di Maurice Meisner
I. Introduzione
I critici di Mao Zedong paragonano spesso gli ultimi anni del Presidente a quelli di Qin Shihuangdi, il primo Imperatore che nell’anno 221 a.C. unificò i vari regni feudali dell’antica Cina in un impero centralizzato sotto la dinastia Qin, la prima in una serie lunga 2000 anni di regimi imperiali. Nella tradizionale storiografia confuciana, il Primo imperatore viene ritratto come l’epitome del governante malvagio e tirannico – non da ultimo perché mise al rogo tanto i libri quanto gli studiosi di tale tradizione. Mao Zedong, negli ultimi anni del suo stesso regno (i Sessanta e i primi Settanta), abbracciò con entusiasmo l’analogia storica, lodando il Primo imperatore e il suo ministro legista Li Si per aver promosso il progresso storico nell’antica Cina, sgravata delle antiquate tradizioni del passato.
Mao, inoltre, difese la durezza del governo del Primo imperatore (e implicitamente il proprio governo) quale modello di vigilanza rivoluzionaria necessaria alla soppressione dei reazionari e all’accelerazione del movimento progressivo della storia.
Mao, inoltre, difese la durezza del governo del Primo imperatore (e implicitamente il proprio governo) quale modello di vigilanza rivoluzionaria necessaria alla soppressione dei reazionari e all’accelerazione del movimento progressivo della storia.
L’immedesimazione di Mao Zedong col Primo imperatore ha rinsaldato una forte tendenza diffusa tra gli storici occidentali ad ipotizzare un’essenziale continuità fra il lungo passato imperiale cinese ed il suo presente comunista. La Repubblica popolare, secondo tale punto di vista, appare come l’ennesima dinastia in una lunga serie che ha caratterizzato la Cina, con Mao Zedong esponente di un’altrettanto lunga serie di imperatori cinesi; la burocrazia comunista quale reincarnazione di quella imperiale; ed il marxismo/pensiero di Mao Zedong, come ideologia ufficiale dello stato, in un ruolo funzionalmente simile a quello del confucianesimo imperiale sotto il vecchio regime (1).
Non vi è dubbio che il comunismo cinese, se non vettore di una qualche tradizionale “essenza” cinese, sia intriso quantomeno di alcuni aspetti e frammenti del pensiero e della cultura tradizionali. Quando Mao Zedong si interrogava sulla “sinizzazione del marxismo” nel 1938, suggeriva qualcosa di più che rivestirlo in abiti cinesi così da renderlo maggiormente attraente agli occhi dei suoi connazionali. Infatti, intendeva anche rendere il contenuto del marxismo rilevante per le condizioni storiche cinesi, consentendogli di incorporare ed ereditare quanto vi era di valido nel passato cinese. In una certa misura, dunque, il marxismo cinese era effettivamente “cinese”, almeno in parte. Ed è inoltre probabile che Mao si sia ulteriormente avvicinato, nei suoi ultimi anni, alla tradizione, come sostenuto da molti studiosi (2). In varie fasi della sua vita intellettuale e politica, Mao ha mostrato interesse per numerose personalità eroiche della storia tradizionale cinese. Proprio come il giovane Mao prendeva quale eroe di riferimento lo statista confuciano conservatore Zeng Guofan, vissuto alla metà del XIX secolo, ed il Mao rivoluzionario guardava alla tradizione eterodossa del ribelle-bandito della letteratura cinese, così il Mao governante volgeva lo sguardo ai potenti imperatori del passato, specialmente Qin Shihuangdi, il Primo imperatore, predecessore di Mao come uno dei due grandi unificatori della storia cinese.
Eppure tali affinità comuniste con la storia e la cultura tradizionali, per quanto reali, emergono in quella che è essenzialmente un’epoca post-tradizionale. Al fine di stimare dove si colloca il comunismo nel lungo divenire della storia cinese, è necessario tenere conto di due fondamentali rotture con la tradizione, le quali hanno luogo nella prima metà del XX secolo, una precedente all’ascesa del comunismo cinese, l’altra coincidente con la vittoria comunista del 1949. Entrambe devono essere tenute a mente nel considerare il posto della Repubblica popolare cinese nella storia della Cina.
Innanzitutto, vi fu la rottura cruciale con la tradizione intellettuale confuciana, un processo relativamente graduale di alienazione rispetto ai valori tradizionali, iniziato alla metà del XIX secolo con le Guerre dell’oppio e col crescente impatto dell’imperialismo occidentale. Si trattò dell’inizio di una rottura con la tradizione che si manifestò con l’emergere di un moderno senso nazionalista negli anni Novanta dell’Ottocento (in particolare, dopo l’umiliante disfatta cinese nella guerra sino-giapponese del 1894-95), il quale trovò in seguito espressione nel nazionalismo politico militante durante il Movimento del 4 maggio (circa 1919). Fu un nazionalismo paradossalmente accompagnato da potenti correnti di iconoclastia culturale, un nazionalismo tendente più a scartare la cultura tradizionale che a celebrarla. Negli anni Novanta del XIX secolo, giovani membri della classe dirigente, costituita da piccola nobiltà-letterati-proprietari, iniziò a perdere fiducia nell’utilità degli antichi valori confuciani. Essi iniziarono ad interrogarsi sulla capacità delle credenze tradizionali di salvare la Cina dalla crescente minaccia dell’imperialismo straniero, e di riscattarla da quella che sempre più veniva riconosciuta come la terribile arretratezza del paese. Ancor più importante, ciò che emerse da questo processo di alienazione di valori tradizionali fu un nuovo metro di giudizio per misurare il valore delle questioni sia materiali che spirituali. Tale nuovo standard di misura nazionalista era rappresentato dalla ricchezza e dal potere della Cina, in quanto nazione, in un mondo social darwiniano di avidi stati-nazione. Ormai ciò che era considerato rilevante non consisteva più nella preservazione di una qualche antica essenza culturale cinese (ti), tradizionalmente concepita in termini di principi morali confuciani, bensì nella conservazione e rafforzamento della nazione cinese, con o senza la moralità confuciana. Il metro di giudizio era drammaticamente mutato.
Questa nuova prospettiva di stampo nazionalista lasciava certamente spazio all’eventualità di ricorrere ai valori culturali tradizionali per fini nazionalisti moderni. Ma il nazionalismo cinese apriva anche alla possibilità di abbandonare, o persino condannare, l’eredità culturale tradizionale, laddove gli antichi valori fossero stati ritenuti incompatibili con la ricerca della “ricchezza e potere” nazionali (3).
Il moderno nazionalismo cinese, nato alla fine del XIX secolo, era suscettibile di essere utilizzato per fini sia conservatori che radicali. Potevano ricorrervi, nel XX secolo, sia Chiang Kai-Shek che Mao Zedong. Ciò che il nazionalismo cinese non poteva fare era mantenere una reale continuità con la tradizione. Ci si trovava ormai in un mondo cinese post-tradizionale in cui il principale valore era rappresentato dalla conservazione e dal potere della nazione, non della preservazione della cultura tradizionale. Quest’ultima poteva essere oggetto di celebrazione, ma solo finché serviva la causa del moderno nazionalismo. Il terreno intellettuale era enormemente cambiato dai tempi in cui ciò che si concepiva come essenza culturale tradizionale (ti) rappresentava il valore dominante, rispetto al quale tutti gli altri valori e convinzioni dovevano subordinarsi.
Emerso da un lungo e doloroso processo di alienazione dai valori tradizionali, il nazionalismo cinese era in potenza culturalmente iconoclasta, così come passibile di essere usato per una celebrazione nazionalista dell’eredità culturale. Tale potenziale iconoclastico trovò la propria realizzazione, in forma di vendetta, durante il cosiddetto Movimento nuova cultura del 1915-19, fase iniziale del più ampio Movimento del 4 maggio. Ora un significativo numero di intellettuali cinesi iniziava a intendere la tradizione non solo come inutile per il perseguimento di un moderno nazionalismo, ma anche come un male morale, la radice della debolezza della Cina e della sua difficile situazione nel mondo odierno. Lu Xun, il più celebre tra gli scrittori della Cina moderna, ebbe a caratterizzare la storia del suo paese come nient’altro che 4.000 anni di cannibalismo (4). L’unico rimedio era una completa trasformazione della cultura, della coscienza e della psicologia del popolo cinese – a tutti gli effetti, una “rivoluzione culturale” (wenuhua geming), come necessaria precondizione per un significativo cambiamento politico e sociale.
