La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 4 febbraio 2017

Il populismo democratico tra l’Europa e l’America Latina

Intervista a Samuele Mazzolini di Political Observer on Populism 
1) Partiamo da dove siamo rimasti. Nell’ultima intervista (aprile 2015) hai dichiarato che “mentre in America Latina il populismo è ampiamente accettato e interiorizzato all’interno della sinistra, in Europa non è così, e possiamo parlare di Spagna e Grecia come laboratori interessanti in questo senso” . Nel frattempo il risultato di Podemos alle ultime elezioni politiche non è stato all’altezza delle aspettative, nel Regno Unito l’approccio populista di Corbyn non ha convinto l’establishment del Partito Laburista, e i leader di Syriza hanno dovuto rinunciare a molte delle promesse fatte prima delle elezioni perdendo così parte del sostegno popolare. L’ondata europea del populismo di sinistra ha già ceduto il passo al pentimento e al disincanto oppure è un laboratorio politico ancora in funzione?
"Penso che sarebbe sbagliato sostenere che vi è stata un’ondata di populismo di sinistra come tale in Europa e che questa abbia portato già al pentimento e al disincanto. Una rondine non fa primavera. È difficile mettere sullo stesso piano tutti i fenomeni di cui parli; sarebbe piuttosto necessario introdurre delle sfumature. Citiamoli brevemente uno per uno.
Podemos
Podemos è forse il più populista di questi esperimenti, anche se ha ridimensionato il proprio discorso populista nel corso del tempo. Ernesto Laclau concettualizza il populismo come una logica politica che consiste nell’operazione di dividere la società in due campi, dove abbiamo una plebe che rivendica di rappresentare l’unico populus legittimo in opposizione a un avversario (tipicamente delle élite egoistiche). Allo stesso tempo, questo movimento è accompagnato dall’articolazione di una serie di domande eterogenee che non vengono soddisfatte da questo avversario, che tipicamente detiene il potere economico e/o politico. Ora, questi due momenti non procedono sempre insieme allo stesso ritmo. È possibile tentare di articolare le domande insoddisfatte, mentre la retorica “noi/loro” viene sfumata. Questo è quello che è successo con Podemos. Possiamo quindi dire che Podemos in linea di massima si inserisce ancora nella categoria populista, ma qualche compromesso doveva essere fatto e l’alterità completa inizialmente mantenuta nei confronti del resto del sistema politico è stata rotta. Tale variazione è paradossalmente dovuta a due tendenze diverse.
Da un lato, Podemos ha stipulato un’alleanza con Izquierda Unida prima delle ultime elezioni. Anche se Izquierda Unida non era precisamente l’attore principale del ‘sistema’ che Podemos criticava, faceva tuttavia parte di quell’ ‘esterno costitutivo’ su cui si basava la stessa creazione di Podemos. Più in generale, Pablo Iglesias ha recentemente cercato di spostare il partito a sinistra. Questa mossa è in contrasto con l’intuizione originaria secondo la quale era necessario abbandonare la dicotomia destra/sinistra, al fine di interpellare le persone a partire da una serie di elementi comuni presenti nella società. L’idea di fondo era che la maggior parte delle persone è interessata a certi temi, come mantenere la sanità e l’istruzione pubbliche e di buona qualità, e non alla simbologia della sinistra. Iglesias sembra aver fatto marcia indietro su questo. Dietro a questa mossa, a mio avviso c’è un errore di interpretazione. Egli pensa che l’enfasi prolungata sulla dimensione elettorale (causata da una serie di chiamate alle urne a stretto giro) e la conseguente penetrazione di Podemos nelle istituzioni abbia minato il suo fascino popolare. Per Iglesias, il fatto di stare nelle istituzioni e di dover sporcarsi le mani nel mondo poco seducente