di Renata Puleo
Cosa significa, per condizioni specifiche e condizionamento sociale, lavorare a scuola? Chi insegna a quale soggettività è piegato, sia che ami il suo lavoro, sia che lo consideri un ripiego o una iattura? A quale potere gli insegnanti sono organici, se vale ancora questa definizione, e credo di sì, come ho già avuto modo di scrivere in queste pagine, e come possono dis-alienarsi dalla condizione subalterna a cui sembra condannarli anche la precarizzazione, la caduta salariale, lo svuotamento della ragione professionale?
Per orientarmi faccio ricorso ad alcune questioni-chiave, altrettanti snodi di un quadro composito, ma coerente, in cui si configurano il lavoro docente e la sua attuale crisi:
il capitale umano;
il tempo (di lavoro, di servizio, di apprendimento);
la valutazione come misura e giudizio;
la scuola-mercato
Credo non possa sfuggire la coesione reciproca fra le quattro questioni. Le metafore di ambito strettamente economico, entrate in forza nel linguaggio scolastico, rendono ragione del processo di valorizzazione del lavoro intellettuale, cognitivo e fisico (vivente, dei corpi) in atto nella scuola e della messa a profitto – il valore aggiunto – del rapporto formazione-educazione-cittadinanza. Così come non può sfuggire quanto l’ambiguità terminologica sia funzionale al disegno di confondere le acque di una qualsiasi analisi tendente a sovvertire nella pratica questo ordine.
Il capitale umano. I comportamenti, gli stili, l’etica come deontologia nel senso originario di orientamento all’utile (J.Bentham), l’efficacia del risultato per l’efficienza della spesa materiale impiegata, costituiscono le caratteristiche dell’ampia platea delle risorse umane di cui il lavoro scolastico è parte. Risorsa è il docente, risorsa è lo studente, risorsa è la burocrazia che garantisce la tessitura del necessario al funzionamento della macchina dell’apprendimento. Quanto tutto questo scivoli dal terreno dei comportamenti utilitaristici a quello filosofico e morale dei valori, appare nel cuore della contraddizione linguistica che nomina, all’interno della stessa area semantica, ciò che vale in modo gratuito, senza resa monetaria, e ciò che costituisce investimento economico destinato a moltiplicazione del profitto. Si assiste così alla progressiva distruzione del valore politico dell’asse istruzione-educazione proprio a partire dalla valorizzazione neoliberista del capitale umano. La risorsa da sociale si fa privata, la performance lavorativa acquista un carattere individuale, ogni insegnante sembra lavorare fuori dal vincolo di una qualsiasi comunità educante. Il lavoro competitivo, concorrenziale e, con apparente contraddizione, conformista, generico, omogeneo, è premiato con il fuori-busta salariale, come si faceva con l’operaio produttivo, nella Fiat del dottor Valletta. Qualche esempio del particolare, del quotidiano, sostiene quel che dico: se un insegnante usa scrupolosamente il macchinario burocratico fornito dal Servizio Nazionale di Valutazione (test e loro quadri di istruzione per l’uso e riferimento “teorico”, questionari, report, format, ecc.), se accetta che la sua scuola venga colonizzata da un ristorante di hamburger, se evita di discutere con i suoi alunni, se infila anche la filosofia dentro un algoritmo per renderla digeribile, codificata, riceve il suo premio. Lo merita perché risulta redditizio come capitale umano su più versanti: aderisce, si adatta, e nel contempo trasferisce ai più giovani il modello di comportamento sociale a cui tutto ciò si ispira. La sua prestazione, tra l’altro, costa meno di quanto costerebbe se gli fosse riconosciuto un lavoro di ricerca educativa, di didattica originale, il tempo di lavoro sommerso, oltre quello frontale. Questo docente–risorsa non instaura alleanze con altri lavoratori, accetta i meccanismi di sfruttamento come naturali. Costituisce la cedola di un’ipoteca sul futuro, si indebita egli stesso giocando il suo sapere alla borsa delle azioni che conservano l’esistente. C’è una sottile differenza e una simmetria costante fra il trarre immediato profitto dalla privatizzazione e dalla immissione di merci nelle scuole e il trarre valenza di “derivato” dal processo educativo: la sussunzione del lavoro docente, il suo esser succhiato dentro il modello economico neoliberista, lo trasforma in elemento di stabilizzazione dei rapporti sociali esistenti. Il tempo. La questione temporale è immediatamente, senza mediazione, connessa ai processi di valorizzazione, e malgrado la vasta critica condotta sul tempo di pluslavoro come determinante del profitto, essa appare ancora centrale. Che il tempo della cura delle relazioni non sia considerato tempo debito, kairos necessario, ma scarto, resto dal tempo