenere a galla il fedele esecutore di Palazzo Chigi oppure restare “inflessibili” e lasciarlo cadere a fondo?
Fonte: Contropiano
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