degli atti amministrativi allontana Podemos da quell’aura che gli ha permesso di far presa sui settori esclusi della società. Quindi, la radicalizzazione a sinistra. Ciò si fonda su una lettura erronea di Laclau: per l’argentino, non si ha mai populismo puro o istituzionalismo puro, ma in genere una combinazione dei due in diverse gradazioni. Anche l’esperimento più populista ha bisogno di una qualche forma di istituzionalizzazione per poter funzionare. Inoltre, il fatto di entrare nelle istituzioni non necessariamente ostacola la possibilità di ‘creare un popolo’. Tutto dipende da come strutturi la tua presenza nelle istituzioni e ciò che fai al loro interno. Sono consapevole del fatto che egli vorrebbe evitare di intraprendere la parabola degenerativa del Partito Comunista Italiano, che da un certo punto in poi è diventato complice con il sistema. Ma lavorare verso la costruzione di una nuova egemonia significa essere in grado di condurre una lotta su una vasta e differenziata gamma di fronti: le istituzioni, la piazza, il tempo libero, la cultura, ecc. Capisco che il mantenimento di una alterità di fondo con il sistema mentre si orchestrano le tensioni inerenti alla presenza in diversi siti del sociale non è cosa facile. Ma riproporre una dicotomia tra le istituzioni e la piazza sarebbe controproducente per Podemos.
D’altra parte però, l’alterità completa è stata rotta anche nel tentativo di occupare quella che è stata chiamata ‘centralità politica’ (da non confondere con il centro politico). Più in particolare, l’urgenza diffusa di sbarazzarsi di Rajoy e del Partido Popular (PP) ha portato Podemos, ed Errejón in particolare, ad aprire alla possibilità di un’alleanza post-elettorale con i socialisti (PSOE). Il fatto è che il cittadino medio che non ha votato per il PP è [era, ndr] prima di tutto preoccupato dalla terrible prospettiva di un altro governo Rajoy, non dalla purezza ideologica, che è più un’ossessione militante invece. Tutto questo rivela la questione attorno alla quale ruota l’attuale rivalità esistente tra Iglesias ed Errejón: il primo è interessato a recuperare le sue vecchie credenziali di sinistra, mentre il secondo è per creare un progetto nazionale-popolare, una nuova identità politica in grado di uscire dallo stretto perimetro che ha fatto della sinistra radicale un’opzione poco attraente per la stragrande maggioranza della popolazione, e per spostare il Paese verso un corso progressista a partire dagli elementi contingenti di cui è composta la società spagnola, non da una serie di sogni utopici. Dei due, penso che l’approccio adottato da Iglesias sia stato molto dannoso dal punto di vista della strategia e possa spiegare in parte la delusione elettorale.
Syriza
Nel caso di Syriza invece, la riluttanza a rispettare l’esito del referendum e seguire una strategia più radicale nell’estate del 2015 ha praticamente eliminato la frontiera su cui era stato costruito il suo appello populista. L’accettazione di ulteriori misure di austerità ha smantellato il punto nodale intorno al quale si era radunata l’intera popolazione. Syriza è stato prima di tutto il partito anti-austerità, ancorando la propria politica alla distinzione tra quelli a favore del memorandum e quelli contro il memorandum; ora quella domanda difficilmente può essere sostenuta dal partito di Tsipras.
Naturalmente, Syriza dice di essere essere diversa dal resto del sistema, mettendo in primo piano la sua volontà di affrontare la corruzione e di gestire l’austerità in modo più equo. Ma questo non riesce più nella magia che così bene riusciva invece all’opposizione all’austerità. Quello era un orizzonte sociale che oltrepassava la distinzione destra/sinistra e che poteva unire al di là delle (e persino ri-disegnare le) fedeltà politiche tradizionali.
