di Giorgio Lunghini
La crisi attuale – economica sociale politica culturale – meriterebbe qualche cenno al suo contesto internazionale (meglio: mondiale). A questo fine sono utili due contributi di Noam Chomsky: la sua metafora del Senato virtuale (mutuata dall’economista Barry Eichengreen), e il suo ultimo libro: Who Rules the World? (che scioglie quella metafora in trecento pagine). Il Senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali.
E che se giudicano ‘irrazionali’ tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (in particolare delle varie forme di stato sociale). I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il Senato virtuale, che normalmente prevale. Questo è un portato della liberalizzazione dei movimenti di capitale, a sua volta un effetto dello smantellamento del sistema di Bretton Woods negli anni ‘70: ne sono ovvie le conseguenze per la democrazia economica (i più colpiti sono i più deboli tra i cittadini dei diversi paesi) e dunque per la democrazia in generale.
Quanto a Who rules the world?, ecco alcuni stralci dall’Introduzione: «La domanda posta dal titolo di questo libro non ammette risposte semplificate, ma non è difficile identificare gli attori principali quanto a capacità di modellare le politiche mondiali. Tra gli Stati, dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati uniti sono di gran lunga al primo posto, ma con l’inevitabile declino Washington ha dovuto spartire il suo potere con gli altri “padroni dell’universo” all’interno del “governo mondiale de facto”.
Questi “padroni dell’universo” sono ovviamente ben lontani dal rappresentare le popolazioni dei loro stessi paesi. Negli Stati uniti le élite economiche e i gruppi organizzati che rappresentano gli interessi del mondo degli affari hanno una influenza autonoma e sostanziale sulla politica del governo, mentre il cittadino medio e i gruppi che lo rappresentano non hanno che poca o nessuna influenza. La maggior parte della popolazione, ai livelli più bassi di reddito e ricchezza, è di fatto esclusa dal sistema politico.
Una conseguenza è l’apatia: chi me lo fa fare di andare a votare! Trentacinque anni fa W.D Burnham mise in relazione l’astensione con una peculiarità del sistema politico americano: la totale assenza di un partito di massa socialista o laburista come concorrente organizzato sul mercato elettorale; e in una analisi delle elezioni del 2014 ha mostrato che il tasso di partecipazione al voto richiamava quello dei primi anni dell’Ottocento, quando il diritto di voto era riservato ai maschi liberi e possidenti. Quanti pensano che pochi grandi interessi controllino la politica, anelano a una iniziativa intesa a invertire il declino economico e la sfrenata diseguaglianza economica: ma nessuno dei due maggiori partiti, tutti e due sostenuti dal denaro, ciò vorrà fare nella misura richiesta. La conseguenza sarà la disintegrazione del sistema politico.
In Europa il declino della democrazia non è meno impressionante, da quando il processo decisionale sulle questioni cruciali è stato spostato alla burocrazia di Bruxelles e ai poteri finanziari che essa rappresenta. Il loro disprezzo della democrazia si è reso manifesto nel giugno del 2015, con la feroce reazione all’idea stessa che il popolo potesse avere voce nel determinare le sorti della società greca, devastata dalle brutali politiche di austerità della troika (la Commissione europea, la Banca centrale europea, e il Fondo monetario internazionale): politiche di austerità intese a ridurre il debito greco, che invece hanno fatto aumentare il rapporto tra debito e prodotto interno lordo e che hanno sfibrato il tessuto sociale della Grecia.
Poco di nuovo in tutto ciò. La lotta di classe ha una storia lunga e amara. Agli albori del capitalismo Adam Smith condannava i “padroni dell’umanità” dei suoi tempi, i “mercanti e i manifatturieri”, che erano i “principali architetti” della politica, attenti soltanto alla salvaguardia dei loro propri interessi, non importa quanto dannosi fossero gli effetti sugli altri. L’era neoliberale della passata generazione ha aggiunto le sue pennellate a questo quadro classico, con dei padroni che provengono dai livelli più alti di economie sempre più monopolizzate, da istituzioni finanziarie gigantesche e spesso predatorie, da multinazionali protette dallo stato, da quei personaggi politici che rappresentano i loro interessi.
Nel frattempo, quasi ogni giorno gli scienziati danno notizie minacciose circa la velocità del degrado ambientale; e non meno preoccupante è la crescente minaccia di conflitti nucleari (conflitti che alcuni autorevoli esperti valutano più probabili oggi che non durante la Guerra fredda).
Con queste mie osservazioni, credo di avere descritto con buona approssimazione quali siano i personaggi principali. Nei capitoli seguenti si approfondisce la questione di chi governa il mondo, come si procede in questo tentativo, e dove esso conduce; e come le “popolazioni sottostanti”, per usare la definizione di Veblen, possono sperare di sconfiggere il potere del mondo degli affari. Non c’è più molto tempo».
Fonte: il manifesto
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