di Guglielmo Ragozzino
Entrato in carica il 20 gennaio, il presidente degli Stati uniti non ha perso tempo. Nei primi giorni ha fatto tra l’altro due scelte significative nell’intento di rovesciare la politica ambientale del suo predecessore (Executive Order, 24 gennaio). Egli ritiene da sempre che le scelte di Barack Obama siano tutte sbagliate; dunque cerca di porvi subito rimedio per quanto gli è possibile. Alcuni si chiedono come faccia a riconoscere con tanta sicurezza gli sbagli, ma la risposta è che lo sa e basta; ormai si è stufato di ripetere che Obama è stato un falso presidente, nato chissà dove.
Il circolo ristretto degli assistenti presidenziali, interloquendo con sussiego e fastidio, attribuisce gli errori cruciali di Obama allo scarso coraggio e alla sostanziale debolezza nei confronti del radicalscicchismo che per otto lunghi anni ha detenuto il potere effettivo a Washington, imponendo scelte perdenti in politica estera ed economica, avvilendo le classi medie, bruciando i posti di lavoro.
Il circolo ristretto degli assistenti presidenziali, interloquendo con sussiego e fastidio, attribuisce gli errori cruciali di Obama allo scarso coraggio e alla sostanziale debolezza nei confronti del radicalscicchismo che per otto lunghi anni ha detenuto il potere effettivo a Washington, imponendo scelte perdenti in politica estera ed economica, avvilendo le classi medie, bruciando i posti di lavoro.
Le due scelte ambientali sono tra le più importanti dell’esordio: una è il blocco totale e preventivo dell’attività dell’Epa (Environmental Protection Agency) ente ambientale, ancor prima che il direttore prescelto, Scott Pruitt, ottenga l’approvazione del Senato. Tutto ciò senza nascondere, anzi mettendo in solare evidenza (o addirittura vantando) che Pruitt è scelto perché non crede nel cambiamento climatico e soprattutto esclude che nella catena di eventi meteorologici vi sia una responsabilità umana, che è poi proprio la convinzione che ha spinto gli scienziati radical chic a inventare l’era geologica dell’antropocene. L’origine della scelta del nuovo responsabile è dunque determinata anche – o soprattutto – da tali convinzioni. Pruitt, arrivato al dibattito sulla sua conferma al Senato, modera i toni: il suo credo precedente era forse eccessivo anche per i più convinti e talebani tra gli aderenti al tea party. Pensa di cavarsela assicurando i senatori della sua sollecita attenzione alla pericolosa crescita eventuale dell’anidride carbonica, ma senza esporsi troppo, senza offrire occasioni di critiche, rispondendo sul cambiamento climatico e sull’eventuale responsabilità umana, se non quella di ammettere blandamente di ritenere un po’ eccessive le ripetute negazioni di Donald Trump in merito. La linea di difesa prescelta, in Senato, è quella di dichiarare la propria attenzione in proposito, non escludere nulla, di mantenersi in attesa di ulteriori discussioni, informazioni e conferme. E’ probabile che il futuro zar dell’ambiente scelto da Trump per quel ruolo decisivo dell’Epa, fosse convinto di aver superato così le difficoltà; tanto più che il molto temuto senatore del Vermont, Bernie Sanders, non era presente. In una fase successiva dell’audizione, però, Sanders arriva. Pruitt, per mantenere il tono dimesso che gli hanno probabilmente consigliato di assumere, afferma di nuovo che la sua personale opinione in merito al cambiamento climatico è, tutto considerato, “irrilevante”; e Sanders reagisce: “Davvero? Lei sta per diventare capo dell’agenzia di protezione ambientale e dichiara irrilevante il suo personale convincimento se il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane e dalle emissioni fossili?”. Il colpo finale di Sanders è di chiedere a Pruitt che attualmente è attorney general dell’Oklahoma se gli risulti un collegamento tra l’alto numero di terremoti verificatisi e l’uso smodato del fracking petrolifero nel suo stato. Alla risposta “ammetto di essere turbato”, Sanders lo incalza: turbato e basta? come ovvio, lei non avrà il mio voto. (in appendice lo scambio tra Pruitt e Sanders).
Se nella discussione sull’Epa, Trump sta dietro le quinte, limitandosi a ordinare all’Epa di non muovere un dito prima che il suo prescelto Pruitt entri in carica, il suo ruolo è di primo piano a proposito dei pipeline.
Trump dichiara subito di voler sveltire l’insieme “incredibilmente ingombrante” dei permessi federali e della revisione ambientale delle infrastrutture come ponti e strade. Di conseguenza promulga il suo ordine esecutivo in tema ambientale. Nel 2015 Obama ha bloccato la costruzione di due pipeline avversati dagli ambientalisti e dal popolo Sioux in lotta per difendere il territorio, l’acqua e il luoghi della tradizione religiosa che i pipeline mettevano a rischio. Tutte sciocchezze, per la destra americana compatta.