Partito laburista britannico
Per quanto riguarda Corbyn, non direi che incarna un approccio populista. Il suo è un tipo di discorso di sinistra più classico. Il fatto di essere stato nuovamente eletto alla guida del partito – un esito felice, per quanto mi riguarda – non aumenta le sue probabilità di far bene presso l’elettorato. In molti a sinistra hanno approfittato delle nuove norme che regolano la scelta del leader laburista, le quali danno più voce alle base a spese del gruppo parlamentare laburista. Nonostante questo segnali certamente un’insoddisfazione più ampia verso lo status quo (in particolare all’interno del movimento sindacale), per ora significa solo che i militanti di sinistra sono politicamente più impegnati rispetto agli apatici sostenitori della Terza Via e i loro simili."
2) Che dire del Movimento Cinque Stelle (M5S) in Italia? Ora il partito di Grillo amministra la capitale (Roma) e un’altra città molto importante (Torino). Pensi che siano pronti a governare il Paese? Quali sarebbero le conseguenze?
"Io sono sempre piuttosto scettico della retorica secondo cui questo o quel soggetto politico non è ‘pronto a governare’. Credo che vi sia un atteggiamento paternalistico e tecnocratico alla base di questo tipo di affermazione. Dopodiché, va detto che il M5S sta facendo di tutto per smentirmi. Il recente caos riguardante la formazione della giunta comunale di Virgina Raggi dimostra tutto il loro dilettantismo. Ma è importante analizzare le origini di tale caos. Ciò che suggerisce in ultima istanza è che il M5S manca di una cultura politica unificante e, per lo stesso motivo, di un’analisi e di una comprensione coerenti della società. Questo è il motivo per cui mi piace paragonare, con le dovute precauzioni, il M5S con il peronismo: attraverso la sua retorica, Perón riuscì a mettere insieme settori sociali completamente agli antipodi, senza veramente amalgamarli. Una volta al potere tale diversità venne alla ribalta e si intensificò drammaticamente dopo la sua morte. In entrambi i casi, gli elementi che entrano in una relazione di equivalenza (per dirla à la Laclau) sono troppi e troppo eterogenei per dare vita ad un discorso coerente.
Se il M5S un domani prendesse il potere, dimostrerebbe solo di essere diviso su un gran numero di questioni. Cosa pensano della tassazione? Qual è la loro posizione sulle questioni internazionali? Sono a favore o contro l’austerità? Nessuno lo sa veramente. A questo proposito, credo che la loro esperienza al potere sarebbe un fallimento. Ma un fallimento necessario: siccome hanno occupato il terreno discorsivo del soggetto sfavorito dal sistema così bene, un populismo veramente progressista e democratico ha avuto difficoltà ad emergere (per non parlare del fatto che la sinistra italiana sia stata finora riluttante a dargli vita). Siccome il populismo tende a prosperare in condizioni di crisi, non è detto che la stessa finestra di opportunità per un altro intervento populista sia ancora aperta una volta che i loro limiti saranno chiari a tutti, ma il loro declino è la conditio sine qua non affinché possa emergere qualcosa di più promettente."
3) Dal momento che stiamo discutendo il processo di istituzionalizzazione dei partiti populisti, è necessario guardare all’America Latina. Considerando i casi di Correa (Ecuador), Morales (Bolivia) e Maduro (Venezuela), proviamo ad osservare gli attori populisti quando non sono più all’opposizione. Hanno cambiano i loro discorsi una volta al potere? I partiti si sono adattati alla nuova situazione, e come? Le interpretazioni di ‘chi è il popolo’ e ‘chi sono le élite’ sono rimaste le stesse?
"Nel caso del Venezuela, il discorso è cambiato sensibilmente dal primo Chávez che ha preso il potere nel 1998 a quello che è venuto dopo, soprattutto dopo il fallito colpo di Stato del 2002. Solo a partire da quel momento è avvenuta la vera radicalizzazione. Inizialmente, il suo era un discorso democratico che poneva l’accento sulla lotta contro la corruzione, con solo un accenno a riforme di tipo socialdemocratico.
