di Gianni Mattioli e Massimo Scalia
Avevamo detto che l'accordo di Parigi era già stato in qualche modo "scritto" nelle sessioni Unfccc tenutesi nel corso del 2015, nei risultati già ottenuti dalla Ue rispetto ai tre 20% negli accordi bilaterali - nel triangolo Stati Uniti, Cina e Russia - che erano proseguiti in questi anni e nell'impegno assunto dall'amministrazione USA, proprio nel 2015, sulla riduzione delle emissioni carboniose entro il 2030, anche se solo rispetto al 2005 e non al 1990. Solo un flash.
Nell'accordo non è fissato un obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti, ma si concorda di: «tenere l'incremento della temperatura media mondiale ben sotto i 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali e fare sforzi per limitare l'incremento della temperatura a 1,5 °C, riconoscendo che ciò ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico».
Vincolanti diventano le procedure come gli obblighi, per esempio di reporting delle emissioni e degli assorbimenti di gas serra e delle politiche e misure messe in attoper la mitigazione, a carico di tutti i Paesi. I reporting saranno sottoposti a una revisione che dovrà verificare il livello di attuazione degli impegni che i Paesi hanno assunto con gli Intended National Determined Contribution (Indc).
Lungi però da noi l'intenzione di stilare qui l'analisi di un Accordo complesso, oltre tutto di carattere legale, come quello di Parigi, del quale vale la pena rilevare la fortissima legittimazione derivata dalla folta presenza di capi di Stato e di governo che hanno seguito la fase finale che ha portato all'accordo.
Il nostro punto di vista è del tutto analogo a quello espresso in merito, dal direttore esecutivo di Greenpeace International Kumi Naidoo e da Nicholas Stern, consigliere economico del governo inglese, famoso per il suo rapporto sull'impatto economico dei cambiamenti climatici (2006) che, con parole nostre, suona così: «Indipendentemente da valutazioni di merito sui singoli aspetti, il più importante effetto dell'accordo di Parigi è quello di segnare l'inizio della fine dell'era dei combustibili fossili». Fanno in qualche modo fede gli impegni già assunti a Parigi da 180 Paesi, che rappresentano il 95% delle emissioni globali, mentre i Paesi impegnati al momento dell'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, il 16 febbraio 2005, rappresentavano poco più del 55% delle emissioni.
L'Europa sta già discutendo di come ripartire l'obiettivo del 40% di riduzione al 2030; il 100% di copertura dei consumi elettrici al 2050 con fonti rinnovabili, stimato dalRapporto McKinsey, sembra un obiettivo del tutto ragionevole. Queste considerazioni non alterano gli aspetti fondamentali del quadro che tante volte abbiamo tracciato proprio sulla rivista QualEnergia.
Da un lato, sulla scorta di Abrupt Climate Change, possiamo affermare con la forza della ragione scientifica, per dirla volgarmente, che «i buoi sono già scappati dalla stalla»: l'instabilità climatica sarà lo scenario delle prossime decadi, con le conseguenze che già sperimentiamo e la necessità di una education volta a superare atteggiamenti emergenziali nell'affrontare le prevedibili conseguenze dell'instabilità.
Dall'altro, un percorso difficile e faticoso, di fronte alle massive inerzie e ai formidabili interessi consolidati dei giganteschi sistemi energetici fossili, alla necessità di riorientare produzione e consumo all'insegna della "rivoluzione energetica" e, più in generale, verso un nuovo modello socioeconomico sostenibile. E a proposito di una education per i prossimi decenni sulla quale c'è un preoccupante ritardo, non vogliamo proporre il lamento e la raccomandazione; a questa ci pensa, con qualche chance in più, Papa Francesco. Ci limitiamo ad alcuni modesti spunti per una riflessione sull'indifferenza della cultura politica, economica, ma non solo; al di là dell'esecrazione. E parleremo, per difetto di conoscenza, essenzialmente della situazione italiana.
È forse perché nella formazione scolastica manca l'obiettivo di "mescolare" la formazione scientifica con la formazione culturale comunemente intesa, come lingua, letteratura, diritto e così via? Le due formazioni possono convivere tranquillamente separate, restando poi la formazione culturale a caratterizzare il cittadino e avviando invece la formazione scientifica verso il mansionario delle professioni specialistiche, salvo qualche guizzo di consenso di tutti all'evocazione della velocità della luce o della materia oscura. Ma quest'analisi va al di là della tranquilla osservazione che aveva proposto Charles P. Snow ne "Le due culture".
Qualche esempio può risultare emblematico. La nozione della stabilità dell'equilibrio in un sistema: non si può mutare il valore di un parametro, senza investigarne l'effetto sulla condizione di stabilità dell'equilibrio. È il caso dell'aumento della concentrazione di CO2 nell'atmosfera e il suo effetto sulla stabilità dei fenomeni periodici: le correnti marine, i venti, la qualità delle stagioni. Ma c'è voluto tanto per far passare questa nozione drammatica nel sapere diffuso, nella politica.
Un altro esempio: il riconoscimento di un possibile grave effetto prodotto da una perturbazione anche piccola. Non è solo l'ormai famoso «battito delle ali di una farfalla in Brasile che può provocare un uragano in Texas». È il caso dell'effetto dipiccole, piccolissime dosi di radiazioni a chi volete che possano far gran male? sulla crescita abnorme di leucemie e tumori infantili nelle vicinanze delle centrali nucleari, che l'Università di Mainz spiegherà con la maggiore sensibilità dei tessuti emopoietici delle donne incinte.
Ma perché non era venuto in mente ad alcuno, neppure a quelli che si opponevano alle centrali, il possibile effetto di una nuova causa sul normale esistente? Insomma, quale sarebbe l'effetto nella formazione a scuola di un ruolo più integrato dell'osservazione scientifica, del sapere scientifico nel sapere diffuso? Forse ne scaturirebbe anche una cultura politica che mostrerebbe una disponibilità più efficace all'intervento.
Quanto alla cultura economica anche gli "innovatori", coinvolti fin dal 2009 nell'Institute for New Economic Thinking (Inet) da George Soros a centinaia in tutte le università e i centri di ricerca del pianeta, con una vasta presenza di premi Nobel: Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Amartya Sen denunciano sì, la totale inadeguatezza del dominante pensiero neoliberista e più in generale dell'attuale teoria economica nell'affrontare i temi di un'economia globalizzata, ma anche nei recentissimi e originali modelli weather forecast avanzati proprio da ricercatori italiani, continuano a proporre analisi e applicazioni dove si contemplano solo variabili economiche, mai insieme a quelle ecologiche come invece la duplice crisi dell'ambiente e dell'economia imporrebbe.
Siamo insomma ancora lontani da teorie e modelli per gli scenari socioeconomici della sostenibilità.
Fonte: Qualenergia
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