Tuttavia, che celebrassero o condannassero la tradizione culturale, i nazionalisti cinesi agivano in un universo post-tradizionale nel quale i valori della tradizione, per quanto spesso invocati, non erano più rilevanti per il pensiero e l’azione. Questa, in breve, la rottura intellettuale con la tradizione, una rottura che precedette la rivoluzione comunista cinese di quasi mezzo secolo. Il comunismo cinese, va rimarcato, nasce e si sviluppa in tale contesto intellettuale post-tradizionale.
La seconda rottura con la tradizione consiste nella rivoluzione maoista stessa. Quella compiuta dai comunisti cinesi col passato fu di natura sociale e non culturale. Le rivoluzioni sociali sono innanzitutto atti di distruzione, i quali consentono alle società di intraprendere nuovi corsi. Questo è esattamente ciò che la vittoria comunista del 1949 ha segnalato, sebbene il nuovo corso, in ultima analisi, non sia stato propriamente quello immaginato dai vincitori. Fatto ancor più decisivo, la Rivoluzione comunista distrusse la vecchia classe dei letterati-funzionari, la più duratura della storia mondiale, la cui esistenza in quanto classe sociale risaliva al tardo periodo feudale nella Cina antica (circa il V secolo a.C.), il dominio della quale venne assicurato dalla vittoria Qin nel 221 a.C. e dall’instaurazione del regime imperiale. Variamente noti come “piccola nobiltà”, “proprietari”, “eruditi”, “letterati” e “funzionari” (o burocrati), si trattava di una classe dominante eccezionalmente potente, la quale esercitava, collettivamente, le funzioni economiche, politiche, sociali ed intellettuali della società cinese tradizionale. La forza e la longevità della classe dei “letterati-funzionari”, senza eguali in altre classi dominanti della storia mondiale, costituì la base sociale per la straordinaria continuità della civilizzazione cinese tradizionale nel corso di oltre due millenni.
A partire dall’inizio del XX secolo, tuttavia, col declino e la caduta dei Qing (l’ultima dell grandi dinastie cinesi), a causa dell’urto con l’imperialismo straniero, i letterati-funzionari erano in gran parte degenerati in una classe parassitaria di proprietari, ancora dominante economicamente, socialmente e politicamente nelle zone rurali, ma non più in grado di esprimere i propri interessi e la propria autorità a livello nazionale. Fu la distruzione comunista dei residui di questa vecchia classe dominante – prima nel corso delle ultime fasi della guerra civile col Guomindang (il Partito nazionalista) nei tardi anni Quaranta, e in seguito con la campagna nazionale di riforma agraria del 1950-52 – a segnare la prima rivoluzione sociale nella storia cinese dal III secolo a.C.
Con ciò non si vuole intendere, ovviamente, che non sia cambiato niente in Cina nei 2000 anni che, per ragioni di convenienza, definiamo “Cina tradizionale”, ovvero, la lunga epoca imperiale iniziata nel III secolo a.C. e conclusasi all’inizio del XX con la debole rivoluzione repubblicana del 1911. I mutamenti nel corso di questi secoli furono profondi, e in particolare modo nella scienza, nella tecnologia e nello sviluppo economico – gli stessi ambiti nei quali la moderna Cina ha stagnato, ritrovandosi dietro, sinora, ai paesi occidentali capitalisti avanzati. Durante buona parte della storia umana, e certamente in quella che talvolta viene chiamata “rivoluzione economica medievale” (circa VIII e XIV secolo d.C.), la Cina non fu solo il più popoloso, ma anche il più tecnologicamente ed economicamente avanzato paese del mondo. Inoltre, tra la cultura materiale relativamente avanzata della Cina e la sua enorme popolazione vi era un stretta relazione. La trasformazione tecnologica dell’agricoltura nel corso di questi secoli costituì la base per la straordinaria crescita della popolazione cinese, la quale giunse a toccare i 300.000.000 entro il XV secolo, una cifra impressionante per l’epoca pre-moderna. Una rivoluzione nella moneta e nel campo del credito stimolò l’emergere di una sofisticata economia di mercato proto-capitalistica, una vivace classe mercantile, il commercio più ampio e avanzato del mondo, un’urbanizzazione su una scala altrimenti sconosciuta nel mondo pre-moderno. Risultati che possono essere ricondotti (e da essa resi possibili) all’unificazione della Cina nel III secolo a.C.
La nozione, a suo tempo popolare, di una “Cina immutabile” – uno stereotipo in parte confuciano, in parte hegeliano in origine – è naturalmente fuorviante dal punto di vista storico. In ambiti vitali dell’attività umana quali l’indagine scientifica, l’innovazione tecnologica, lo sviluppo economico in generale e l’urbanizzazione, il progresso della Cina fu decisamente straordinario nel corso dei secoli, in particolare durante l’epoca “medievale”, probabilmente più impressionante che in qualsiasi altra civilizzazione pre-moderna. Eppure, i cambiamenti nella vita materiale non produssero trasformazioni altrettanto innovative nelle istituzioni politiche e sociali tradizionali. Vi erano stati, ovviamente, importanti cambiamenti sociopolitici nel corso dei millenni, ma messi in ombra dalle tenaci continuità degli ordini sociali e politici stabilitisi nel III secolo a.C. Le dinastie ascendevano e cadevano attraverso i millenni, e vi furono lunghi periodi di disgregazione, invasione e guerra civile, ma l’essenziale del sistema politico imperiale stabilito dai Qin sopravvisse, così come la sua base sociale, la classe dominante dei letterati-funzionari.
Infine, nel corso di un periodo di molti secoli, la relativa assenza di cambiamenti sociali e politici iniziò a ritardare lo sviluppo economico e tecnologico. Un punto raggiunto probabilmente nel XIV secolo, secondo molti studiosi, più o meno in coincidenza con l’ascesa della dinastia Ming (1368-1644), sebbene non necessariamente a causa di quest’ultima. Ciò che colpisce particolarmente gli studiosi di tale periodo è il declino e la stagnazione dell’innovazione tecnologica e della creatività, che lungo un periodo di alcuni secoli influenzò negativamente la crescita economica. Le ragioni di questa stagnazione non sono del tutto chiare. Una teoria ampiamente discussa, e nota come “trappola dell’equilibrio di alto livello”, sostiene che la Cina ha sfruttato la tecnologia pre-moderna sino ai suoi limiti economici, lasciando poco spazio a proficue innovazioni. Un’espansione di tipo quantitativo era ancora possibile, ma i mutamenti qualitativi erano gravemente limitati (5).
La nozione secondo la quale la Cina tradizionale si sarebbe trovata in una “trappola dell’equilibrio di altro livello” non è forse niente più che un astruso modo per dire che essa fallì nello sviluppare un capitalismo moderno, come quello occidentale, oltreché nello sperimentare una rivoluzione industriale. La ragione di tali fallimenti (forse una questione “occidentocentrica” con la quale iniziare) è una vecchia e altamente controversa materia, in larga parte sollevata da Max Weber più di un secolo fa (6). Secondo Weber, sebbene il capitalismo si fosse sviluppato in misura sostanziale nella Cina tradizionale, si trattava di un processo cui mancava il dinamismo delle più tarde controparti dell’Europa occidentale. Egli attribuisce ciò ai valori ascetici, fortemente favorevoli all’impresa capitalistica, derivanti dalle tensioni intellettuali insite nelle credenze di alcune sette protestanti, specialmente il calvinismo. Di contro, come prova negativa, ha sostenuto che simili valori ascetici erano assenti nel pensiero tradizionale cinese, in particolare nel confucianesimo. Così da evitare equivoci ed ulteriori semplificazioni di un argomento complesso e sofisticato, va notato che Weber non ha mai affermato che dei valori di origine religiosa hanno creato il capitalismo occidentale, ma solo che esso una volta posto in essere (a causa di una molteplicità di fattori sociali, economici e tecnologici) ha acquisito il suo carattere straordinariamente dinamico grazie ai valori ascetici, e alla “mentalità imprenditoriale e calcolatrice”, prodotti da certe credenze religiose. La mancanza di questo genere di convinzioni in Cina, a sua volta, spiega il relativamente debole sviluppo del capitalismo indigeno cinese.