Nei casi della Bolivia e dell’Ecuador, i discorsi messi in campo sono stati piuttosto stabili. Essi non sono diventati istituzionali nel senso tradizionale di girare le spalle al popolo e tradire le aspirazioni su cui avevano costruito il proprio successo un minuto dopo aver preso il potere. Anche se nel corso del tempo hanno moderato e spostato verso il centro il proprio baricentro, in particolare l’Ecuador, si tratta di governi che, in generale, hanno dato prove tangibili del proprio impegno. I miglioramenti degli indicatori sociali – con alcune battute d’arresto recenti, dovute soprattutto alla crisi – ne sono una prova.
In Venezuela, la storia è meno lineare e ci vorrebbe un trattato intero per renderle piena giustizia. Certo, alcuni buoni risultati sono stati raggiunti nella misura in cui c’è stata un’effettiva emancipazione delle fasce più vulnerabili della società, ma sono sempre più oscurati da risultati altrettanto terribili in termini di gestione macro-economica e aumento della criminalità.
Tuttavia, la storia non finisce qui. Nel caso che conosco meglio, quello ecuadoriano (anche se questa linea di ragionamento si addice in maniera ancora più drammatica al caso venezuelano), il registro dei nemici è stato modificato: non più solo la grande stampa, le grandi banche , gli agro-esportatori e le oligarchie più in generale, ma chiunque in disaccordo con Correa, a prescindere da quale posizione. Nonostante i principali avversari siano ancora quelli indicati all’inizio, un salto di qualità ha avuto luogo. La polarizzazione promossa da Correa – e amplificata dai suoi avversari – è andata così fuori controllo da perdere progressivamente il suo significato. Ora, tutto gira intorno alla sua personalità. Qualsiasi tentativo pedagogico di cambiare la cultura politica è fallito miseramente. Va detto che la gestione dell’antagonismo e della dialettica amico-nemico che permea tutta la politica è stata un fallimento totale."
4) Cosa possono imparare gli attori populisti di sinistra europei dai casi dell’America Latina? Il loro successo è replicabile in una certa misura nel Vecchio Continente? È possibile avere successo, in Europa, per un movimento con forti attitudini anti-liberali verso gli avversari e il sistema istituzionale di ‘controlli e contrappesi’?
"Credo che certe lezioni possano essere apprese, ma devono essere applicate al contesto. In particolare, c’è da imparare la volontà di creare un’identità nazionale-popolare, forgiata a partire dall’appello a un sentimento condiviso di opposizione contro le élite economiche e politiche. Questa mossa permette di superare i confini dei ‘già convertiti’ e raggiungere settori altrimenti indifferenti ai messaggi della sinistra. L’ondata populista latinoamericana ci insegna che è possibile creare un nuovo ‘noi’ dalle domande disperse che vengono sistematicamente frustrate dai detentori del potere.
Tuttavia, dubito che il successo dell’America Latina possa essere replicabile in Europa nella stessa misura e negli stessi termini. Come l’esperienza di Podemos dimostra, il potere è dotato, per usare una terminologia gramsciana, di molte trincee e casematte che impediscono il rapido cambio delle fedeltà politiche a cui abbiamo assistito in America Latina. È quindi molto più difficile, per la sinistra populista europea, ottenere gli ampi successi elettorali di Chávez, Morales e Correa.
Le società europee sono molto più complesse e difficili da capovolgere. Se un ‘guerra di manovra elettorale’ è stata sufficiente in America Latina, questa è ben lungi dall’essere abbastanza in Europa, dove è necessaria una guerra di posizione più articolata. Errejón di recente ha riconosciuto proprio questo: il tempo per una guerra lampo elettorale è finito, ora è il momento di un lavoro di ‘artigianato culturale e istituzionale’. Tuttavia, la strategia elettorale della guerra lampo non era del tutto priva di senso per Podemos: ottenere circa il 20% dei consensi elettorali può certamente essere effimero di per sé, ma fornisce condizioni ottimali per continuare la battaglia. In caso contrario, Podemos sarebbe stato solo un altro partito marginale con percentuali patetiche. Le élite hanno paura di Podemos, mentre rimangono indifferenti verso gli altri progetti radicali di sinistra.
