di Roberto Ciccarelli
Il prodotto interno lordo italiano, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è rimasto invariato nel secondo trimestre rispetto al precedente ed è aumentato solo dello 0,7% rispetto al 2015. Con una crescita nulla a fine anno le previsioni del governo sull’economia del 2016 saranno dimezzate: invece dell’1,2% annunciato nel Documento di Economia e Finanza (Def) il Pil sarà pari a +0,6%. Alle stime dell’Istat il governo ieri ha risposto con il gioco dello scaricabarile. Le responsabilità non sono delle politiche economiche basate su bonus e incentivi a pioggia che non hanno risollevato la domanda interna, ma di fattori esogeni alquanto imponderabili: la Brexit, il terrorismo, le migrazioni.
A questi risultati del Pil il Tesoro e Palazzo chigi si stanno preparando dal 23 giugno scorso, il giorno del referendum inglese. In loro soccorso sono arrivati i pesi massimi, dal Fmi all’Ocse, per sollevare Renzi e Padoan dalla responsabilità delle loro incerte performance. Ieri, con i dati Istat, hanno esibito la partitura preparata da un mese e mezzo: l’Italia è il paese che perde più ricchezza dell’intera Eurozona a causa di eventi indipendenti dal governo. A suggello di questa autogiustificazione è arrivata una nota da Viale XX settembre che ha confermato l’ordine di scuderia: da un lato, giustificarsi con gli effetti prodotti da una geopolitica fuori controllo, dall’altro lato ridurre la politica economica al compito dei ragionieri che tengono sotto controllo i conti. «I dati non sono una sorpresa» è il commento. La produzione industriale crolla, l’export frena, il Pil cala e aumentano deficit e debito pubblico, il paese è in deflazione, ma «i conti sono a posto, nonostante la crescita sia più fragile del previsto». Come sempre in questi casi viene agitata la bandierina del Jobs Act: «l’occupazione continua a migliorare nel settore dei servizi che potrebbe contribuire a conseguire risultati migliori». Va notato che i precari impiegati nei servizi sono usati per dimostrare l’eccellenza di questa situazione.
A questi risultati del Pil il Tesoro e Palazzo chigi si stanno preparando dal 23 giugno scorso, il giorno del referendum inglese. In loro soccorso sono arrivati i pesi massimi, dal Fmi all’Ocse, per sollevare Renzi e Padoan dalla responsabilità delle loro incerte performance. Ieri, con i dati Istat, hanno esibito la partitura preparata da un mese e mezzo: l’Italia è il paese che perde più ricchezza dell’intera Eurozona a causa di eventi indipendenti dal governo. A suggello di questa autogiustificazione è arrivata una nota da Viale XX settembre che ha confermato l’ordine di scuderia: da un lato, giustificarsi con gli effetti prodotti da una geopolitica fuori controllo, dall’altro lato ridurre la politica economica al compito dei ragionieri che tengono sotto controllo i conti. «I dati non sono una sorpresa» è il commento. La produzione industriale crolla, l’export frena, il Pil cala e aumentano deficit e debito pubblico, il paese è in deflazione, ma «i conti sono a posto, nonostante la crescita sia più fragile del previsto». Come sempre in questi casi viene agitata la bandierina del Jobs Act: «l’occupazione continua a migliorare nel settore dei servizi che potrebbe contribuire a conseguire risultati migliori». Va notato che i precari impiegati nei servizi sono usati per dimostrare l’eccellenza di questa situazione.
Una nota al limite del surreale che non spiega la ragione per cui – se i fattori di destabilizzazione «erano noti da tempo» – nessuno ha sentito la necessità di correre ai ripari. Anzi, visto che il Def è stato presentato ad aprile si desume che quel «noto da tempo» corrisponde a un periodo inferiore ai quattro mesi, un tempo troppo breve per fermare la corsa del treno renziano.
Il 27 settembre il governo presenterà la nota di aggiornamento del Def e «a quel punto vedremo in che situazione ci troveremo» ha detto il viceministro all’Economia Enrico Morando. La situazione sarà brutta al punto da mettere in discussione la «manovra espansiva» a cui Renzi vorrebbe affidarsi per sostenere la sua campagna sul referendum costituzionale. «Inevitabilmente – ha confermato Morando – sarà possibile che si determinino maggiori difficoltà nella definizione delle scelte. O meglio, bisognerà tenere conto di questo andamento nella definizione delle scelte che riguardano il 2017 e gli anni successivi». A rischio sono i fondi sulle pensioni (il governo vorrebbe arrivare a 2,6 miliardi), la decontribuzione fissa sui neoassunti per dare più soldi alle imprese e più a lungo e dire che il Jobs Act funziona. E poi il taglio dell’Irpef. «Alla fine dovremo trovare il modo di avere quattrini su questo. Spero che riusciremo a farlo», aveva detto Renzi il 5 maggio scorso in una diretta social. Non riuscirà a farlo.
Due sono le conseguenze di questa situazione: Renzi tornerà alla carica per ottenere ancora più flessibilità da Bruxelles prima del referendum per finanziare in deficit quello che non riesce a produrre con la sua politica economica. E poi si intensificherà la campagna a sostegno del “Sì” alle urne da parte di quotidiani e istituzioni internazionali. Dopo l’Fmi, l’Economist, il Financial Times è stato il turno del Wall Street Journal difendere l’enfant prodige di Rignano: se la sua riforma fosse respinta “l’economia sarà bloccata in una bassa crescita”. La bassa crescita è piuttosto l’esito ultimo dell’austerità economica. Con un rovesciamento del senso comune, sarà invece usata per difendere i loro responsabili: Renzi e Padoan.
Fonte: il manifesto
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