di Chiara Cruciati
Più di 130 carri armati Abram, 153 mitragliatrici M2 e 266 M240, 133 lanciagranate, visori notturni, ricetrasmittenti: c’è questo nel pacco che gli Stati Uniti invieranno all’Arabia Saudita. Mercoledì il Dipartimento di Stato Usa ha approvato la vendita di armi dal valore di 1,15 miliardi di dollari a Riyadh. «Questa proposta di vendita contribuirà alla politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti – si legge nel comunicato ufficiale – contribuendo a migliorare la sicurezza di un partner strategico regionale che continua a essere un contributore importante per la stabilità in Medio Oriente».
La fiera dell’ipocrisia. Washington si tappa occhi e orecchi per portare a casa un bel gruzzolo, che andrà nelle casse della General Dynamics Land Systems. L’Arabia Saudita – è dimostrato da rapporti e inchieste come quella pubblicata su queste pagine il 27 luglio – getta a piene mani benzina sul fuoco dei conflitti regionali, distribuendo armi e denaro a gruppi jihadisti. Quelle armi, che arrivano copiose dall’Occidente, le usa anche in proprio: lo Yemen ha tagliato il drammatico traguardo di 500 giorni ininterrotti di conflitto, superando di gran lunga il bilancio ufficiale di 6.300 vittime stimato dall’Onu e fermo da mesi.
La conta dei civili uccisi nei raid sauditi va aggiornato ogni giorno: mercoledì 4 persone (di cui due bambini) sono state uccise in una zona residenziale della capitale Sana’a; il giorno prima i morti erano stati 14 quando la petromonarchia ha colpito una fabbrica, di nuovo a Sana’a. Gli ultimi giorni hanno visto un intensificarsi delle operazioni aeree contro la capitale, tanto da costringere alla chiusura dell’aeroporto, per lo più usato per l’arrivo – sporadico – di aiuti umanitari. La ragione della ripresa dei raid su Sana’a e il più generale rilancio dell’operazione “Tempesta Decisiva” è politica: con il dialogo in Kuwait fallito per l’ennesima volta, i ribelli Houthi hanno deciso unilateralmente la creazione di un consiglio governativo insieme al partito dell’ex presidente Saleh.
Eppure, nonostante un anno e 5 mesi di guerra, Riyadh non riesce a spuntarla. Gli Houthi, pur cacciati dai territori occupati a sud, sono arroccati nel centro-nord del paese (e quindi al confine con l’Arabia Saudita), opponendo al governo alleato saudita una strenua resistenza.La monarchia Saud è così invischiata in un conflitto che non solo non riesce a vincere, ma che mette in seria difficoltà le casse statali. Dati certi non ce ne sono, quello che si sa è che a dicembre dello scorso anno (dopo 9 mesi di guerra yemenita) il Ministero dell’Economia saudita faceva sapere che la spesa totale si assestava sui 5,3 miliardi di dollari.
Si sa anche che l’Arabia Saudita, paese con meno di 30 milioni di abitanti, è il terzo al mondo per budget militare dopo le superpotenze Usa e Cina: 87,2 miliardi di dollari all’anno per spese militari. Uscite consistenti, soprattutto alla luce del crollo del prezzo del petrolio che ha costretto la monarchia a misure economiche restrittive per mettere una pezza ad un buco di bilancio di quasi 100 miliardi di dollari (il 15% del Pil): introduzione dell’Iva, taglio dei sussidi per acqua e elettricità, aumento delle tasse su tabacco e bevande, riduzione degli stipendi pubblici.
E poi collette: a chiedere donazioni private a favore dell’esercito saudita è stato Abdul-Aziz al Sheikh, la più alta carica religiosa del paese e gran muftì. Ha fatto appello a banche, privati, imprenditori a donare così da coprire le spese per i soldati uccisi e per rafforzare le difese militari a sud, al confine con lo Yemen.
Gli effetti della “crisi” si vedono proprio qui. Nonostante Riyadh compri armi a destra e a manca, pare non abbia abbastanza fondi per coprire i salari degli yemeniti, civili, che si sono uniti alle fila delle truppe governative del presidente Hadi. Diventati miliziani nella guerra agli Houthi, ricevevano uno stipendio di 8 dollari al giorno. Ma da gennaio di denaro non c’è e molti hanno deciso di svestire quei panni per indossarne altri: quelli dei gruppi salafiti e qaedisti.
La situazione più drammatica è a Taiz, città nel centro-sud del paese, da mesi terreno di scontro quotidiano tra ribelli e pro-governativi. E in tutto il paese sarebbero 5-10mila i combattenti che hanno abbandonato il campo di battaglia. Molti di loro, dicono fonti locali, si sono uniti a milizie salafite e ad Al Qaeda nella Penisola Arabica, giudicati più affidabili del governo nella guerra ai ribelli.
Articolo pubblicato su Il manifesto
Fonte: Nena News
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