La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 11 agosto 2016

Il neoliberismo scambiato per riformismo capitalista

di Alberto Burgio 
È sempre più insistente la sensazione che la politica sia morta, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente. Sono tante le possibili ragioni: la deprimente ripetitività delle cronache; la desolante modestia dei politicanti; l’assenza, soprattutto, di prospettive di là dalla dittatura dei mercati, dallo stillicidio degli attentati e delle stragi di migranti e, chez nous, dal dilagante malaffare, dalla cronica indigenza delle finanze pubbliche e dall’inesorabile immiserimento del mondo del lavoro. Naturalmente «morte della politica» non è che uno slogan. Eppure questa formula suggestiva contiene una verità interna sulla quale vale la pena di ragionare.
Partiamo dal dato più vistoso. Da decenni ormai nel cuore del mondo capitalistico la sinistra ha abbandonato le classi lavoratrici, spingendole alla protesta qualunquistica o tra le braccia delle destre nazionaliste e xenofobe.
Oggi questo processo è persino plateale.
I democratici americani non trovano di meglio che un’indomita paladina del potere finanziario. I socialisti francesi mettono un paese a ferro e fuoco pur di cancellare i diritti del lavoro dipendente. I laburisti inglesi si industriano per sbarazzarsi del loro unico dirigente radicale e il nostro Pd, votato ormai soltanto dalla buona borghesia delle città, non fa che studiare il modo per blindare il sistema pur di regalare ricchezza e potere alle oligarchie.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Milioni di americani poveri voteranno un miliardario invasato e irresponsabile. Milioni di operai francesi si riconoscono nella Le Pen. Milioni di proletari inglesi hanno dato retta a Farage e Johnson. Milioni di italiani prendono sul serio addirittura Salvini e Di Maio.
Definire questo fenomeno diffusione dei populismi è solo un modo per tranquillizzarsi, descrivendo le destre come banche cattive zeppe di spazzatura. Ma quando si giudica senza capire, il giudizio è per forza viziato.
C’è una domanda che bisognerebbe porsi prima di precipitarsi a dare i voti, una domanda di ordine storico, che chiama fatalmente in causa le culture politiche dei gruppi dirigenti di quella che in tempi ormai lontani fu, almeno in Europa, una sinistra sociale di massa. Perché questa metamorfosi delle sinistre socialiste?
Perché, soprattutto, in concomitanza dello sfondamento neoliberale che in Europa si verifica dagli anni Ottanta e che aggredisce la sovranità democratica dei corpi sociali, riduce al minimo diritti e redditi del lavoro salariato, impone politiche economiche incentrate sul dominio degli oligopoli industriali e dei potentati finanziari?
Il neoliberismo di Reagan e Thatcher era evidentemente un programma di destra: perché diviene subito – con Clinton e Blair – la stella polare della controparte, e come mai, soprattutto, lo rimane nei decenni di poi, nonostante l’evidenza dei suoi effetti rovinosi?
Sembra che porsi questi interrogativi mentre affondiamo impotenti nella miseria materiale e morale significhi rimuovere i problemi più urgenti, e invece è l’esatto contrario.
Potremo tentare di uscire da questa morta gora solo se finalmente capiremo le ragioni della mutazione che ha trasformato in radice la parte politica che nel suo complesso, con le sue molteplici articolazioni, nei trent’anni successivi alla guerra mondiale aveva fatto valere le ragioni del mondo del lavoro e difeso gli interessi delle classi subalterne.
Ottant’anni fa Gramsci si fece una domanda simile di fronte agli entusiasmi liberisti di alcuni dirigenti anarco-sindacalisti. E si rispose evocando il primitivismo ideologico («corporativo») di quanti ignorano le connessioni che legano l’economia alla politica.
Ci si può innamorare del libero mercato, a sinistra, solo se non si intende che dietro questa quinta si staglia un determinato assetto dei poteri e dei rapporti di forza tra le classi. Ma nel frattempo è successo di tutto, il fascismo è imploso, c’è stata un’altra guerra mondiale, la guerra fredda, il crollo del socialismo reale, una nuova mondializzazione: possibile che questa risposta, sempre che fosse giusta per quei tempi, valga ancora nei nostri?
Non si tratta di improvvisare soluzioni pur di mettersi l’animo in pace.
Lo ripetiamo: non muoveremo un passo fuori dalla palude (il che non ci impedirà di spedire qualche comparsa nel teatrino di Montecitorio) finché non avremo capito davvero le ragioni dell’eclissi della sinistra in tutto l’Occidente.
Si tratta quindi di lavorare, di studiare, di cercare seriamente. Qui, in linea d’ipotesi, è possibile tutt’al più segnalare una coincidenza, tautologica solo in apparenza. I partiti socialisti (e in Italia lo stesso partito comunista, maturata la decisione di dissolversi) si sono consegnati al neoliberismo quando hanno dismesso ogni intenzione critica nei confronti del sistema capitalistico, quando, ripudiata l’idea stessa di lotta di classe, hanno accettato di concepirsi come variabili interne del sistema, votate a ottimizzarne la riproduzione.
Ma si è trattato di una causa, o di una conseguenza? E, in questo caso, da dove nacque il mutamento, visto che precedette nel tempo anche il crollo dell’Unione sovietica?
Sembra comunque chiaro che è stato un gravissimo errore politico e storico e un disastro di immense proporzioni. Margini di evoluzione riformatrice del capitalismo sussistono nelle fasi espansive, mentre il neoliberismo fu ed è la risposta a una crisi strutturale di redditività del capitale industriale.
Avere rinunciato a qualsiasi azione di resistenza attiva ed essersi anzi trasformati in forze organiche al sistema in una fase storica che ne precludeva l’evoluzione «progressiva» ha comportato, inevitabilmente, il suicidio della sinistra socialista, laburista e liberal in tutta Europa e nel mondo anglosassone.
Oggi siamo alle prese, giorno per giorno, con le conseguenze di questa vicenda. Che va indagata in ogni suo passaggio e criticamente compresa, a meno di rassegnarci a quella che ci appare come la morte della politica.

Fonte: il manifesto 

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