produttivo, è messo in grande evidenza dalla accelerazione che anche la riproduzione sociale a scuola subisce. L’insegnante lavora poco, secondo il mantra che ripete come il salario diviso per numero di ore annuali sia “equo”, ed è un lavoratore anomalo che tende a sfuggire alla macchina taylorista. Per descrivere l’insegnante che perde autostima (accettando di pensarsi un privilegiato o peggio un potenziale fannullone), e si fida di chi gliel’ha minata, si potrebbe parafrasare l’apologo del salariato impoverito che non cessa di essere consumatore fiducioso (C. Crouch). Occorre allora, per rinforzare il nesso tempo-efficacia, una computazione analitica di quel che fa, sia quando svolge una lezione, o quando la prepara. Parlare con gli alunni di questioni disciplinari o attinenti le dinamiche del gruppo è tempo uscito dai cardini. La discussione fra colleghi in collegio è da soffocare con il decisionismo veloce frutto dell’elaborazione del solo dirigente e del suo staff. Sempre per essere concreta: spesso i collegi sono oberati da un numero enorme di punti all’ordine del giorno, semplicemente sostituiti dall’invio di informazioni di servizio (ordini a cui attenersi perché “ovvii”, indiscutibili) via e-mail, addirittura vicariati da sondaggi di opinioni mediante domande e risposte a scelta multipla, inviati sempre in forma virtuale. Il lavoro vivo, dispendio di forze intellettuali e fisiche, è irreggimentato in lavoro passato, morto, acquista la forma della merce.
La valutazione. Le manovre previste dai due punti precedenti, perché stiano al gioco del capitale-risorsa-umana prevedono il “giudizio” sulla contabilità numerica, sulla conta costi-benefici. Si tratterà di trovare la maniera per rendere visibile, concreto, fuori da ogni astrazione, il lavoro del docente. La misura della produttività starà stretta nella morsa fra investimento iniziale e resa, ma si può riuscire a rappresentarla semplificando e materializzando al massimo possibile il prodotto – sempre umano – del lavoro docente. Sarà opportuno capire come, in una cornice, in un frame work assunto in modo verticale, dall’alto di un supposto sapere sui contenuti disciplinari e sulle cosiddette competenze, si inserirà la performance dell’alunno. A questo servono i test standardizzati; essi a monte “disciplinano le discipline” (dentro paradigmi indubitabili, “veri” per assunto), a valle governano le platee di studenti. Vale anche per la ricerca, per la formazione universitaria: basta creare un formato a cui far aderire un’ipotesi e i suoi argomenti, una sorta di schema-guida di pubblicazione di un’idea. La moltiplicazione delle citazioni e la numerosità degli incroci che, quantitativamente, inseriscono la ricerca svolta in testi, in pubblicazioni, la collocherà in una graduatoria di importanza. Su cui si giocano i finanziamenti, le esplorazioni permesse e i percorsi assolutamente vietati.
Il mercato. La scuola è appetibile per le aziende, soprattutto quelle legate alle nuove tecnologie, alle corporazioni sovra-nazionali, alle agenzie di servizio passate al privato. Anche perché, è stato detto, la distinzione fra servizio, macchina-strumentazione e operatore si fa molto debole. La formazione di ragazzi capaci di diventare quel tipo di lavoratore condizionato dalla macchina – e in un futuro prossimo da questa reso superfluo – è funzionale, ottimizza eventuali operazioni di riqualificazione o di formazione continua rivolta a un precariato senza sbocco, corrobora all’addestramento nel comparto di stagnazione oggi pomposamente definito Fondo-Impresa. Pertanto, che si faccia scempio della riflessione gramsciana sull’importanza del lavoro manuale è normale nella retorica che sostiene i progetti di Alternanza-Scuola-Lavoro. Difficili da definirsi tali se non nel senso banale che la parola progetto ha assunto in ambito scolastico, essi nulla hanno di prospettiva futura, nulla di investimento conoscitivo sulla realtà del lavoro in regime neoliberista. In questo borioso impianto laburista (work o jobs? la distinzione è sottile e pregnante, l’ha capito perfino Renzi!) il lavoro è introdotto violentemente, a-criticamente. Un lavoro di cui si può fingere la messa in opera proprio perché non c’è, o perlomeno non c’è più secondo le vecchie categorie. Nessun cenno – se non a cura di qualche insegnante particolarmente coraggioso – al lavoro accettato a qualsiasi condizione, ai dis-in-occupati e al salario minimo (Quanto? Cosa vuol dire? Quante declinazioni ha nelle svariate accezioni di destra e di sinistra?), al lavoro per/dei migranti (e del lucro che se ne fa). Tanto meno si potrà far cenno al diritto all’ozio, o alla scholè, visto che siamo a scuola e delle parole occorrerebbe non solo far buon uso, ma anche storia.
