di Matteo Bortolon
«Contrariamente a quanto si crede comunemente, il mondo non ha ancora iniziato a sdebitarsi, ma il debito rispetto al Pil sta ancora crescendo, arrivando a un nuovo vertice». Così suonava, in modo un po’ sinistro, l’incipit del poderoso rapporto di fine 2014 sul debito globale. Con cifre confermate dal report di McKinsey del febbraio 2015: si calcolava un incremento del debito globale (cioè finanziario, degli Stati, delle aziende e delle famiglie) fra il 2007-2014 di 57 trilioni (cioè 57mila miliardi…), raggiungendo un rapporto debito/Pil del 286% a livello planetario.
Si dovrebbe sia pur brevemente segnalare che i rapporti fra le componenti di esso paiono essere un sintomo di ciò che sosteniamo da sempre su queste pagine: mentre il mainstream si è accanito contro il debito pubblico, con selvagge incitazioni a tagli in sede di finanziaria, il debito privato è di gran lunga più importante e grave; nei dati McKinsey il debito degli Stati è passato da 33 a 58 trilioni, quello delle aziende da 38 a 56. Se non che gli Stati si sono perversamente prestati coi cosiddetti salvataggi a ripianare le perdite di banche private e di fallimenti del mercato i cui ammanchi hanno trovato una comoda sistemazione nei bilanci pubblici (gravando su tutti i cittadini con la mannaia dei tagli) e nonostante ciò l’indebitamento delle aziende è allo stesso livello…
Il 15 luglio scorso Standard & Poor’s ha pubblicato un rapporto in cui gli analisti si incentravano sul debito delle aziende (Global Corporate Credit), prevedendo al 2019 una sua ulteriore crescita di 20mila miliardi. Nel panorama generale (bizarramente definito «non molto preoccupante»!) i rischi vengono individuati soprattutto nella tumultuosa crescita del debito corporate cinese e nella fortissima leva di quello statunitense, cioè nel rapporto sempre più divaricato fra cifre prestate e patrimonio proprio posseduto. Un po’ di preoccupazione genera anche il contesto latinoamericano, sebbene le cifre siano troppo basse da generare effetti consistenti sul sistema. Abbastanza stringatamente si fa cenno al ruolo delle attuali politiche monetarie: i soldi facili (cioè con bassi tassi) pompati nel sistema dalle banche centrali di Usa e Ue vanno minando l’economia mondiale generando bolle speculative.
Naturalmente Standard and Poor’s è una fonte da prendere con prudenza. Non solo per il fatto di essere una delle malfamate agenzie di rating che hanno dato ottimi punteggi a banche che si sono rivelate marce fino al midollo; o per la incertezza di ogni previsione sul futuro, anche se di pochi anni; ma perché il suo interesse preminente è il rischio di insolvenza, e tutte le analisi di questo genere – anche con un profilo di affidabilità assai elevato – sono dirette a scrutare ansiosamente l’affidabilità del debitore. Al di là di tale problematica quali conseguenze si possono intravedere in termini di giustizia ed equità sociale?
Un mondo più indebitato nei suoi snodi cruciali – governo, famiglie, imprese – è un mondo più finanziarizzato. Nel quale sono già abbastanza noti non solo i tratti della gestione politica (deregolamentazioni, privatizzazioni) ma le ricadute sociali, fra le quali giganteggia la subordinazione dell’orizzonte organizzativo tanto delle aziende che del mondo del lavoro alla centralità del valore per gli azionisti (molto attenti a tale aspetto gli studi del professor Angelo Salento). Con la crescita di esternalizzazioni e centralizzazione gestionale, che consentono alla dirigenza di dare segnali univoci e forti ai mercati finanziari in vista degli effetti sulla collocazione in borsa e dell’emissione di obbligazioni; così che i lavoratori possano essere nient’altro che pedine sulla scacchiera del profitto finanziario. Con tanti saluti al diritto del lavoro.
Fonte: il manifesto
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