di Nicolò Bellanca
1. Qualcuno ha osservato che, mentre di solito gli economisti illustri vengono ricordati per una singola teoria o per un modello analitico, Giacomo Becattini sarà ricordato principalmente per aver contribuito alla dignità culturale e all’identità collettiva – al riconoscimento e all’autoriconoscimento – di “luoghi” come Prato e i distretti industriali italiani. La sua reinterpretazione dello sviluppo locale del nostro Paese si formò in modo induttivo, graduale e prudente; ma al momento della sua enunciazione, alla fine degli anni 1970, apparve spiazzante e rivoluzionaria, così per i colleghi economisti, come per i policy-makers.
A quei tempi dominava l’idea della one best way, secondo cui il sentiero ottimo d’industrializzazione non può che ricalcare le orme delle economie capitalistiche aventi la leadership mondiale. Questo sentiero era caratterizzato dall’inevitabile superiorità delle grandi imprese, capaci di alimentare economie interne di scala e di varietà. Alle piccole imprese rimaneva un ruolo interstiziale, o dipendente dalla strategia delle grandi, in base alla convinzione che tutto ciò che le piccole sono in grado di fare, possono farlo anche le grandi, mentre soltanto le grandi possono realizzare un’estesa divisione del lavoro interna, in termini di funzioni, fasi e prodotti. Becattini dimostrò – in astratto, recuperando il concetto marshalliano di economie esterne distrettuali; e in concreto, studiando sul campo Prato e altri “luoghi” – che «tutto quello che può fare una grande impresa in termini di efficienza può essere realizzato, non da una singola impresa, ma da una popolazione di imprese specializzate che operano in un contesto adeguato di nessi sociali, culturali e istituzionali»1. Peraltro, lo sviluppo locale non s’identifica con specifiche specializzazioni produttive o con particolari modelli istituzionali di regolazione dell’economia. Accanto ai distretti industriali di piccola impresa, incontriamo un intero arcipelago di sistemi produttivi locali. Ciò che accomuna, a parere di Becattini, buona parte delle numerose varianti, è di essere economie sociali di mercato, di realizzare un significativo “radicamento” dell’apparato produttivo nelle dimensioni socio-culturali, di avviare e stabilizzare percorsi di costruzione sociale dell’innovazione. Tuttavia, posto davanti a questa ampia fenomenologia, il nostro autore insiste nell’eleggere a cànone, lungo l’intero arco della sua riflessione, il distretto industriale. La ragione della scelta è duplice. Per un verso, essa si propone di mostrare che lo studio del distretto è in grado di rilanciare un modo specifico di fare scienza sociale, che storicamente conosciamo con il nome di “economia politica”. Per l’altro verso, essa intende assumere il distretto a tipo ideale – a modello sociale della Vita Buona – che le iniziative economiche e le progettualità politiche dovrebbero avvicinare. Esaminiamole l’una dopo l’altra.