Per quanto riguarda l’atteggiamento anti-liberale mostrato dal populismo latinoamericano, sono d’accordo che questo non possa avere particolare successo in Europa. A dire il vero, un po’ di liberalismo politico (ed evidenzio ‘solo politico’) dovrebbe essere il benvenuto. L’allergia al pluralismo propria del populismo progressista latinoamericano non ha avuto esiti felici."
5) Gli strateghi e le figure chiave di Podemos hanno tratto ispirazione dal modello del Venezuela in termini pragmatici, e dalle posizioni di Laclau in termini teorici. È possibile sostenere che il limitato successo elettorale di Podemos (limitato fino a un certo punto – e relativo alle aspettative) è legato allo screditato rapporto mantenuto con il regime venezuelano?
"I media spagnoli hanno spinto molto su questo tema al fine di screditare Podemos. Più che sottrarre voti a Podemos, questo ha portato molti conservatori ad affidare ancora una volta il proprio voto al PP. Anche se ne erano disillusi, lo hanno fatto in modo tale da evitare quella che era avvertita come una minaccia. La propaganda del PP messa a punto da Jim Messina ha fatto proprio questo: ri-conquistare porzioni di elettorato ideologicamente vicino ritraendo Podemos come un pericolo. Tuttavia, è vero che Podemos e Izquierda Unida hanno perso più di un milione di voti rispetto al dicembre 2015. Credo che questo può essere spiegato meglio con riferimento alla strategia di alleanza con la sinistra radicale e con le difficoltà intrinseche al tentativo di incursione in Europa di un progetto che sfida lo status quo, per quanto intelligentemente lo faccia."
6) Il New York Times ha recentemente scritto che ‘L’ombra proiettata dal Venezuela è stata così lunga che il suo presidente, Nicolás Maduro, ha ultimamente invitato i politici della Spagna a tenere i loro dibattiti elettorali a Caracas “di modo che possa partecipare anche io e forse vincere le elezioni in Spagna”‘. Al di là dei presunti legami finanziari tra Podemos e il regime del Venezuela, quali sono le connessioni ideologiche tra i due movimenti? E che ruolo gioca l’esperienza dell’America Latina nella determinazione delle strategie di Podemos e di altri partiti in Europa?
"Errejón ha precisato in un’intervista che mi ha rilasciato che Podemos non sarebbe così com’è senza alle spalle l’esperienza in America Latina di molti dei leader del partito (tra cui lo stesso Pablo Iglesias). Questa ha fornito loro le intuizioni che ho menzionato in precedenza. In termini di orientamento ideologico tuttavia, penso che l’influenza non debba essere esagerata. L’unico contenuto reale che è stato in qualche modo importato nel repertorio normativo di Podemos è quello della plurinazionalità, un concetto che ha trovato concreta applicazione in Bolivia – e in misura minore in Ecuador – volto a riconoscere e gestire la presenza di diverse nazionalità in un unico Stato."
7) Come interpreti il futuro del populismo di sinistra in Europa e nelle Americhe? Movimenti come Occupy Wall Street o gli Indignados, e politici come Sanders o Corbyn, sono un’eccezione con vita breve o un fenomeno nuovo? Sarà il modello del chavismo e del caudillismo a prevalere o sarà piuttosto una sorta di populismo di sinistra liberale, progressista ad avere successo sui due lati dell’oceano?
