di Gustavo Esteva
La tempesta infuria. C’è la minaccia di venti del nord, freddi e impetuosi, che si sono accentuati con Trump, e si sta formando un ciclone a livello del suolo in tutto il paese. Non c’è dove rifugiarsi. Alcuni cercano rifugio nel sistema dominante. Pensano che sia realistico. Pensano, ad esempio, che sfidare apertamente il capitalismo sia romantico o utopistico. Allo stesso modo, anche se sanno che gli apparati statali vanno in pezzi, travolti dalla tempesta, e che la gente ha sempre meno fiducia nei partiti e nel processo elettorale, ripongono tutta la loro speranza nel 2018. Pensano che le circostanze permetteranno finalmente che il loro candidato di sempre vinca le elezioni; confidano che, una volta al potere, aggiusterà tutto quello che può essere aggiustato.
Hanno reagito con grande disappunto alla decisione del Congresso Nazionale Indigeno (CNI) di creare un consiglio di governo che si esprimerà per voce di una donna indigena, che sarà candidata indipendente alle elezioni presidenziali. Circolano di nuovo commenti razzisti e sessisti per squalificare la decisione. Ancora una volta si afferma che la decisione dividerà quella che continua a chiamarsi sinistra e andrà a vantaggio dei candidati di coloro che amministrano ciò che rimane del governo.
Il dibattito si è inasprito. Sulle teste ribelli si scaricano come proiettili i dogmi democratici. Non si vuole abbandonare il quadro mentale dominante, nonostante il moltiplicarsi di prove ed esperienze che dicono che non è sensato né realistico rifugiarsi nei relitti del naufragio istituzionale.
Insieme a queste ottusità dogmatiche, probabilmente inamovibili, dilagano anche lo sconcerto e la confusione. Non è facile liberarsi delle abitudini dominanti. Per il CNI, ad esempio, non sarà facile costituire dal basso, in modo corretto, il consiglio di governo. Diversi gruppuscoli si stanno già mobilitando per inserirvi i propri quadri. Lo percepiscono come un organo di potere da cui potranno dare impulso ai loro programmi, che includono punti molto diversi dello spettro ideologico.
La sfida che ci troviamo di fronte esige ovviamente un tipo di capacità immaginativa a cui non siamo abituati. Si tratta in primo luogo di riconoscere che, lungi dal sottrarsi alla tempesta e cercare rifugi provvisori, è necessario immergersi in essa. Lì, dall’interno, potremo renderci conto di quali candidati, quali partiti o anche quali strutture dominanti sono parte del nostro avversario strategico, quello che chiamiamo ancora fascismo, e alimentano il fascista che ci portiamo dentro, nascosto nel desiderio di essere governati.
La mentalità patriarcale, che ha messo radici nel corso di millenni, rende molto difficile concepire il mondo senza gerarchie e strutture di controllo. Affermando che senza di esse cadremmo nel caos, si nega il fatto che per causa loro ci troviamo nell’attuale disordine; l’illusione di governarsi tramite rappresentanti approfondisce il caos invece che porvi rimedio; ci spinge nell’abisso di violenza e disgregazione in cui ci troviamo.
È facile dire di che cosa si tratta. Si tratta di governarci. Di essere capaci di tenere noi stessi le redini delle nostre vite. Niente di più, ma niente di meno. Risulta difficile, perché siamo infettati dal virus della subordinazione: ci lasciamo governare da agenzie di stampa, commercianti, banchieri, leader, internet e quasi ogni altra cosa o persona. Crediamo che sia libertà e democrazia decidere fra le opzioni che ci presenta il sistema, fra marche di sapone o fra candidati o partiti. E così prende forma il fascista che ci portiamo dentro.
Ci sono luoghi e spazi in cui la gente non ha smesso di governarsi da sé, da millenni. Non dobbiamo idealizzarli; anche lì si osservano imposizioni patriarcali e consuetudini di dominazione. Ma la pratica esiste. Un certo numero di persone nasce ancora in contesti in cui molti aspetti della vita quotidiana sono frutto di un accordo comune. In questioni di enorme importanza per la gente si riesce a tenere a freno l’eteronomia, la regolazione da parte di altri.
Anche se la maggioranza non è abituata a governarsi da sé, l’impulso è profondo e generale. Non c’è bisogno di nessuno che ci insegni a farlo. Si comincia in casa, quando creiamo le condizioni perché tutta la famiglia, compresi i bambini e gli anziani, partecipino alle decisioni che riguardano tutti. Si passa poi al condominio, alla strada, al quartiere, a tutte le sfere della realtà in cui ciascuno si muove.
Esistono dappertutto esempi di come cambiare il modello di comportamento che ci fa desiderare che qualcuno ci governi. A San Cristóbal, ad esempio, una città che non è stata costruita per le automobili, il traffico era governato da semafori e agenti di polizia… con cattivi risultati. Il dispositivo ‘uno alla volta’, con cui gli automobilisti stessi governano l’attraversamento di ogni strada, ha dimostrato i vantaggi dell’auto-governo.
Seguendo questa via, possiamo scoprire che il paese ha ancora immense riserve di sapere autonomo. Che nelle fasce popolari questa possibilità collettiva di auto-governo è stata condizione di sopravvivenza. E che, se affrontiamo la tempesta in questo modo, praticando a tutti i livelli forme proprie di auto-governo, organizzandoci per farlo, saremo preparati a fare quello che dobbiamo fare fra diciotto mesi.
Articolo pubblicato su la Jornada
Traduzione a cura di Camminar Domandando
Fonte: comune-info.net
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