di Angelo Ferracuti
Arrivando in automobile sulla Salaria dalla costa, si scorge subito un paesaggio innevato ai lati della carreggiata, la neve sembra tagliata da una lama affilata sui bordi, e il bianco lucente in una giornata di sole prende subito il sopravvento. Le popolazioni sono state tutte evacuate, gli elicotteristi dell’esercito hanno recuperato gli ultimi dispersi, isolati e senza corrente elettrica da giorni, nuotando nel manto spesso e in condizioni difficilissime, arrivando a volte esausti dopo ore nelle frazioni in case già disabitate, adesso stanno recuperando gli animali che girano randagi e storditi nei paesi.
Borgo di Arquata oggi è più spento, pochi mezzi della protezione civile e dei vigili del fuoco, il campo è smobilitato, il giovane carabiniere accarezza all’aperto il gatto Ciaone; l’unico luogo comunitario vivo, come in molti paesi di montagna delle tante Italie, è l’ufficio postale. Fuori dal container, una signora dai capelli neri stretta nel suo giaccone, a proteggersi più dal tempo delle scosse che strema che dal freddo pungente, mi dice arresa: «Qui non c’è più niente, hai visto? Era già un territorio fragile che si reggeva per miracolo, adesso è precipitato tutto». Si allontana, sta per andarsene, poi torna a parlarmi per non deludermi: «La ricostruzione forse la vedranno i miei figli, se continua tutto così, non abbiamo risposte da nessuna parte, neanche la torre è stata cintata». L’indignazione si mischia al dolore in un sentimento contrastato e offeso dalle circostanze. Ha partecipato alla manifestazione di protesta del 25 gennaio a Roma, ma sono stati boicottati, sostiene, solo tre pullman di quelli scortati da Fiano romano sono arrivati a destinazione.
VICINO A LEI TRE UOMINI stanno discorrendo, hanno i volti imbronciati. Vengono qua tutti i giorni, uno di loro aveva un negozio in paese, travolto dalle macerie. «È tutto immobile, non ti sei informato?» mi dice il commerciante corpulento in tono di sfida, mentre quello più giovane che abitava a Pescara del Tronto, barba incolta e cappellino nero, aggiunge sdegnato: «L’immobilismo dello Stato è impressionante, qui è tutto come cinque mesi fa». Il campo è spopolato, in alto, dove comincia la frazione, la camionetta dell’esercito blocca l’accesso, sul campo di lato una grande tenda sfondata dalla neve sembra l’emblema di una disfatta. «Bastava accendere qualcosa dentro per riscaldarlo», dice ancora l’uomo col cappellino, «invece è crollato».
La portalettere bionda del paese è già tornata dal giro. «Vado a Trisungo, Borgo e basta», dice, «molta posta la infilo nelle cassette di case disabitate come se consegnassi ai fantasmi, altri hanno fatto il servizio. Seguimi, vengono a prenderla qui». Anche lei come molti altri si è trasferita in un paese sulla costa.
IL BLU BAR che sta sotto il paese lungo la Salaria si è spostato in un altro container, vicino all’edificio lesionato, hanno riaperto il 28 dicembre ed è l’unica attività economica operante, insieme a due aziende agricole della zona. Le due colonne laterali hanno ceduto, anche se era stato costruito con criteri antisismici. Emily Chiesa, la ragazza che serve al banco, allegra e sorridente, è arrivata qui dal Piemonte per raggiungere il suo ragazzo, da Arquata Scrivi ad Arquata del Tronto: «mi sono trasferita per amore, forse però non ho scelto il posto migliore», ironizza. «Dovrebbero cominciare a urbanizzare la zona di Pescara del Tronto», racconta senza enfasi, «ma è tutto fermo, la gente è arrabbiata». Fuori i mucchi di neve sul piazzale, e lì vicino il distributore di benzina disabitato, circondato da automobili posteggiate contro i cumuli.
«Il problema della neve non è la neve», rivela Emily, «solo hanno lasciato la Salaria bloccata per due giorni». Angelo, l’altro barista, un uomo magro dai capelli brizzolati, che sta armeggiando davanti alla Gaggia, ha dormito qui dentro due notti per portare soccorso ai camionisti rimasti bloccati dalla bufera, una quindicina tra italiani e stranieri. Un autotrasportatore di Cascia con la cisterna carica di latte si è fermato anche lui a dormire con il sacco a pelo nel bar, gli altri si sono riparati nelle cuccette dei tir.