"Ci sono diversi tipi di attori politici e di fenomeni tra quelli da te accennati. Tendo a pensare che le mobilitazioni sociali sono difficili da mantenere vive nel tempo. È un’illusione credere che le persone possano rimanere mobilitate a tempo indeterminato e che la maggior parte della popolazione sia composta da attivisti impegnati. Un certo grado di istituzionalizzazione è necessario affinché quelle energie possano essere convogliate verso il sistema politico e avere un impatto reale. In caso contrario, rischiano di essere dissipate, alimentando frustrazione e impotenza.
In questo senso, trovo che il ruolo dei partiti populisti sia proprio quello di collegare l’espansione delle rivendicazioni e della protesta con la necessità di trasformare le istituzioni in senso progressista. È cioè necessaria una combinazione tra la dimensione orizzontale e quella verticale della politica. Come dice Laclau: ‘la dimensione orizzontale dell’autonomia sarà incapace, di per sé, a portare avanti un cambiamento storico di lungo termine a meno che non sia completata dalla dimensione verticale dell’egemonia – in altre parole, una trasformazione radicale dello Stato. Allo stesso modo, l’egemonia che non è accompagnata da un’azione di massa a livello della società civile porta al burocratismo, il quale sarà facilmente colonizzato dal potere corporativo delle forze dello status quo’.
Detto questo, ciò che il futuro riserva per il populismo di sinistra nei due continenti è contingente e imprevedibile. Quello che posso dire è che la recente ondata di populismo di sinistra in America Latina è viziata da due patologie generali. Queste richiedono anche una riformulazione di alcune tesi di Laclau (che è quello su cui sto lavorando).
La prima è che il populismo è stato articolato a logiche che sono ostili alla democrazia. Questo non è uno sviluppo necessario, ma dobbiamo essere onesti sul fatto che nel caso dell’America Latina, il populismo è stato accompagnato da buone dosi di caudillismo e un po’ di autoritarismo. Il passaggio dalla centralità del leader alla centralità delle idee è stato interamente abdicato. Quando ci si richiama al populismo da una prospettiva di sinistra, dobbiamo fare in modo che si mantenga plurale e che non cerchi di annullare l’eterogeneità in nome di un’unità fittizia. La deliberazione interna all’interno del campo popolare non deve essere soppressa, ma potenziata.
L’aggressività delle élite dell’America Latina è stata spesso la scusa per ridurre al minimo il dibattito in quella che può essere definita la ‘sindrome della fortezza assediata’. Capisco che queste élite sono particolarmente difficili da affrontare. Sono razziste, violente e cercano di difendere privilegi medievali con le unghie e con i denti. Ma il modo di affrontarle consistente nella chiusura a riccio e nella contumelia è risultato essere sbagliato e controproducente, soprattutto perché lo stesso atteggiamento di ostilità è stato poi riprodotto nei confronti di qualsiasi avversario, anche quelli che sarebbe difficile da inquadrare come élite. A sua volta, questo approccio di autosufficienza ha reso sempre più difficile l’apertura del campo popolare, riducendo al contempo la sua capacità di intuire i nuovi orientamenti, le nuove domande e i nuovi sensi comuni che emergevano nella società. Dal punto di vista teorico, questo significa conciliare la nozione di populismo con quelle della democrazia radicale e dell’agonismo (si veda Chantal Mouffe su questi concetti). Credo che qualsiasi difesa del populismo debba essere integrata da un ethos di apertura verso il contingente.