A quei tempi dominava l’idea della one best way, secondo cui il sentiero ottimo d’industrializzazione non può che ricalcare le orme delle economie capitalistiche aventi la leadership mondiale. Questo sentiero era caratterizzato dall’inevitabile superiorità delle grandi imprese, capaci di alimentare economie interne di scala e di varietà. Alle piccole imprese rimaneva un ruolo interstiziale, o dipendente dalla strategia delle grandi, in base alla convinzione che tutto ciò che le piccole sono in grado di fare, possono farlo anche le grandi, mentre soltanto le grandi possono realizzare un’estesa divisione del lavoro interna, in termini di funzioni, fasi e prodotti. Becattini dimostrò – in astratto, recuperando il concetto marshalliano di economie esterne distrettuali; e in concreto, studiando sul campo Prato e altri “luoghi” – che «tutto quello che può fare una grande impresa in termini di efficienza può essere realizzato, non da una singola impresa, ma da una popolazione di imprese specializzate che operano in un contesto adeguato di nessi sociali, culturali e istituzionali»1. Peraltro, lo sviluppo locale non s’identifica con specifiche specializzazioni produttive o con particolari modelli istituzionali di regolazione dell’economia. Accanto ai distretti industriali di piccola impresa, incontriamo un intero arcipelago di sistemi produttivi locali. Ciò che accomuna, a parere di Becattini, buona parte delle numerose varianti, è di essere economie sociali di mercato, di realizzare un significativo “radicamento” dell’apparato produttivo nelle dimensioni socio-culturali, di avviare e stabilizzare percorsi di costruzione sociale dell’innovazione. Tuttavia, posto davanti a questa ampia fenomenologia, il nostro autore insiste nell’eleggere a cànone, lungo l’intero arco della sua riflessione, il distretto industriale. La ragione della scelta è duplice. Per un verso, essa si propone di mostrare che lo studio del distretto è in grado di rilanciare un modo specifico di fare scienza sociale, che storicamente conosciamo con il nome di “economia politica”. Per l’altro verso, essa intende assumere il distretto a tipo ideale – a modello sociale della Vita Buona – che le iniziative economiche e le progettualità politiche dovrebbero avvicinare. Esaminiamole l’una dopo l’altra.
2. Che cos’è, per Becattini, l’economia politica, perché gli sembra in declino e perché s’impegna a rilanciarla? L’economia politica è «il pezzo più vigoroso e rigoroso del discorso politico sulla società».2 La sua caratteristica genetica sta nel prendere sul serio le questioni che risalgono dalla società, anziché bollarle come mal poste, impertinenti o analiticamente intrattabili. I suoi adepti sentono la responsabilità, intellettuale e morale, di elaborare indagini concrete e ragionamenti astratti finalizzati a offrire lumi per la coscienza civile e l’azione politica. I risultati raggiunti debbono entrare nella discussione pubblica, contribuendo a qualificarne il processo deliberativo, e debbono quindi essere comprensibili anche dall’ampia cerchia degli operatori istituzionali. Il suo contrario è l’economia apolitica, ma, più in generale, ogni disciplina che, nell’ambito delle scienze sociali, si avviti attorno alla specializzazione dei “propri” strumenti e al ritaglio di un “proprio” peculiare oggetto di ricerca. Becattini costata che l’approccio cui si oppone è diventato largamente dominante. La causa maggiore è da lui attribuita alla mercatizzazione di ogni aspetto della vita. Molte tra le idee di maggiore rilevanza – come quelle di sviluppo, progresso o democrazia – sono “intrinsecamente contestabili”, ovvero è impossibile ricondurle ad accezioni univoche. Si aggiunga che non soltanto le idee sono polisemiche, ma che è problematica, e problematizzabile, ogni loro interpretazione e applicazione. Al contrario, in un mondo in cui le idee vengono fatte circolare come se fossero merci, occorre trovare modi inequivoci per assegnare loro dei “prezzi”. La soluzione sta nel valutare (nel dare un “prezzo” a) un’idea esclusivamente per i meriti – misurabili mediante indicatori quantitativi – del linguaggio tecnico che la esprime, con l’implicazione che, dati i limiti di qualsiasi linguaggio, contano