Per quanto l’argomento weberiano del “mancato sviluppo del capitalismo” in Cina, o quantomeno la sua relativa debolezza rispetto all’Europa occidentale, sia interessante dal punto di vista intellettuale e storiograficamente suggestivo, forse è più favorevole alla comprensione storica volgere lo sguardo alla natura della tradizionale classe dominante dei letterati-funzionari, anziché a quella del pensiero confuciano. Una piccola nobiltà costituente una classe dominante estremamente potente che monopolizzava (in alcuni casi nel corso della vita di un individuo, solitamente all’interno della famiglia multigenerazionale, e sempre collettivamente) le funzioni chiave economiche, politiche, sociali e intellettuali della società cinese tradizionale. Una classe economicamente dominante, in quanto costituita di proprietari in una società prevalentemente agraria, per quanto talvolta integrassero i propri redditi tramite il commercio, il prestito di denaro e l’attività delle industrie locali. Intellettualmente dominanti in quanto eruditi impadronitisi della lingua cinese scritta, erano i portatori della tradizione culturale, specialmente la tradizione ideologica confuciana, la quale santificava il loro posto nell’ordine tradizionale. Il predomino economico e culturale, a sua volta, conferiva loro il potere politico; e i burocrati che gestivano il regime imperiale provenivano in larga parte da tale classe, preferibilmente attraverso un sistema di esami che richiedeva la padronanza della letteratura classica confuciana. Una classe socialmente e politicamente dominante nelle aree rurali, dove viveva l’85 percento del popolo cinese. Fu il monopolio di tali funzioni sociali – economica, politica ed intellettuale – da parte di una singola classe sociale che conferì ala piccola nobiltà il potere e la straordinaria longevità in quanto élite dominante della Cina per oltre due millenni.
Rafforzarne la longevità ed il potere come classe dominante conservatrice, due caratteristiche abbastanza uniche della società cinese tradizionale. Innanzitutto, questa piccola nobiltà non era ereditaria e non rappresentava una casta chiusa. La sua condizione era basata su una combinazione (o varie combinazioni) di ricchezza e istruzione. Era possibile, sebbene difficile, per contadini e commercianti intraprendenti, per esempio, accedere a tale status educando un figlio ai classici confuciani. Il che gli avrebbe consentito di passare gli esami per divenire un funzionario e utilizzare la ricchezza derivante dai mezzi burocratici per comprare terra, innalzando così la propria famiglia alla condizione di piccola nobiltà. Una seconda caratteristica della società tradizionale era un ben sviluppato sistema della proprietà privata della terra, sistema più o meno universalizzato dall’unificazione dei Qin nel III secolo a.C. La maggior parte della terra (per quanto non tutta e non sempre) era alienabile; vale a dire che poteva essere liberamente acquistata e venduta.
Queste caratteristiche della società cinese – primo, una classe dominante la cui condizione non era basata sul privilegio ereditario e, secondo, l’istituzione della proprietà privata nella terra – erano attributi piuttosto insoliti per una società pre-moderna. A prima vista sembrerebbe che tali fattori avrebbero dovuto favorire lo sviluppo del capitalismo. Nei fatti, ironicamente, ciò ebbe implicazioni profondamente conservatrici e tradizionaliste. L’alienabilità della terra sigificava che ricchi commercianti urbani e protoindustrialisti potevano investire i propri profitti nella relativa sicurezza del settore agrario, divenendo proprietari terrieri, anziché investire in modo più rischioso nell’ulteriore espansione delle loro imprese commerciali. La proprietà della terra non solo era sicura e redditizia, ma anche associata a grande prestigio sociale, vale a dire, alla condizione della piccola nobiltà. Inoltre, dato che la posizione sociale di quest’ultima (che conferiva speciali privilegi sociali e legali così come autorità morale e sociale) era teoricamente fondata sul merito e non sull’eredità (merito misurato sulla base della conoscenza dell’insegnamento e dei precetti morali del confucianesimo), gli imprenditori urbani potevano aspirare a divenire parte dell’élite dei letterati-funzionari. Ciò poteva avvenire tipicamente attraverso l’educazione dei figli più brillanti al fine di consentire loro di partecipare agli esami. Oppure, nei non rari periodi nei quali la corruzione era all’ordine dl giorno, si potevano semplicemente comprare dei gradi ufficiali e, a volte, una carica burocratica. La conseguenza di simili tendenze fu di incoraggiare la tradizionale borghesia cinese a confluire all’interno della piccola nobiltà dominante e nel sistema sociale tradizionale, anziché che contestarli, come invece era generalmente il caso dell’Europa occidentale. Il che, a sua volta, non solo inibì lo sviluppo del capitalismo ma rafforzò enormemente il potere e la longevità della classe dominante della piccola nobiltà e le sue tradizioni confuciane.
Il più importante risultato sociale della rivoluzione comunista cinese fu la distruzione della della classe dominante della piccola nobiltà tradizionale. Una classe in declino sin dal tardo XIX secolo, ma che esercitava ancora il proprio dominio sociale, politico ed economico nelle vaste aree rurali della Cina, tipicamente nella forma della grande proprietà terriera parassitaria. La rimozione della piccola nobiltà era dunque la precondizione essenziale di un moderno sviluppo economico, e specialmente dell’industrializzazione. Tale processo di distruzione di classe venne completato nel corso della campagna di riforma agraria del 1950-52, durante la quale un numero considerevole di nobili vennero uccisi da contadini infuriati. Ma la stragrande maggioranza degli approssimativamente 20.000.000 membri delle famiglie nobili (circa il 4 percento della popolazione) vennero ridotti ad ordinari coltivatori, a seguito della redistribuzione di buona parte delle loro terre ai contadini più poveri. Fu questa distruzione della piccola nobiltà in quanto classe sociale a rendere la rivoluzione del 1949 qualcosa di più di una sollevazione, ovvero una rivoluzione sociale, la prima nella storia cinese dal III secolo a.C. Quantomeno si tratta di una risposta all’interrogativo sul posto del comunismo nella storia cinese. Una rottura fondamentale con una struttura sociale esistente ormai da due millenni.
Ma se la vittoria maoista ha significato una rivoluzione sociale, di quale tipo di rivoluzione si è trattato? Il punto di vista consueto è che la vittoria comunista del 1949 sia stata una rivoluzione socialista, o che almeno abbia portato la Cina in quella direzione. Vorrei suggerire, al contrario, l’ipotesi che la repubblica popolare cinese non sia mai stata socialista nel vero senso della parola; che la natura sociale della rivoluzione maoista, e l’ambiente sociale in cui ha avuto luogo, abbia confinato la società post-rivoluzionaria entro limiti “borghesi”; e inoltre, che l’attuale epoca di massiccio sviluppo capitalistico rappresenti il logico, sebbene non necessario, esito della rivoluzione del 1949. Cercherò di portare avanti queste tesi, tra loro interconnesse, nel seguito del presente saggio, insieme ad alcune osservazioni circa la natura peculiare del capitalismo cinese e il suo futuro, il tutto nel tentativo di individuare il posto del comunismo nella storia cinese.