La seconda patologia (che è correlata alla prima) è che il populismo ha dato vita a un’egemonia elettorale di 15-20 anni, la quale è ora di fronte a una serie di strozzature critiche. Diverse politiche neoliberiste sono state contestate e sostituite. Per la destra non sarà facile smantellare certi programmi sociali, per non parlare del fatto che sarà difficile rimuovere la rilevanza di molte tematiche imposte dalla sinistra al dibattito pubblico. Più in generale, un’identità latinoamericanista, neo-sviluppista ed egualitaria è ancora viva e vegeta sotto i colli di bottiglia e le contraddizioni che devono affrontare gli (ex) governi populisti: un serbatoio fondamentale che può essere ancora mobilitato anche quando il campo popolare è stato sconfitto. Tuttavia, la formazione sociale è in linea di massima rimasta la stessa. Ancora più crucialmente, la soggettività neoliberista è rimasta. Questo è molto visibile, solo per fare un esempio, negli schemi iper-consumistici del soggetto, un fatto ben evidenziato dalla disillusione dei ceti medi – i principali beneficiari economici e sociali della marea rosa – verso i governi populisti e le loro misure protezionistiche.
Quello che sostengo è non vi è stata alcuna dimensione educativa che adeguasse la civiltà e la moralità delle masse popolari al progetto politico. Questi progetti progressisti non sono riusciti ad ottenere un ruolo di primo piano nei diversi ambiti della società: nell’economia, nella cultura, nella vita intellettuale e morale. Ecco perché la vicinanza eccessiva tra la nozione di populismo e quella di egemonia in Laclau è fuori luogo. Un successo del populismo può portare una serie di conquiste – anche molto positive e importanti – ma l’egemonia è un’altra cosa. Essa definisce i parametri della politica e della vita.
Qui la nozione gramsciana della temporalità è la chiave per capire la differenza. Brevemente: ogni presente è pervaso da due forme temporali: una plurale, l’altra singolare. La temporalità plurale è caratterizzata dal confronto tra diversi progetti politici, il cui esito varia continuamente. È, in altre parole, la sfera dell’occasionale giacché permette capovolgimenti rapidi: la vittoria di un progetto può essere annullata il momento dopo da un altro progetto. Al contrario, la temporalità singolare (detta anche egemonica) consiste in strutture molto più lunghe e relativamente più stabili le quali fissano un fondamento e stabiliscono i contorni entro i quali può prendere luogo la lotta tra i diversi progetti plurali. Possiamo pensare a questa temporalità come lo spirito di un’epoca: processi socio-politici di vasta portata che mostrano un certo grado di stabilità e disegnano il perimetro entro il quale può verificarsi il gioco della temporalità plurale. La congiunzione tra le due forme di temporalità avviene quando un progetto emergente nel campo della temporalità plurale è capace di trascendere quel campo e imporsi attraverso l’impostazione di una nuova temporalità singolare. La marea rosa latino-americana ha operato solamente nella temporalità plurale.
Per quanto riguarda l’Europa, il populismo di sinistra si farà strada solo se il radicato sospetto nei suoi confronti nutrito dalla sinistra sarà sconfitto. Ciò richiede una guerra di posizione a parte, sfidando i sensi comuni assodati all’interno dei settori militanti per costruirne di nuovi. Non è facile. Prendiamo la sinistra italiana, per esempio. Vari atteggiamenti permeano non solo le dirigenze dei vari soggetti, ma si estendono alle basi e costituiscono una sorta di antropologia politica della militanza. Questi atteggiamenti hanno origini diverse, così come è diversa la loro natura, e non sempre si verificano insieme o in parti uguali, ma sono tutti abbastanza ostili alla prospettiva di ‘creazione di un popolo’. Il massimalismo parolaio (un vecchio vizio della sinistra italiana), il distacco dalla realtà attraverso la creazione di piccole comunità di attivisti che si estraniano da ciò che accade nella vita reale (i social media hanno amplificato di molto questo fenomeno), l’esagerazione dell’importanza dei dibattiti normativi, la condanna – senza comprensione – di qualsiasi fenomeno politico che coinvolge i ceti medi, la purezza ideologica, il completo rifiuto del ruolo del leader, l’attaccamento a simboli e liturgie ormai datate, la propensione ai piccoli battibecchi, il linguaggio barocco, e così via. Queste sono premesse molto difficili da cui far partire un populismo di sinistra."

Fonte: senso-comune.it 

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