Questione ultima, non per marginalità, bensì perché avrebbe bisogno di una trattazione a parte, è la femminilizzazione del lavoro scolastico. L’addomesticamento femminile al lavoro di cura e di sevizio, opera nell’ampia curva che va da coloro che negli anni settanta venivano definite “le casalinghe dell’apprendimento” fino alle donne dirigenti – oltre il 55 per cento - che rincorrono i modelli maschili di comando. Donne “vocate”, chiamate a insegnare per estensione di un’obbligazione ontologica, e donne che vorrebbero essere professioniste, oltre ogni implicazione affettiva. Anche qui frantumazione delle forme di vita, delle soggettività che il lavoro produce, fra sfruttamento, valorizzazione, pauperismo materiale e morale. Insomma, come recitava il femminismo, un’altra “contraddizione fondativa” oltre – potremmo dire attraverso – quella capitale-lavoro.
Concludendo, una riflessione per suo connaturato limite inconclusa: se dal lavoro docente si estrae profitto, pertanto esso è forza- lavoro e dunque può tradursi in antagonismo. Se ci manteniamo nella accezione ampia di lavoro pubblico-statale, di burocrazia intellettuale, non riusciamo a tradurlo in termini di lotta in grado di avviare e/o di aderire ad altre forme di resistenza e di sovversione del sistema. Vige oggi nel sistema di sfruttamento del lavoro umano un principio di equivalenza fra lavori. Se il lavoro a scuola crea profitto esso è una merce e merce produce, al pari di altri. Con una rappresentazione sociale di feticcio che, rispetto ad altre categorie di oggetti e di servizi, appare più accentuata. La formazione delle creature piccole, dei figli come progenie a cui rivolgere l’attenzione adulta e genitoriale, appare sia come bisogno sociale (beneficio collettivo), sia come desiderio personale.
Il lavoro docente, dispendio di funzioni intellettuali, risulta insignificante, schiacciato fra la presunta expertise dell’oligarchia formata dallo staff degli esperti e dei tutori e la banale attività dell’esercito dei generici, sempre sostituibili. Non solo, la verticalizzazione e la denigrazione del lavoro cooperativo rende il concetto di scuola come luogo pubblico sfuggente, privo di qualsiasi aderenza al concetto di “comune”.
Quanto allo Stato, appare evidente l’abbandono del ruolo di mediazione sociale e la sua costituzione in apparato per il capitale, come più su ricordato: digitalizzazione e accelerazione dei processi, valutazione premiale, mortificazione del ruolo della ricerca libera, mercificazione, ecc.
La questione del lavoro, così come esso è venuto configurandosi nell’odierno panorama socio-politico e culturale, dovrebbe far entrare il lavoro del docente nei cantieri marxiani (S. Mezzadra). Le categorie individuate da Marx, a partire dal concetto di forza-lavoro, forma sociale tipica dei rapporti sociali di produzione capitalista, la distinzione fra lavoro vivo e lavoro morto, il sistema delle astrazioni che naturalizzano lo scambio e la mercificazione, proprio mentre trattano come cose i corpi, il tempo, i territori, possono tornare utili anche per capire le trasformazioni che stanno subendo e sopportando la scuola, i suoi lavoratori. Proprio l’attuale frammentazione del lavoro può avviare una stagione di lotte trasversali, non corporative, capaci di tessere alleanze sul principio “del comune”, spazio di incontro conflittuale atto a creare condizioni di vita definibili come “comuniste”. La scuola può diventare un fattore di interessanti equivalenze con il lavoro generico proprio di altri settori e occasione di lotta, ripeto, anche considerato il “forzato divorzio dalla democrazia” del capitalismo odierno (W. Streeck).
Fonte: La Città futura
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