II. La natura sociale della Repubblica popolare cinese
I risultati sociali delle grandi rivoluzioni corrispondono raramente sia alla condizione sociale dei rivoluzionari che alle loro intenzioni. Ad esempio, si possono prendere in considerazione due delle più importanti rivoluzioni della storia moderna: la Rivoluzione inglese del XVII secolo, e la Rivoluzione francese del 1789. Entrambe vengono caratterizzate da molti storici come rivoluzioni “borghesi” o “borghesi-democratiche”, intendendo con ciò che hanno facilitato lo sviluppo del moderno capitalismo. Eppure, in nessuna delle due i membri della borghesia hanno giocato ruoli significativi. Ben pochi grandi mercanti, gli industriali e i banchieri individuabili tra le fila dei puritani del XVII secolo, o tra i vertici del Club dei giacobini e le folle insorte durante la Rivoluzione francese nel tardo XVII secolo. I leder della Rivoluzione inglese erano in larga parte membri della piccola nobiltà rurale, laddove intellettuali, medici, avocati e altri membri delle professioni erano le figure prominenti di quella francese. L’esercito di Cromwell era in larga parte costituito da piccoli proprietari spossessati, mentre coloro che presero la Bastiglia appartenevano in maggioranza ai ceti poveri urbani. In entrambe le rivoluzioni, le rivendicazioni dei rivoluzionari erano di natura politica, sociale e talvolta religiosa. Né o leader né le masse cercavano di costruire un ordine capitalista; il libero mercato e l’economia di mercato non rientravano tra le loro richieste. I puritani, dopotutto, aspiravano a “purificare” la Chiesa, e lo slogan universale della Rivoluzione francese era “Liberté, Égalité, Fraternité”.
Tuttavia, in una prospettiva storica più ampia, e affatto indifferente agli obiettivi consci degli agenti rivoluzionari, il principale risultato storico delle rivoluzioni inglese e francese è stato di sviluppare il capitalismo moderno. Ciò avvenne con l’abolizione delle rimanenti prerogative feudali e la soppressione delle restrizioni su commercio e lavoro, con una centralizzazione complessiva, da pesi e misure all’autorità dello stato, e dunque la creazione di un mercato nazionale, nonché con la liberazione dei contadini dagli obblighi feudali, in modo che potessero impegnarsi nella produzione di merci e l’accumulazione di capitale o divenire proletari urbani. Seguendo questa via ed altre, le rivoluzioni inglese e francese hanno servito gli interessi della borghesia e promosso lo sviluppo del capitalismo moderno, diventando modelli storici di rivoluzione “borghese” o “borghesi-democratiche”, per quanto questo non sia stato nelle intenzioni dei rivoluzionari.
In questo senso, storico e funzionale, la rivoluzione comunista cinese può anch’essa venire caratterizzata come rivoluzione borghese, o capitalista. E ciò senza il vantaggio del giudizio retrospettivo che ci consente, a più di mezzo secolo dalla vittoria rivoluzionaria, di considerare il massiccio sviluppo capitalistico della Cina di oggi quale esito del 1949. Anche prima delle “riforme di mercato” intraprese d Deng Xiaoping e altri nel 1978 e in seguito, vi erano buona ragioni per descrivere la vittoria maoista come “rivoluzione borghese”. È stato, ovviamente, un luogo comune, sia in Cina che all’estero, dipingere la vittoria comunista come rivoluzione “socialista” e la Cina maoista come società socialista. lo stata solo nel senso più superficiale. Quello che hanno fatto i comunisti cinesi è stato prendere in prestito la definizione sovietica di socialismo, in quanto società nella quale la proprietà produttiva è in gran parte posseduta o controllata dallo stato. Secondo tale definizione limitata, la Cina era socialista nel 1956, quando i suoi vertici affermavano che fosse tale. Era socialista nel senso che alla metà degli anni Cinquanta molte imprese industriali e commerciali urbane erano state nazionalizzate (sia espropriate dal governo che da esso acquistate a prezzi ribassati determinati dallo stato in cambio di obbligazioni), con gli ex proprietari spesso mantenuti in posizioni dirigenziali. Nelle campagne, il socialismo era il risultato ufficiale della campagna di collettivizzazione dell’agricoltura del 1955-56. Lo stato non possedeva legalmente la proprietà agraria collettivizzata, ma la controllava effettivamente attraverso l’organizzazione della produzione gestita dal Partito comunista. (La distinzione tra partito e stato in Cina è, naturalmente, piuttosto esile). In ogni caso, nel 1956 la proprietà privata produttiva, tanto nelle città che nelle campagne, era stata in larga parte abolita e la Cina era socialista in termini stalinisti.
La definizione stalinista di socialismo è, tuttavia, inadeguata. In effetti, si tratta di una grossolana distorsione della concezione marxista tradizionale, la quale ritiene il socialismo un sistema in cui i produttori diretti (operai e contadini) controllano democraticamente le condizioni e i prodotti del loro lavoro. Questo, ovviamente, no fu il sistema che prevalse in Cina, ne vi fu alcun movimento significativo in tal senso, sia in teoria che in pratica, durante il periodo di Mao e oltre. La Cina dopo la metà degli anni Cinquanta potrebbe essere semplicemente descritta come “società post-rivoluzionaria”, né socialista né capitalista, o ancora, se si preferisce, una società a metà strada tra capitalismo e socialismo. Più realisticamente, la Cina post-rivoluzionaria era un paese in cui lo stato funzionava come capitalista collettivo, sfruttando operai e contadini e disponendo del ricavato ottenuto dal loro “pluslavoro” per ulteriori investimenti industriali. Un “sistema capitalistico senza capitalisti”, come Adam Ulam ha definito una volta le società comuniste (7).
Un modo più fruttuoso di esaminare il ruolo storico del comunismo in Cina consiste nell’intendere il maoismo come il veicolo della rivoluzione borghese, incaricatosi di svolgere i compiti storici che la rivoluzione del 1911 e il Guomindang avevano tentato, fallendo, di portare a termine nei primi decenni del XX secolo. Come rivoluzione borghese (o capitalista), la vittoria del 1949 ed il primo decennio di governo maoista furono un successo straordinario. Dopo una lunga epoca di disintegrazione politica e guerra civile, si era giunti ad una vera unificazione nazionale. In seguito a più di un secolo di ingerenza e invasione straniera, la Cina ottenne una reale indipendenza nazionale. Indipendenza e unificazione nazionali, a loro volta, costituirono la base per la creazione di un mercato nazionale e di un programma di industrializzazione patrocinato dallo stato. Riguardo a tali provvedimenti non vi è niente che possa essere caratterizzato come socialista. Si tratta di elementi tipici delle grandi rivoluzioni borghesi che hanno prodotto le moderne economie capitaliste. Persino la grande campagna di riforma agraria del 1950-52, la misura più radicale, dal punto di vista sociale, dei primi anni di regime maoista, rientrava nei limiti della rivoluzione borghese. La riforma agraria distrusse quanto rimaneva della classe pre-capitalista della piccola nobiltà terriera, segnando così il culmine di una grande rivoluzione sociale. Tuttavia, una rivoluzione agraria capitalistica, non socialista. Le sue conseguenze sociali furono la formazione di un sistema piccolo borghese (o capitalista) di singole famiglie contadine proprietarie, con libertà di comprare, vendere e ipotecare la terra.
Nei primi anni della Repubblica popolare cinese, Mao Zedong sottolineava frequentemente i limiti ed il carattere “borghese” della rivoluzione comunista. Un’enfasi che trovava espressione teoretica nella tesi maoista della “nuova democrazia”, la quale contemplava, per un indefinito periodo di tempo, l’esistenza di un significativo settore capitalista privato, sebbene operante sotto gli auspici politici del partito comunista cinese (PCC). Non fu che nei tardi anni Cinquanta che Mao Zedong, impaziente rispetto ai ritmi lenti della storia, e preso dalle visioni utopistiche di una Cina sia ricca che comunista, abbandonò i vincoli posti dal marxismo alla volontà rivoluzionaria. La nozione eminentemente marxista (e a suo tempo maoista) secondo la quale la Cina avrebbe dovuto procedere attraverso i consueti “stadi di sviluppo”, compreso un lungo periodo di sviluppo capitalistico, durante il quale si sarebbero create le condizioni per il socialismo, venne denunciata come “revisionista” o peggio. Conseguentemente, Mao intraprese la disastrosa avventura del Grande balzo in avanti, i cui fallimenti generarono le tensioni politiche culminate nella distruttività della Rivoluzione culturale.Portando a termine la riunificazione della Cina, stabilendo un governo centrale effettivamente i grado di controllare un così vasto territorio, creando un mercato nazionale libero da ingerenze straniere, nonché le condizioni per una rapida crescita economica e per l’industrializzazione, i comunisti misero in atto quella rivoluzione borghese che i precedenti regimi cinesi del XX secolo avevano tentato – fallendo – di compiere. La riforma agraria rappresentò un passo cruciale in tale processo di “modernizzazione”, non solo perché innalzò il livello di equità socioeconomica della popolazione rurale, ma anche perché stabilì un meccanismo finalizzato a convogliare il surplus agrario in direzione del finanziamento dell’industrializzazione urbana. Sotto il regime maoista, i contadini venivano ancora sfruttati, ma i frutti di questo sfruttamento non venivano più dissipati da una classe parassitaria di proprietari terrieri. Al contrario, venivano indirizzati dallo stato verso attività perlopiù produttive. Lo stato comunista, comunque venisse concepito e descritto dai suoi vertici, funzionava essenzialmente come capitalista collettivo.
