di Enzo Paolini
Intervengo nel dibattito acceso dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato parzialmente illegittima la legge elettorale detta Italicum. Sono salito, tra gli ultimi, sul pulmino degli avvocati che si sono battuti contro il tir del governo generato da un parlamento abusivo ed è stata una grande – e gratificante – lezione di democrazia. Una lezione guidata da Felice Besostri e declinata da giuristi che in questi anni hanno interpretato, come meglio non si poteva, il diritto ed il senso dello Stato, insieme. Il passaggio che ha suscitato le reazioni politiche aprendo la strada alla prospettazione degli scenari più diversi è – naturalmente – quello sulla possibile immediata applicazione delle leggi elettorali così come disegnate dal bisturi della Corte.
Due quelli più prevedibili e di più diretta percezione: con l’eliminazione del ballottaggio il premio di maggioranza rimane solo nel caso in cui nessuna lista dovesse raggiungere il 40%. Ciò condurrebbe, formalmente, verso un sistema sostanzialmente proporzionale dal momento che appare improbabile – allo stato – un solo vincitore al 40%.
Ma d’altra parte proprio tale previsione, spingendo le formazioni politiche ad aggregazioni finalizzate all’obiettivo del 40% potrebbe anche portare verso una forma di bipolarismo.
L’altra questione, quella delle pluricandidature, non è risolta dalla abrogazione del potere di scelta del candidato eletto in più collegi perché la reazione sarà quella di candidare un capolista «castale» in ogni collegio. E così la scelta del cittadino sarà comunque compressa, con la conseguenza che i nominati potrebbero essere un numero maggiore di prima.
Non spettava certo alla Corte fare scelte politiche ed infatti ora è auspicabile che il Parlamento (questo o il prossimo) si riappropri del libero pensiero e faccia, senza cedimenti a convenienze elettorali del momento una legge senza premi e candidati garantiti. Non c’è alcun bisogno di alterare la volontà popolare per consentire, o meglio per imporre, il governo di un solo partito dal momento che la politica, quella seria, è fatta del duro e appassionante lavoro della mediazione del confronto e delle alleanze. Ma non è solo questo il cuore politico e giuridico della questione.
La sentenza della Corte Costituzionale ha una importanza istituzionale che va al di là dei due annullamenti pronunciati e che sanciscono l’ennesimo strafalcione del governo Renzi. Leggeremo, naturalmente, le motivazioni per commenti più tecnici e di dettaglio ma sin d’ora possiamo dire che se la censura del ballottaggio – e della conseguente previsione dell’abnorme premio di maggioranza anche a chi avesse avuto la «maggiore minoranza» – nonché l’abolizione delle pluricandidature con opzione discrezionale del candidato eletto in più collegi, sono sufficienti per dire che la pulsione oligarchica ed autoritaria ispiratrice della legge è stata sterilizzata, nondimeno l’aspetto più significativo e pregnante della sentenza – sul piano etico e politico – è un altro. Che emerge subito e non ha bisogno del supporto motivazionale perché ne è la premessa che sconfigge la tesi del governo (espressa dall’Avvocatura di Stato) secondo la quale per valutare la eventuale incostituzionalità di una legge elettorale occorre che prima questa abbia avuto applicazione. In altre parole secondo la presidenza del consiglio un parlamento abusivo (come quello attuale) può – deve – licenziare una legge elettorale, magari nuovamente incostituzionale, che però tale (cioè incostituzionale) può essere dichiarata solo dopo l’elezione del nuovo parlamento che sarebbe, inevitabilmente, di nuovo abusivo creando così una spirale perversa di leggi incostituzionali e parlamenti non legittimati.
La Corte Costituzionale ha detto, invece, che il diritto del cittadino al voto in maniera conforme alla Costituzione è permanente e la legge elettorale stabilisce solo le modalità di traduzione del voto medesimo in seggi parlamentari.
Se queste modalità violano il dettato costituzionale vanno rimosse prima che producano l’effetto. E ciò costituisce una risposta chiara e diretta anche ai Giudici di merito che hanno dichiarato manifestamente infondate le questioni di costituzionalità condannando i cittadini ricorrenti al pagamento di pesanti spese legali. Come dire: i cittadini non devono interferire, non devono disturbare il manovratore, neanche quello che guida senza avere la patente (come il Parlamento attuale, privo di qualsiasi legittimità).
Insomma, la tesi della Presidenza del Consiglio e di questi Giudici – se accolta – avrebbe infettato il Parlamento e le Istituzioni di un pericolosissimo virus antidemocratico, perché avremmo potuto avere all’infinito Parlamenti eletti con norme incostituzionali. Invece è caduta quasi nel ridicolo con l’esempio – citato in udienza – ed ormai noto come «la domanda del barbiere»: se una legge reintroducesse la pena di morte occorrerebbe procedere alla prima esecuzione per dichiararla incostituzionale?
Ecco, possiamo dire che la Corte costituzionale ha salvato la nostra democrazia dalla pena di morte. Ma ora sta a noi farla vivere, la democrazia.
Fonte: Il manifesto
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