Il completamento della rete di pipeline (meglio parlare del loro attuale incremento: mai mettere limiti alle fortune avvenire del petrolio, consiglierebbe un alto dignitario dell’Opec) risponde a due esigenze. Concorrere in modo sostanziale al processo d’indipendenza nazionale dell’energia ben presente nel pensiero trumpiano ed ereditato da molte amministrazioni precedenti, sia repubblicane che democratiche. Si tratta ovviamente, con forza rinnovata, di un trionfo dell’energia fossile, lasciando cadere le assurde fisime ambientaliste e la forsennata rincorsa alle rinnovabili. Rimettere al lavoro migliaia e migliaia di operai, cominciando da quelli espulsi dai lavori pubblici, americani al cento per cento, gli operai d’acciaio delle condutture, per trasportare attraverso il continente petrolio e gas. Trump flirta qui con un aggressivo sindacato dei lavoratori delle costruzioni: LiUNA (Laborers’ International Union of North America), forte, stando al suo messaggio pubblicitario di mezzo milione, di iscritti.
La costruzione di Keystone XL e di Dakota Access, due oleodotti da migliaia di chilometri, (tremila l’uno, tremila l’altro) il primo per rifornire di petrolio canadese le raffinerie e i depositi del sud degli Stati uniti, l’altro per mettere in circolo il petrolio e il gas del bacino di Bakken in North Dakota. Bakken è un gigantesco territorio ricchissimo di fossili e molto conosciuto per la pratica del fracking,. Entraambi offrono secondo Trump l’opportunità di costruire negli Usa la tubazione necessaria, con acciaio americano, valvolame americano, centri di pompaggio americani, operai americani. A lavorare, a detta di Trump, sarebbero 28 mila, 28 operai siderurgici americani per costruire l’acciaio della condotta Keystone XL, cui si sommerebbero quelli del Dakota Access. Per inciso si può notare che XL (che significa Export Limited) distingue l’oleodotto in questione da un altro Keystone, già in funzione, che ha lo stesso inizio e la stessa conclusione, ma fa una grande curva che invece XL non fa, tirando diritto, da nord a sud, con buona pace del popolo Sioux. Dakota Access invece va da Ovest a est, incrocia XL a….ed è tutto da costruire. Le schede di wikipedia ci informano che a cose fatte l’occupazione stabile sarà di poche persone in ogni stato attraversato, data l’alta automazione del flusso di petrolio e gas. (e naturalmente saranno necessarie molte guardie all’impianto, per evitare che venga attaccato da nativi o da feroci ambientalisti)
Per due anni la siderurgia americana avrebbe dunque commesse e profitti. E dopo? Facile capire che dopo si potrebbero aggiungere altre pipeline e altra siderurgia. L’intreccio delle condutture grandi e piccole del gas e del petrolio nel centro e nel sud est degli Usa, dal North Dakota al Texas soprattutto, è una ragnatela fitta e molto forte. Difficile dire cosa possa avvenire dopo dopo, non tanto quando i petroli del Canada e di Bakken saranno esauriti, ma quando non ci saranno più pipeline da costruire, avendo raggiunto il massimo ingorgo possibile. Gli operai siderurgici organizzati dal sindacato LiUNA si dovranno riadattare alle difficoltà di lavoro precedenti. In questa linea di condotta le riconversioni del lavoro in direzione delle maledette rinnovabili si ridurranno a poco. Le scelte dell’amministrazione americana per la continuità energetica fossile avrà effetti esiziali sulla scelta degli altri duecento paesi che con americani e cinesi hanno discusso, approvato, sottoscritto e messo in opera le decisioni comuni e gli impegni di ciascun paese assunti nel summit di Parigi, nel novembre del 2015.
La scelta come segretario di stato di Rex Tillerson indica il resto del processo energetico trumpiano. ,Tillerson è più petroliere del primo degli sceicchi. Si tratta di un ingegnere edile conquistato, ancor fresco di laurea, dalle sirene dell’ExxonMobil (allora Esso), Tillerson ha fatto tutta la sua carriera, da giovane ingegnere a capo assoluto dentro ExxonMobil. Dopo Parigi, manda la sua benigna approvazione a quel tentativo di studiare energie alternative e sistemi di risparmio energetico, in un quadro di continuità fossile che ha da durare almeno per i prossimi sessanta anni. Dopo si vedrà; qualcun altro vedrà. Trump lo scrittura come una persona affidabile. Massimo tra i petrolieri, capace di guardarsi intorno, abile nel trattare con arabi e con russi. E’ una vita che non fa altro. Così gli Stati uniti di Trump non solo possono tirarsi indietro dalle insensatezze di Obama, anzi invertono addirittura la marcia, mostrando di non credere più che tanto alle illusioni di Parigi. Essi avvertono il mondo che, tutto considerato, è duro e saggio e non si ferma a sognare, di una constatazione precisa. Le decisioni prese per così dire da tutti i paesi per il futuro, sono in realtà scelte cinesi, indispensabili per ridurre l’eccesso di carbone utilizzato nelle loro produzioni industriali. La Cina, officina del mondo, in poche parole inquina troppo, agli occhi – e ai polmoni – dei cinesi. Detto altrimenti, le scelte del cop21 di Parigi sono determinate dalla politica interna sociale cinese. Troppo poco, avverte, cinguettando, il presidente americano, per cambiare la storia del mondo.
Fonte: Il manifesto
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