Malgrado i disastri politici e umani degli ultimi anni di Mao Zedong, la Cina ha compiuto, durante il quarto di secolo di governo maoista, notevoli progressi economici e materiali. Dal 1952, quando la produzione industriale venne ripristinata ai suoi più alti livelli prebellici (cioè, 1936-37 ), sino alla fine dell’epoca di Mao nel 1976, la produzione dell’industria cinese crebbe ad un tasso medio annuo di circa l’11 percento. la Cina venne trasformata da nazione prevalentemente agricola ad industriale, nel senso che la quota dell’industria nel prodotto materiale netto passò dl 23 percento a oltre il 50 percento, un tasso di industrializzazione che regge favorevolmente il paragone con la Gran Bretagna ed il Giappone in fasi analoghe dello sviluppo industriale moderno (8). “Nell’esperienza postbellica dei paesi di recente industrializzazione”, ha osservato Y.Y. Kueh, “solo Taiwan, probabilmente, ha mostrato risultati impressionanti come quelli della Cina a tal proposito” (9). Non si può affermare, come talvolta è avvenuto, che il popolo cinese non ha beneficiato della crescita economica durante l’epoca di Mao. La rapida industrializzazione fu accompagnata da impressionanti aumenti nell’alfabetizzazione, nell’istruzione e nella sanità. Ancor più sorprendente, e a dispetto della carestia dovuta al Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita quasi raddoppiò nel quarto di secolo nel quale Mao governò la Cina, da una media di 35 anni nel periodo pre-1949 a 65 anni alla metà degli anni settanta. Tuttavia, con l’avvicinarsi della fine dell’era di Mao nel 1976, vi era un’abbondanza di segnali che le una volta enormi energie creative del maoismo erano in via di esaurimento, e che il sistema politico ed economico maoista era moribondo. Nel corso dell’ultimo anno di Mao, l’economia si trovò ad operare sotto il peso del riattizzarsi delle lotte politiche tra fazioni, conseguenza delle battaglie irrisolte della Rivoluzione culturale. Si verificò una recrudescenza della criminalità comune, un crescente malcontento sociale, una disillusione politica a livello popolare ed un’ondata di scioperi industriali e rallentamenti nelle fabbriche. L’agricoltura in stagnazione, la produzione industriale, cresciuta ad un tasso annuo del 10 percento nel decennio della Rivoluzione culturale (1966-1975), crebbe a malapena dell’un percento nel fatidico 1976. Era evidente che la Cina necessitava di un nuovo corso, ma un Mao Zedong morente ed un maoismo dogmatizzato erano incapaci di fornire spunto per nuove iniziative.
Retrospettivamente, sembrerebbe fosse inevitabile, e di certo storicamente logico, che la Cina post-Mao intraprendesse un processo di sviluppo capitalistico. Lo stesso regime maoista ha contribuito involontariamente alla prospettiva di un futuro capitalista, sia nel senso negativo che in quello positivo. Il Grande balzo in avanti, con un costo umano terribile, rivelò l’impossibilità di un ulteriore cambiamento sociale radicale nelle campagne, dove un’agricoltura ancora tecnologicamente primitiva operava entro gli scarni margini della sussistenza anche nei periodi migliori. Molti contadini adoravano ancora un Mao Zedong deificato, ma la maggior parte aveva smarrito l’entusiasmo di un tempo per l’agricoltura collettivizzata, bramando il proprio appezzamento di terra da coltivare.
Né poteva la crescente, ma ancora relativamente piccola, classe operaia urbana fornire alcun impeto costante al socialismo. Il proletariato, terrorizzato nella passività politica dalla memoria della controrivoluzione del Guomindang nel 1927, durante l’epoca rivoluzionaria, rimase politicamente quiescente durante i primi anni della Repubblica popolare cinese, essendo la sua attività strettamente controllata dal PCC e dai sindacati ufficiali. Furono le caotiche condizioni determinate dalla Rivoluzione culturale a dare agli operai l’opportunità di organizzarsi e agire autonomamente. Mentre l’efficacia politica della classe operaia urbana era fortemente attenuata dalle profonde divisioni entro i suoi ranghi – in particolare tra i relativamente privilegiati lavoratori statali, i quali godevano della sicurezza garantita dalla cosiddetta “ciotola di riso di ferro“, ed una “popolazione nomade” altamente sfruttata di lavoratori a tempo e a contratto – le rivendicazioni di eguaglianza e controllo operaio della produzione si fecero ben presto sentire. Rivendicazioni denunciate come di “utra-sinistra” dagli ideologi maoisti ben prima che la Rivoluzione culturale prendesse il suo bizzarro corso, condannando nuovamente la classe operaia all’inerzia politica.
Mentre lo stato comunista inibiva le espressioni politiche della classe identificata dalla teoria marxista come agente della rivoluzione, il regime maoista costruiva involontariamente le condizioni che avrebbero facilitato il rapido sviluppo del capitalismo, sebbene ciò avvenisse in nome (e senza dubbio nell’intenzione) di gettare le fondamenta del socialismo. L’unificazione della Cina, la creazione di un mercato nazionale, la costruzione di un apparato di stato centralizzato e di un efficace burocrazia, di infrastrutture quali strade, ferrovie e rete elettrica, nonché l’educazione della popolazione lavoratrice, ovvero tutta una serie di misure che avrebbero potuto servire alla costruzione tanto di un’economia capitalistica che di una socialista. Alla fine, fu il capitalismo ad emergere dalle fondamenta maoiste, e non il socialismo.
La costruzione di un ordine capitalista non era l’intento cosciente dei riformatori che acquisirono prominenza e potere nell’epoca post-Mao. Deng Xiaoping, il più importante e potente fra di essi, era stato un comunista per tutta la sua vita adulta e ovviamente immaginava un futuro socialista per la Cina, o quantomeno socialista nel senso da lui attribuito al concetto. Tuttavia, non era avverso al ricorso a mezzi capitalistici per raggiungere fini apparentemente socialisti. L’obiettivo consisteva in un rapido sviluppo economico ottenuto secondo le modalità più convenienti possibili. Laddove il potere politico fosse rimasto nelle mani del PCC, Deng e i riformatori davano per scontato che i risultati socialisti desiderati sarebbero derivati più o meno automaticamente dallo “sviluppo delle forze produttive”.
Per quanto in origine il programma di riforme dovesse essere un ibrido tra “aggiustamenti di mercato” e “aggiustamenti tramite pianificazione”, si scoprì ben presto che lasciare ampio margine di manovra all’operare del mercato era la via più breve per ottenere quella che veniva definita “modernizzazione socialista”, una strategia che trovava la sua razionalità ideologica ( in particolare presso simpatetici osservatori stranieri) nella dubbia nozione di “socialismo di mercato”. La decollettivizzazione della terra in favore di molteplici sistemi di assegnazione della terra a singole famiglie ben presto sfociò in un sistema di proprietà privata della terra. la sicurezza del lavoro venne abolita per i lavoratori delle imprese di stato, gettandoli nel “libero mercato del lavoro” capitalista, raggiunti d decine di milioni di lavoratori immigrati, per lo più contadini in esubero espulsi dalle terre ormai decollettivizzate. Il settore privato, sia nell’economia urbana che in quella rurale, venne incoraggiato, crescendo con sorprendente rapidità. Lo stesso per il commercio e gli investimenti esteri, prima nelle cosiddette “zone economiche speciali” e in seguito nel resto della Cina. Con lo stabilirsi di un mercato del lavoro libero, l’universalizzazione della redditività dell’impresa e la decisione di affidarsi ai prezzi determinati dal mercato, lo stato comunista creò le condizioni essenziali per un’economia capitalista. Nel giro di meno di un decennio i mezzi capitalistici di sviluppo sovrastarono gli obiettivi socialisti ai quali originariamente avrebbero dovuto servire. In effetti, una certa confusione tra mezzi e fini era presente nel pensiero dei riformatori post-maoisti sin dall’inizio. “Lo scopo del socialismo”, dichiarava Deng Xiaoping nel 1980, “è di rendere il paese ricco e forte”. Certamente una definizione inedita di socialismo, ma adatta a fornire una sottile patina ideologica ad un programma di modernizzazione capitalistica. Il socialismo, a prescindere dal significato che Deng poteva una volta attribuire al termine, veniva ora reinterpretato nel senso dell’obiettivo nazionalista, a lungo perseguito, di “ricchezza e potere”. In ogni caso, fu il capitalismo, e non il socialismo, l’esito della distruzione comunista dell’esistente struttura sociale (10).
Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta, probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del “capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto del comunismo nella storia cinese.
III. Capitalismo e stato
Una delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la dinamica capitalistica che ha trasformato la cina nell’ultimo quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale. Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912). Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono alcuni degli esempi di maggior successo.
Di fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”) che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale. Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del “libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure, anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica incarnazione (11).
Tuttavia, il ruolo dello stato comunista nello sviluppo del capitalismo cinese è stato qualitativamente maggiore rispetto ad ogni altro caso precedente di sviluppo capitalistico. Un’economia di mercato, dopotutto, presuppone una borghesia. In tutti i precedenti casi di capitalismo patrocinato dallo stato, esisteva una classe borghese indigena i cui interessi lo stato poteva promuovere, i cui ranghi potevano essere incrementati, e le energie sfruttate, dalle autorità statali ai fini dello sviluppo economico nazionale. Ma a partire dai tardi anni Cinquanta, la borghesia cinese (da sempre una classe sociale relativamente piccola) aveva quasi cessato di esistere. Molti dei più ricchi esponenti della borghesia avevano lasciato la Cina continentale nel 1949. Le imprese commerciali e industriali di coloro che decisero di rimanere vennero espropriate a titolo definitivo o acquistate dallo stato comunista. In quest’ultimo caso, gli ex proprietari ottennero titoli di stato a bassa remunerazione (e non ereditabili) a compensazione parziale per la nazionalizzazione delle loro imprese. Ciò che rimaneva della borghesia alla fine dell’era di Mao nel 1976 era uno sparuto gruppo di anziani pensionati in possesso di modesti dividendi sui titoli di stato. Così una “classe imprenditrice”, nella terminologia dell’epoca, andava creata da zero se si voleva implementare la nuova strategia di mercato dei riformatori.
Non sorprende che tale nuova borghesia fosse in gran parte reclutata fra i ranghi del Partito comunista cinese. I funzionari di partito e i quadri avevano l’influenza politica e le capacità per trarre vantaggio dalle opportunità pecuniarie offerte dal mercato. Superando le inibizioni ideologiche che essi potevano avere, in molti si lanciarono, sia entrando negli affari personalmente o, più tipicamente, garantendo posizioni lucrative per i propri figli, parenti e amici, in quella che ben presto divenne un intricata, ma latamente redditizia, rete di rapporti clientelari. Non solo singoli funzionari comunisti (e le loro famiglie) raggiungevano la nuova borghesia commerciale, finanziaria e industriale, ma intere burocrazie entravano nel mercato sotto forma di compagnie capitaliste, non escluso l’Esercito popolare di liberazione, il quale raccolse enormi profitti vendendo armi sul mercato internazionale e persino gestendo una catena di hotel di lusso, nonché, tramite le sue diverse sussidiarie, circa 20.000 fra imprese industriali, commerciali e finanziarie (12).
In tal modo, l’unione tra il mercato e una burocrazia comunista ha prodotto non “un’economia socialista di mercato”, com’è talvolta è stata pubblicizzata, bensì una sorta di capitalismo burocratico; ovvero, un sistema di politica economica nel quale il potere politico viene utilizzato per guadagni privati tramite metodi capitalistici di attività economica. Il fenomeno, di per sé, non costituisce verto una novità nella storia mondiale. Ma il capitalismo burocratico è stato una caratteristica inusualmente prominente della storia cinese, sia nell’epoca tradizionale che in quella moderna. Le sue origini cinesi risalgono ad una passata dinastia Han (202 a.C. – 9 d.C.) quando i monopoli di stato vennero stabiliti per la produzione e vendita di merci lucrative come sale, vino e ferro. Originariamente gestiti da burocrati imperiali al fine di generare una fonte stabile di entrate per lo stato, i monopoli si evolsero in un sistema ibrido nel quale commercianti privati gestivano produzione e distribuzione sotto la supervisione di burocrati di alto livello. Un relazione simbiotica da cui traevano enorme profitto entrambi. Ma generalmente erano i funzionari ad avere la meglio. essi erano infatti relativamente sicuri della loro posizione, consacrati dalla tradizione e dall’ideologia, laddove i mercanti dipendevano dalla tutela burocratica.
I monopoli di stato non erano la sola via attraverso la quale i burocrati potevano arricchirsi grazie al coinvolgimento in attività di tipo capitalistico. Essi approfittavano anche di un complesso sistema di affitti e concessioni di licenze ufficiali sotto le quali commercianti e artigiani privati erano obbligati a operare; svariati poteri legali ed extra-legali di tassazione su commercio e industria; oltreché semplici (ma solitamente approvate dalla consuetudine) forme di corruzione. Nonostante il pregiudizio confuciano contro le attività mercantili, i burocrati confuciani non esitavano ad approfittare dei rapporti di mercato, direttamente o indirettamente.
Una delle conseguenze sociali del capitalismo burocratico nella Cina tradizionale fu l’inibizione dello sviluppo della borghesia quale classe sociale indipendente, separata dalla burocrazia. I burocrati (“letterati-funzionari” o “piccola nobiltà”, semplicemente termini differenti per la stessa formazione sociale) erano socialmente e politicamente dominanti, ma allo stesso tempo strettamente alleati con i grandi mercanti e i proto-industriali. Di fatto, si può parlare dei burocrati e della borghesia tradizionale come classi interdipendenti. Il risultato, per riprendere le parole del sinologo francese Etienne Balazs, fu che il “letterato-funzionario si ‘imborghesì’, mentre il mercante iniziò ad ambire la posizione di letterato-funzionario e a investire i propri profitti nella terra” (13). la tendenza dei mercanti privati, degli industriali e dei banchieri a farsi assorbire nell’economia burocraticamente controllata della Cina imperiale impedì l’emergere di una borghesia indipendente che sfidasse seriamente l’ordine confuciano tradizionale.
Un nuovo episodio del capitalismo burocratico si svolse nel tardo XIX secolo. Durante gli anni del declino della dinastia Qing, la quale era stata colpita dall’assalto imperialista sin dalle Guerre dell’oppio della metà dell’Ottocento, venne compiuto un tentativo di “modernizzazione conservatrice” al fine di scongiurare il rischio di colonizzazione straniera. Lo sforzo di modernizzazione, conosciuto come movimento del “rafforzamento interno”, fu intrapreso dai potenti viceré provinciali cinesi del regime Manchu anziché dalla dinastia stessa, dominata dall’oscurantista imperatrice madre. Modellato parzialmente su quello della Germania bismarkiana e del Giappone Meiji, lo sforzo cinese fallì, in parte a causa dell’assenza di un governo centrale forte e d efficace, in parte perché la morsa dell’imperialismo straniero sull’economia cinese era ormai troppo stretta. Tuttavia, nel corso di tale fallimento, i viceré provinciali usarono la propria posizione ufficiale al fine di promuovere una grande varietà di iniziative capitalistiche o simil-capitalistiche, con le quali accumularono vaste fortune private. L’incarnazione di questa prima fase della Cina moderna fu Li Hongzhang, che occupò le più alte cariche dell’Impero per tre decenni, durante i quali divenne anche il più grande capitalista privato gestendo (e traendone profitto) una compagnia di trasporti con navi a vapore, miniere di carbone, fabbriche tessili e molte altre imprese (14).
