di Siegmund Ginsberg
Continuano a scandire, agitare la loro bandiere rosse. La cosa che più colpisce nella Istanbul del dopo golpe è il permanente susseguirsi di manifestazioni, slogan, canti. Yenikapi a sostegno di Erdogan sembrava Tiananmen ai tempi di Mao. A piazza Taksim non succedeva da anni che potesse riunirsi tanta gente. E di tante parti politiche diverse e contrapposte. E non si canta solo in piazza. Tra i tavoli dei ristoranti, strapieni, che si affacciano sul mare a Büyükada, la maggiore delle isole dei Principi, continuano ad intrecciarsi duelli canori: canti patriottici da una parte, cui rispondono vecchi canti della sinistra da un’altra parte. Monta irresistibile l’allegria col raki, cominciano le danze. Si mangia e ci si diverte.
Come se niente fosse successo. Anzi, no, forse proprio per reagire a quel che sta succedendo.
«Goccia a goccia... il suo sangue fino a quando non verrà in piazza il mio popolo, con le sue canzoni». Questi i versi di una delle ultime poesie di Nazim Hikmet, dedicata a uno studente diciannovenne ucciso a Istanbul nel 1960. Il poeta era in esilio a Mosca. Del golpe del 1960 si è ormai persa la memoria. Del “Morto in piazza Beyazit”, non sappiamo nulla. Nei versi di Hikmet è una sorta di “militante ignoto”, simbolo di un grande massacro che proseguì nei decenni successivi. Ma non credo che sognasse questo tipo di piazze il vecchio comunista, eternamente innamorato della rivoluzione, così come di un numero sterminato di donne (“ce n’era sempre un’altra”, ha riassunto Piraye, quella a cui aveva dedicato le sue poesie dal carcere, e che fu solo una dello sterminato catalogo). Anche se è meglio degli scontri armati. È una tradizione locale confrontarsi a slogan scanditi e canti negli stadi. Fece scandalo quando interruppero il minuto di silenzio per i morti di Parigi scandendo Allah Akbar. L’ultimo slogan portato lontano dal vento che avevo udito scandire dagli spalti del nuovissimo stadio suonava: “La Turchia è laica e laica resterà”. Ora bisognerà attendere la nuova stagione calcistica.
Di Nazim Hikmet raccontano che gli piacesse cantare, ridere, scherzare, raccontare barzellette anche nei momenti peggiori, anche in carcere, anche quando al processo a porte chiuse fu chiesta la condanna a morte per impiccagione. Anche quando aveva già scontato 14 anni e gliene restavano da scontare altri 17. L’avevano condannato per incitamento all’ammutinamento nelle forze armate. Poi per ammutinamento nella marina per conto di una potenza straniera. Questo perché lui era comunista e dei giovani ufficiali leggevano le sue poesie. Lo rinchiusero in una nave trasformata in prigione, in un locale sommerso da mezzo metro di escrementi. Spellarono a bastonate le piante dei piedi ai militari suoi “complici”. Era negli anni ’30. Un capo di Stato maggiore che spingeva perché la Turchia entrasse in guerra a fianco di Hitler voleva una punizione esemplare. Quel generale fu poi licenziato, la Turchia dichiarò invece guerra, in extremis, a metà 1945, alla Germania. In Turchia ci sono cose che non cambiano anche quando cambia tutto. Continuavano a liberarlo e incarcerarlo di nuovo. Tornò libero, per una riduzione della pena, nel ‘50. E, all’età di 50 anni, con un infarto alle spalle, lo richiamarono alle armi per mandarlo a combattere contro i comunisti in Corea. Lui fuggì avventurosamente in barca, fu raccolto nel Mar Nero da un mercantile battente bandiera romena. A Mosca fu accolto con tutti gli onori, poi Stalin decise qualcosa che neanche i turchi avevano osato: di ammazzarlo. Una sera l’autista che gli avevano assegnato irruppe ubriaco nella dacia a Predelkino e confessò singhiozzando che l’ordine di fingere un incidente gli era stato dato direttamente da Beria. Così racconta il suo collega poeta Evtushenko.
A Hikmet mi accomuna l’essere nato a Istanbul (in realtà lui era nato a Salonicco), l’essere stato comunista, essere renitenti alla leva, l’essere stato privato della nazionalità turca per decreto del consiglio dei ministri e pure (quand’ero più giovane), l’essermi innamorato più spesso del dovuto. Tra le differenze: che il turco l’ho dimenticato e che non ho mai saputo cantare e soprattutto il fatto che, almeno nei suoi versi, lui è sempre ottimista, anche nelle circostanze più disperate, mentre col passare degli anni io tendo ad essere pessimista. «Uno scrittore che non offre speranze non ha il diritto di fare lo scrittore… Ci possono essere ragioni per essere tristi, sconsolati, amareggiati, ma non ce n’è alcuna per essere senza speranza», scriveva a Orhan Kemal ( In jail with Nazim Hikmet, 2010). E in effetti l’idea del suicidio gli passò per la mente solo per pene d’amore. E probabilmente era solo per finta. Consiglio di rileggere Hikmet quest’estate, e non solo le suePoesie d’amore (nel corso della mia vita ne ho regalate tante copie, a tante ragazze, che Mondadori dovrebbe darmi un premio). Anche Paesaggi umani, o In quest’anno 1941 dicono della sua Turchia, dell’umanità, del coraggio, e insieme della ferocia, delle viltà, dei fanatismi contrapposti, delle “stranezze” del suo popolo molto più che un’intera biblioteca sulla Turchia. Del resto non c’è autore turco contemporaneo che non abbia un debito con Hikmet, compreso l’Orhan Pamuk dell’ultimo romanzo La stranezza che ho nella testa. È uscito in traduzione italiana anche il romanzo su Hikmet di Nedim Gürsel, L’angelo rosso (Ponte alle Grazie). Peccato che il titolo scimmiotti quello della traduzione francese, mentre l’originale turco è Seytan, Melek ve Komünist, “Demonio, Angelo e Comunista”, e rende assai meglio la complessità e le contraddizioni del personaggio, di un secolo, di un Paese (la Turchia) e di un continente (la nostra Europa). Mi è incomprensibile invece perché non sia ancora disponibile in italiano la straordinaria, bella e ricca biografia su Hikmet di Saime Göksu ed Eward Timms, Romantic Communist, pubblicata nel 1999.
Fonte: La Repubblica
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