unicamente le idee che una certa tecnica è in grado di formulare. Becattini annota che vi sono tre strategie attraverso cui l’economia politica può battersi per conquistare l’egemonia ideologica e culturale. Una consiste nell’attaccare dall’interno le elaborazioni dell’economia apolitica. Un’altra contesta le premesse filosofiche dell’approccio rivale. La terza è di gran lunga la più efficace: cercare «di sistemare, in qualche modo convincente, porzioni del reale in cerca di teoria».3 Per procedere in un simile tentativo, occorre «non tanto lavorare nel proprio campo disciplinare, [quanto] partire spregiudicatamente da una considerazione fresca e disinibita, tanto quanto possibile, dei fatti sociali per costruire una cassetta di strumenti analitici sganciata dalle esigenze di coerenza interna di ogni data disciplina». Un contributo esemplare è «l’invenzione da parte di Hirschman della coppia uscita-voce come chiave interpretativa che si colloca a cavallo della riflessione economica, sociologica e politologica».4 Becattini impegna il meglio delle sue energie intellettuali per contribuire a questa strategia di rilancio dell’economia politica. Il modello dei distretti industriali novecenteschi costituisce lo strumento nuovo, e intrinsecamente transdisciplinare, con il quale aggredire un ambito problematico, quello dello sviluppo socio-economico, che l’economia apolitica non riesce a decifrare. Questo modello – che innescò un vivace dibattito internazionale, ancora non esaurito – contiene uno straordinario significato metodologico: suggerisce un modo di teorizzare i fenomeni economici che metta in continua e feconda tensione livelli alti e bassi di astrazione, visti come momenti di una circolarità autoriproduttiva. «Nella cassetta degli attrezzi dell’economista manca un “laboratorio vivente” dove i processi circolari di generazione del prodotto e dell’organismo produttivo possano essere visti e studiati nel loro effettivo svolgimento, senza essere arbitrariamente sezionati in partenza. Il distretto, con le sue limitazioni geografiche, porta invece in un luogo circoscritto e rende visibili, studiabili senza particolare difficoltà, proprio i processi circolari che rendono “vivente” il processo produttivo. A Prato (per fare un esempio concretissimo, appunto) abbiamo la rappresentazione vivente di un sistema capitalistico che funziona mobilitando insieme la società, le istituzioni, i mercati, gli uomini in carne ed ossa. Focalizzando l’attenzione su Prato, possiamo studiare quali sono gli ingredienti del motore che genera “valore” senza sezionarlo irreversibilmente nei suoi pezzi elementari».5 Il capolavoro di Becattini è, al riguardo, Il bruco e la farfalla: un’opera nella quale la teoria economica si trasforma in analisi storica e il racconto storico in histoire raisonnée,6 ma anche un’opera-manifesto che documenta la possibilità dell’economia politica sulla soglia del XXI secolo.
3. È Renzo Bianchi a suggerire che Becattini mantiene il distretto industriale come cànone, nell’arcipelago dei sistemi produttivi locali, anche per la convinzione che esso rappresenti una mistura ben bilanciata e virtuosa di condizioni economiche, sociali e istituzionali; ossia per «lasciare spazio ad un’utopia sociale [nella quale] l’individuo possa vivere in uno stato di elevato benessere in seno ad una comunità democraticamente amministrata».7 Ma in quale modo il distretto alimenta la prospettiva di una “utopia di mercato”, denominata “capitalismo dal volto umano”? La mossa teorica, compiuta da Becattini, inizia sostituendo, quale categoria politica centrale della sinistra, l’eguaglianza con l’inclusione. Molti autori hanno sostenuto che la sinistra politica è storicamente connotata dalle battaglie ideali, e dalle mobilitazioni collettive, per contrastare varie forme di ineguaglianza. Nondimeno, osserva Becattini, è la coppia dentro-fuori, inclusione-esclusione, quella che maggiormente influenza la condizione, materiale e percepita, delle singole persone. Per ciascuno di noi, prima è importante essere accettato, riconosciuto, trattato con rispetto; soltanto in seconda battuta conta la posizione, relativamente agli altri membri del gruppo, in termini di reddito