Gli eventi immediatamente successivi e derivanti dalla Rivoluzione del 1911 stimolarono una più vigoroso e convenzionale periodo di sviluppo capitalistico (circa 1905-1927), noto come “età d’oro della borghesia cinese” (15). Un’età doro assai breve, in ogni caso. Il consolidamento del potere da parte del regime nazionalista di Chiang Kai-shek nel 1927 diede vita a quello che, probabilmente, rappresenta il più classico caso di capitalismo burocratico della storia moderna. I due decenni durante i quali il Guomindang governò la Cina furono segnati dal dominio delle cosiddette “quattro grandi famiglie” (sida): i Kung, i Soong, i Chen ed i Chiang. Queste erano strettamente interrelate tramite la politica e i matrimoni. Grazie al controllo esercitato sull’apparato del partito-stato del Guomindang, esse dominavano – nella loro veste di capitalisti privati – gran parte del settore moderno dell’economia cinese.
Il sistema del capitalismo burocratico ebbe fine con la vittoria comunista del 1949, quando i suoi esponenti (o meglio tutti i capitalisti legati al regime nazionalista) vennero espropriati a titolo definitivo dal nuovo stato, mentre i cosiddetti “capitalisti nazionali” vennero rilevati dal nuovo regime a prezzi bassi determinati dallo stato. La borghesia come classe sociale cessò di esistere nella Repubblica popolare cinese, per quanto il termine “borghese” (o “borghesia”) permanesse nell’ideologia ufficiale come condanna di comportamenti politici ed ideologici eterodossi.
Eppure, una delle principali condizioni necessarie al capitalismo burocratico sopravvisse e in effetti venne amplificata dalla vittoria comunista del 1949. Si tratta di una situazione storica nella quale le classi sociali sono generalmente deboli e lo stato relativamente forte. E tale era la condizione della Cina alla fine dell’era di Mao nel 1976, trovando una delle sue manifestazioni nell’assenza di una borghesi. Così, quando i vertici dello stato nella Cina post-Mao decisero che la creazione di un’economia di mercato sarebbe stata la via più efficace per lo sviluppo economico, furono costretti a creare una borghesia. Questa borghesia allevata dallo stato, come abbiamo visto, era in larga parte reclutata all’interno del PCC, nonché tra parenti e amici dei funzionari di partito.
Si sarebbe tentati dall’attribuire il contemporaneo regime burocratico capitalista alla persistenza delle vecchie tradizioni cinesi. Dopotutto, il capitalismo burocratico, in varie forme, è stato una caratteristica prominente della storia cinese dalla dinastia Han passando per l’epoca del Guomindang. Ciò nonostante, sembra difficile collegare quello dell’era post-Mao con le sue precedenti incarnazioni. La rivoluzione del 1949 costituì una rottura fondamentale con le strutture politiche e sociali del passato, ed è difficile identificare una qualsiasi significativa continuità tra il periodo pre-1949 e la Cina post-1979. Non solo, il capitalismo burocratico della Cina contemporanea è stato associato ad tassi estremamente alti di crescita economica nazionale, che hanno fatto del paese asiatico la seconda economia a livello mondiale. Ciò è in forte contrasto col capitalismo burocratico nella Cina tradizionale e nella prima modernità, il quale, non di rado, specialmente nel XIX secolo e agli inizi del XX, era associato con una generale stagnazione economica (per quanto esso prosperasse). Questo suggerisce che altri fattori, rispetto alle origini e alla natura della borghesia, sono cruciali nel determinare il tasso di crescita economica. Nel caso della Cina, il contrasto tra lo stagnante capitalismo burocratico del Guomindang e quello dinamico della Repubblica popolare cinese post-Mao può essere spiegato meglio da fattori quali la campagna di riforma agraria del 1950-52 (e la conseguente capacità di incanalare il surplus agricolo nello sviluppo industriale), uno stato-nazione più unito con infrastrutture relativamente ben sviluppate, nonché una posizione assi più favorevole nell’economia capitalista globale.
Il rapporto tra capitalismo burocratico e crescita economica ha visto enormi variazioni da paese a paese, oltreché all’interno dello stesso paese, come è stato il caso della Cina in differenti epoche storiche. Non è questione che si presti a facili conclusioni o ampie generalizzazione. D’altro canto, le implicazioni politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo sembrano abbastanza chiare. In proposito, si possono spendere alcune parole a titolo di conclusione.
IV. Capitalismo e democrazia politica
L’associazione del capitalismo con la democrazia politica, e la convinzione secondo la quale un’economia capitalistica produce naturalmente un sistema politico democratico, deriva in larga parte dall’esperienza di paesi in cui il capitalismo moderno si è sviluppato presto, in particolare Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Eppure, anche nei paesi economicamente avanzati, la costruzione di un regime politico democratico è stata un processo lento e tortuoso. Ad esempio, in Francia, la patria della classica rivoluzione borghese democratica (o capitalista), non fu che con la Terza repubblica nel 1871, quasi un secolo dopo la grande rivoluzione del 1879, che un efficace democrazia politica venne stabilita. La restaurazione monarchica, la dittatura e le fallite rivoluzioni riempirono gli anni intercorrenti.
Nei paesi in cui il capitalismo industriale si è sviluppato relativamente tardi, il processo di modernizzazione ha avuto luogo tipicamente sotto la guida di uno stato relativamente autonomo e autoritario, con un’alleanza tra aristocrazia terriera, ormai rivolta a d interessi commerciali, ed una moderna borghesia, ancora debole per governare da sola, a fargli da base sociale. Di conseguenza, le istituzioni e le tradizioni democratiche sono deboli e lo stato forte. di fatto, nella Germania bismarkiana e nel Giappone Meiji, i due casi più notevoli di tarda modernizzazione capitalistica, l’esito politico è stato il fascismo. In questi ultimi, come in molti altri casi, nei quali regimi fascisti o fortemente autoritari sono stati il risultato, la borghesia nascente, come ha scritto Brrington Moore, ha scambiato “il diritto di governare con quello di fare profitti” (16). Lo stato autoritario, da parte sua, ha cercato di creare condizioni favorevoli allo sviluppo del capitalismo urbano e rurale, sostenendo, per esempio, politiche del lavoro repressive finalizzate ad estrarre un sempre maggiore surplus dalla popolazione lavoratrice, in particolare nelle aree rurali. Ma l’obiettivo cosciente dei vertici dello stato non è tanto la promozione del capitalismo, quanto quello eminentemente nazionalista di costruire il potere industriale e militare al fine di raggiungere i paesi capitalisti più avanzati.
A mio modo di vedere, la Cina nell’era post-Mao ha perseguito una variante di tale “via conservatrice alla modernizzazione”.Un potente ed autonomo apparato di stato è una delle eredità del periodo di Mao preservata dai riformatori di mercato. Questo stato è stato utilizzato dai successori di Mao per spazzare via tutte le barriere sociali ed ideologiche ad un rapido sviluppo capitalistico, specialmente le istituzioni “socialiste” costruite durante il periodo di Mao. Nelle campagne le unità di lavoro collettivistiche e cooperative (al pari di buona parte della sanità e del sistema di welfare) sono state smantellate con lo scopo di creare un’economia rurale commercializzata. Nelle città, la cosiddetta “ciotola di riso di ferro”, costituita da lavoro sicuro e benefici dello stato sociale goduti da circa la meta della classe lavoratrice durante gli anni di Mao, è stata rotta in nome delle “riforme”. Sia nelle campagne che nelle città tali riforme di mercato hanno agevolato uno sfruttamento più intensivo della popolazione lavoratrice, il vero segreto del miracolo cinese. Tanto lo stato che la borghesia da esso creata hanno tratto beneficio da tale processo. E come praticamente in ogni caso di “modernizzazione”, sono stati i contadini le vittime principali del progresso economico. In Cina, la più visibile manifestazione del prezzo della modernizzazione è la “popolazione fluttuante” (youmin) di lavoratori migranti. Diverse centinaia di milioni di contadini in esubero sono stati costretti ad abbandonare la terra e a vagare per il paese alla ricerca di un lavoro temporaneo, spesso in aree di costruzione; senza altra scelta che lavorare per salari infimi e sopportare condizioni di vita miserevoli.