«Sono rimasti qui da martedì a giovedì, quelli dei soccorsi non sono stati capaci di toglierla», mi conferma, «dicono si siano rotti gli spazzaneve, un mezzo turbina è rimasto fermo sulla carreggiata», sostiene scettico, con l’aria di uno che non ci crede. «Hanno mangiato, bevuto, poi si sono dati da fare per togliere la neve sul tetto, e mercoledì sera siamo andati a salvare un vecchietto di 80 anni che viveva dentro una roulotte». Dice divertito che due di loro trasportavano nei rimorchi plottò con uova fresche, che hanno usato per preparare da mangiare. «Frittate e carbonara, ne abbiamo fatte fuori più di cento in due giorni», dice ancora ridendo, «è stata un’avventura».
L’IMPIEGATO DELLE POSTE Andrea Paci, il compagno di Emily, racconta cosa significa vivere con il terremoto dentro, bombardati da 50000 scosse in cinque mesi. «Il boato del 24 agosto è indimenticabile, non riuscivo a uscire di casa, perché le scosse non avevano un verso, tremava tutto». Dice che ormai «tu vivi, e aspetti il terremoto, ti metti a letto e aspetti che la terra tremi». Racconta commosso che ci sono bambini che si scuotono agitati nel cuore della notte, si svegliano e non dormono più, altri hanno avuto crisi epilettiche. «Cinquantamila scosse, una ogni 4 minuti. Trema, trema, trema», continua a dire angosciato, «il boato è proprio inquietante, non lo dimentico più».
Di fronte alla vetrata ci sono tecnici e ingegneri che discutono con fare complice di un’opera che dovrebbe partire perché già stata finanziata, le carte spiegate sopra i tre tavolini verdi rotondi, un tratto che dovrebbe collegare Trisungo e Favalanciata, due chilometri di galleria e ancora cemento. Un progetto dell’Anas da 116 milioni di euro, per eliminare 4 curve e in una zona ridotta allo stremo verranno spesi 50 milioni a chilometro. Di questa cosa mi aveva parlato prima a Borgo Enzo Rendina, l’ultimo abitante di Pescara del Tronto e memoria vivente del terremoto, che avevo rivisto fuori dall’ufficio postale, barba lunga sbiancata e cappellino scuro in testa, uno zainetto con dentro tutta la scatola nera dei suoi documenti. «È un lotto di cui non abbiamo bisogno, serve solo a cementificare nell’unico tratto decente, mentre da Favalanciata ad Acquasanta è quello della Salaria più critico per caduta massi ed esondazioni del fiume». Quando lo incontri è un racconto ininterrotto, comincia a dirti polemico che «da settembre a dicembre gli amministratori hanno fatto melina», che «i tempi dei terremoti sono sempre molti lunghi, e poi che “siamo nell’Italia di oggi». È un Pharmakos, un capro espiatorio, alcuni sostengono che è matto mentre lui dice la verità, fa congetture e collegamenti. «La protesta l’ho iniziata ad agosto, mi ricordavano il tintinnio delle manette», ripete beffardo, «ma non sono riusciti a mandarmi via, le scosse le ho vissute tutte qui».
Mentre sto per andarmene dal Blu bar, entra Florindo Petrucci, il vecchietto che è stato portato in salvo dal barista. Ha gli occhi svegli, lo sguardo buono di uno mansueto e si muove con lentezza, il volto rugoso e la barba incolta di qualche giorno. Abitava da solo dentro la sua roulotte, fuori i conigli, i gatti e le dieci pecore che viene qui ad accudire tutti i giorni raggiungendo Arquata da Porto d’Ascoli con la corriera, tornando in albergo malinconico la sera. «Per la tanta neve ha ceduto il montante della porta, col telefonino ho chiamato il barista e sono venuti a prendermi», dice sorridente dello scampato pericolo.
ANDANDO VERSO AMATRICE, superati i container rossi di Pescara del Tronto, un paese intero rovinato sulla Salaria, dalla parte sinistra della strada, dove corre il fiume Tronto, sono scesi i cinghiali, ne vedo un branco mentre si sposta nella neve, le teste grosse e tozze, i baffi temerari, sgambettano veloci lasciando tracce sul manto nevoso, mentre le poche auto corrono nelle due direzioni di marcia.