o di gerarchia. È la minaccia di esclusione a muovere la gente, più della consapevolezza della disuguaglianza. Una prospettiva politica di sinistra deve quindi chiedersi come ridurre i rapporti di esclusione tra le persone. La risposta va cercata nella messa a fuoco dell’identità locale. Al livello meso, sarebbe auspicabile una federazione di comuni (un “cantone”) che, mantenendo un ancoraggio robusto alla contiguità territoriale, darebbe stabilità e pregnanza alle relazioni interpersonali, evitando i non-luoghi (aree nelle quali l’esigenza di un’identità collettiva nemmeno può essere posta). Al livello macro, avremmo un’integrazione continentale degli stati nazionali, nel quadro di un sistema di organismi mondiali dedicati a funzioni (dalla tutela ambientale, al controllo dei movimenti speculativi di capitale) non adeguatamente svolgibili a livelli più bassi di aggregazione. Questo edificio utopico, nel suo complesso, assume praticabilità e pertinenza a misura che, nel seno del capitalismo contemporaneo, si annidano forze strutturali che spingono alla diffusione e al radicamento di «comunità produttrici che crescono su se stesse, sviluppando ognuna – in una sfida continua con le altre, che si esprime principalmente nel confronto, insieme, delle rispettive merci e delle rispettive civiltà, sull’unico teatro mondiale – il suo genio particolare (globalizzazione = concorrenza fra sistemi locali autoriproduttivi)».8 Ecco quindi che l’indagine sulla dimensione locale dello sviluppo – da cui il distretto industriale emerge come modello ideale – e il disegno di una “cantonalizzazione” del mondo – quale configurazione di “comunità di senso” entro cui l’esclusione sia minimizzata – si tengono a vicenda. Questa connessione tra esplorazione scientifica e orizzonte ideale, peraltro, non è un divertissementintellettuale, che libera l’immaginazione senza pagare il dazio del controllo interno di coerenza, e del riscontro esterno dell’empiria. È, piuttosto, il fondamento della prospettiva politica di sinistra. Citando Claudio Napoleoni, Becattini annota che se la sinistra non possiede gli strumenti culturali per l’elaborazione del progetto di una nuova società, capace di corrispondere alle speranze della gente, e nel contempo di produrre politiche effettive, allora di “sinistra” in senso proprio non possiamo più parlare.9
4. Il patrimonio d’idee che Giacomo Becattini ci ha trasmesso è, ovviamente, ben più vasto e profondo dei pochi cenni qui svolti. Ho compiuto un succinto e modesto tentativo di orientare alla lettura dei suoi scritti, sostenendo che la forma-distretto costituisce una chiave di accesso unitaria, grazie alla quale egli (i) ridefinisce i nessi tra sfera economica e sfera socio-culturale, e quindi ripensa i significati dello sviluppo di una collettività umana; (ii) riqualifica e prova a rilanciare l’economia politica, quale modo peculiare di fare scienza sociale; (iii) rinnova la progettualità politica riformista, immaginando un assetto istituzionale inclusivo centrato sui “luoghi”.
1 Marco Bellandi, Mercati, industrie e luoghi di piccola e grande impresa, Il Mulino, Bologna, 2003, p.132.
2 Giacomo Becattini, Per un capitalismo dal volto umano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p.175. Questo volume è una raccolta di scritti pubblicati originariamente su Il Ponte; ed è essenzialmente ad esso che qui faccio riferimento.
3 Ivi, p.179.
4 Ivi, p.183.
5 Enzo Rullani, “Intervento” alla Tavola rotonda Per Giacomo Becattini del 15 maggio 2001, Antologia Viesseux, VII n.s., 21, 2001, p.93.
6 Sto parafrasando un famoso giudizio su Marx di Joseph Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia (1942), Etas, Milano, 1967, p.42. Si veda Giacomo Becattini, Il bruco e la farfalla. Prato: una storia esemplare dell’Italia dei distretti, Le Monnier, Firenze, 2000.
7 Renzo Bianchi, “The italian revival of industrial districts and the foundations of political economy”, in G. Becattini, M. Bellandi and L. De Propris (eds.), A Handbook of Industrial Districts, Edward Elgar, Celthenham, 2009, p.108.
8 Becattini, Per un capitalismo dal volto umano, op.cit., p.93.
9 Ivi, p.78.
Fonte: Il Ponte
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