A diversi livelli, si tratta di caratteristiche comuni dello sviluppo capitalistico e della tarda “modernizzazione conservatrice” in particolare. Ciò che appare unico nel caso della Cina e il fatto che la base sociale dello stato modernizzatore – una borghesia ed una classe rurale commercializzata – sono state create dallo stato medesimo. Lo stato comunista ha intrapreso il compito di nutrire una borghesia sia urbana che rurale, in larga parete tra i suoi stessi ranghi. In questo senso, il modello cinese di modernizzazione conservatrice è ancor più statalista e burocratico dei suoi predecessori tedesco e giapponese. E le prospettive di un’evoluzione politica democratica ancor meno promettenti. Sembra improbabile che una borghesia a tal punto dipendente dallo stato comunista, nei fatti ancora psicologicamente e materialmente legata agli apparati dello stato.partito, possa promuovere un movimento che limiti il potere statale dal quale trae così tanti benefici.
V. Capitalismo e tradizione cinese
Il capitalismo burocratico nella Cina contemporanea è pur sempre capitalismo nel suo operare essenziale, per quanto peculiari possano essere le sue origini. Come ogni processo di sviluppo capitalistico, la versione cinese è profondamente sovversiva riguardo alla tradizione. Nessuna forza nella storia ha dissolto tante credenze sacre e venerate pratiche culturali quanto le forze produttive capitalistiche. Karl Marx, oltre un secolo e mezzo fa, celebrando le sorprendenti capacità produttive del capitalismo, probabilmente ne descrisse meglio di chiunque altro le implicazioni culturali: "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali… Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti (17)."
In questo passo, e ancor più nel lungo brano di cui fa parte, Marx coglie la dinamica ed il carattere frenetico del capitalismo in un modo che non è meno rilevante per i nostri giorni di quanto fosse ai suoi tempi. Egli lamenta e celebra, al contempo, la dissoluzione delle antiche credenze e delle tradizioni riverite sotto la costante pressione dello sviluppo capitalistico. Inoltre anticipa il mondo in perpetua fluttuazione, sconvolgimento e frammentazione che oggi si suole descrivere con termini quali “modernismo”, “teoria della modernizzazione” e “globalizzazione”.
Nessun paese ha sperimentato un più massiccio e rapido sviluppo capitalistico della Cina nel quarto di secolo passato. Proprio come il capitalismo ne sta investendo il vasto territorio, ciò che rimane delle sue credenze e strutture tradizionali si sta disintegrando con eguale rapidità. La tradizione confuciana è stata erosa per lungo tempo, sin dalla lunga e dolorosa transizione dal “culturalismo al nazionalismo” nel tardo XIX secolo, passando per la violenta iconoclastia durante il Movimento del 4 maggio. A ciò ha fatto seguito la rivoluzione maoista del 1949, la quale ha distrutto la classe della piccola nobiltà e dei funzionari che così a lungo era stata il vettore della cultura e dei valori tradizionali. Eppure, in nessun’epoca vi è stata una rottura tanto rapida e radicale con la cultura tradizionale come quella cui assistiamo oggi, nel momento in cui la Cina si sottopone, e anzi abbraccia, i freddi ed imperativi valori universali del mercato capitalistico globale. I residui della tradizione stanno affogando in quella che Marx ha definito “acqua gelida del calcolo egoistico” (18). Le tradizioni si attardano esclusivamente nella forma di merci, come oggetti da esporre nel silenzio di un museo, o come grottesche esibizioni in parchi a tema stile Disneyland, dove possono essere viste da turisti stranieri e cinesi al prezzo di un biglietto di ingresso. Così, la Cina condivide con altre nazioni moderne tale sentimento assai poco confuciano – ovvero la perdita di ogni reale senso della tradizione.
È una delle grandi ironie della storia cinese che il comunismo sia stato l’agente storico dell’ingresso nel moderno capitalismo. E quest’ultimo, a sua volta, ha concluso il secolare ed iconoclastico assalto alla tradizione confuciana, sradicando e dissolvendo le vestigia della cultura tradizionale. Anche se il regime comunista sostituisce con la celebrazione nazionalista della tradizione millenaria cinese (per esempio nella forma degli “istituti confuciani”) la sua ideologia rivoluzionaria di una volta, questa tradizione si sta dissolvendo a causa del torrido sviluppo delle forze di produzione capitalistiche promosso dai dirigenti comunisti sin dl 1978.
Note
- Gli scritti di John K. Fairbank sono stati particolarmente influenti nel trasmettere tale immagine di continuità tra la Cina tradizionale e quella contemporanea. Si veda, ad esempio, il suo China: the People’s Middle Kingdom and U.S.A. (Cambridge, Mass. : Harvard University Press, 1967).
- Stuart Schram, “The Tought of Mao Tse-tung”, The Cambridge History of China, Vol. 15, a cura di Roderick MacFarquhar e John K. Fairbank (Cambridge e New york: Cambridge University Press, 1991); e Frederick Wakeman, History and Will (Berkeley: University of California Press, 1973).
- Sulle origini anti-tradizionaliste del nazionalismo cinese, si veda Benjamin Schwartz, In Search of Wealth and Power: Yen Fu and the West (Cambridge: Harvard University Press, 1964); e Joseph Levenson, Liang Ch’i-ch’ao and the Mind of Modern China (Cambridge: Harvard University Press, 1959) e Confucian China and Its Modern Fate: A Trilogy (Berkeley: University of California Press, 1968).
- Lu Xun, “Diary of a Madman,” Selected Works of Lu Hsun, Vol. 1 (Peking, 1956), pp. 8–21. Circa le origini e la natura della moderna iconoclastia cinese, si veda Lin Yu-sheng, The Crisis of Chinese Consciousness: Radical Antitraditionalism in the May Fourth Era (Madison: University of Wisconsin Press, 1979).
- Si veda See Mark Elvin, The Pattern of the Chinese Past (London, 1973).
- In max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, 2012 e The Religion of China (Glencoe, Ill.: The Free Press, 1951).
- Adam Ulam, The Unfinished Revolution (New York: Vintage, 1964), p. 45.
- I periodi 1801-41 e 1878-1927, rispettivamente, come ha notato l’economista australiano Y. Y. Kueh in “The Maoist Legacy and China’s New Industrialization Strategy,” The China Quarterly 119 (September 1989): 421.
- Ibid.
- Riguardo la confusione tra mezzi e fini del socialismo in Deng Xiaoping, e su come tale confusione abbia facilitato le prime fasi dello sviluppo capitalistico sotto gli auspici comunisti, si veda Maurice Meisner, The Deng Xiaoping Era: An Inquiry into the Fate of Chinese Socialism, 1978–1994 (New York: Hill and Wang, 1996).
- Questi sviluppi furono oggetto, ormai sei decenni fa, di una brillante analisi di Karl Polany in La grande trasformazione, Einaudi, 2010.
- Eric Hyer, “China’s Arms Merchants: Profits in Command,” The China Quarterly 132 (dicembre 1992): 1111.
- Etienne Balazs, Chinese Civilization and Bureaucracy (New Haven: Yale University Press, 1964), p. 32.
- Il sistema della “supervisione ufficiale e della gestione mercantile”, derivante dal movimento del rafforzamento interno, e che costituì il preludio alla piena esplosione del capitalismo burocratico nel periodo del Guomindang, è analizzato da Albert Feuerwerker in China’s Early Industrialization: Sheng Hsuan-huai (1844–1916) and Mandarin Enterprise (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1958).
- . Marie-Claire Bergere, The Golden Age of the Chinese Bourgeoisie, 1911–1937 (Cambridge, U.K.: Cambridge University Press, 1989).
- Barrington Moore, Social Origins of Dictatorship and Democracy (Boston: Beacon Press, 1966), p. 437.
- Karl Marx, Il Manifesto del Partito Comunista.
- Ibid.
Fonte: Traduzioni Marxiste
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