Già a Grisciano, poco dopo il confine tra le Marche e il Lazio, dalla strada il borgo appare con le sue mutilazioni, i tetti obliqui si sono sciolti sulle case come frange di capelli cadute sugli occhi, i tramezzi a vista, scomparsa la facciata, mostrano gli arredi interni violati all’intimità della vita segreta: un tavolo al centro della stanza, la sagoma di un frigorifero, un letto appoggiato contro la parete. Davanti a una casa lesionata dove sono fermi due vigili del fuoco, la carcassa di un’utilitaria schiacciata dalle macerie, le lamiere fracassate, vicino a un camion un presepe allestito su due sedie di plastica, la madonna e il bambinello in quella bianca di destra, un angelo in preghiera in quella scura dalla parte opposta.
LA STRADA CHE DA SALETTA va verso Amatrice è deserta, costeggiata da accumuli di neve, che è più alta ai lati della carreggiata, più fitta, ha coperto i boschi, avvolge e stringe, si vedono tratti di asfalto ghiacciato. Raramente incontri mezzi dell’esercito, i Lince in fila che scendono o salgono dorsali, auto della Protezione civile o mezzi dei Vigili del fuoco che transitano a bassa velocità. Nella frazione di Cossito la stessa aria di desolazione, un luogo spopolato con le case crollate, sventrate coi tetti in verticale tra le rovine di pietre, ferri arrugginiti e neve nera addensata. A SS Lorenzo e Flaviano le macerie sono state cancellate dalla coltre spessa, ed è come se il suo candore ne esaltasse l’immobile tragicità, una casa sgretolata su se stessa, e vicino un’altra inclinata nel suo equilibrio instabile, gli infissi saltati, porte e finestre divelte. Sembra di attraversare luoghi dove s’è scatenato l’inferno, in un paesaggio di rovine dove abitano le poche anime rimaste qui dentro le case che sembrano spettri quando li vedi sulla soglia dei cancelli, sento echi di cani rabbiosi che abbaiano contro il nulla, e in alto la struggente bellezza dei Monti della Laga a ricordarci la natura potente e malvagia, la sua forza selvaggia, creativa e distruttrice. I prati bianchi diventano abbaglianti e rischiarano un panorama che il tramonto rende ancora più misterioso e fiabesco, con le silhouette degli alberi spogli e le lucine nelle case sperse. Ancora in alto, sotto la montagna, scorgo l’ultimo sobborgo abbandonato prima di scendere, le case strette una vicino all’altra – come a darsi sostegno e conforto – sembrano cose vive, quella spogliata della facciata appare disarmata e nuda, come se l’avessero improvvisamente svestita, in una stanza a cielo aperto solo una sedia impagliata riposa quieta in un angolo.
Arrivo ad Amatrice al tramonto, sulla strada in discesa che porta al paese l’edificio monumentale del ricovero “Padre Minnozzi”, l’unico che ha resistito alla furia tellurica, più avanti si sta ancora lavorando nella zona attrezzata dove hanno sistemato le casette, un caos di cavi elettrici, rumori di trapani, tonfi e martelli che battono, uomini in movimento tra i prefabbricati.
ALLA FINE DELLA STRADA le auto della polizia e dei vigili urbani di Roma capitale sbarrano il passo, oltre le auto il corso del paese che non c’è più, le rovine di un borgo fantasma violentato dalle scosse.
Al bar Rinascimento non si riesce a entrare, stretti ci si muove a fatica tra l’ingresso e il bancone, la ragazza corpulenta dai capelli ricciuti vestita di nero sta mescendo grappe, caffè e the caldi. Il locale ha resistito alle scosse, e l’hanno aperto un mese dopo il primo terremoto. In fondo alcuni uomini anziani stanno conversando, dalla finestra si scorgono nella semioscurità gli eleganti Monti della Laga imbiancati, il Pizzo di Sevo, la Cima Lepri e il monte Gorzano verso L’Aquila, sotto ancora il Vettore, da dove si è scatenato tutto. Dietro il bancone, uno scaffale con le bottiglie allineate strette da un filo verde tenuto all’estremità da due piccoli arpioni: amaro Lucano, sambuca Molinari, Borghetti, punch al mandarino, e naturalmente l’autoctono mistrà Varnelli. Alle mie spalle il quadro con la foto incorniciata del paese. Quando ancora c’era.
Fonte: Il manifesto
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