di Francesco Benigno
Il 22 aprile 1937, Madrid è stretta d’assedio dalle truppe ribelli del generale Mola. Francisco Franco aveva del resto proclamato: «preferisco distruggerla che lasciarla in mano ai marxisti». Poco prima dell’alba, il centro della città è squassato da colpi di artiglieria violenti e ripetuti. All’hotel Florida, investito da due granate, è tutto uno spalancarsi di porte. John Dos Passos, in accappatoio scozzese e a piedi scalzi, si affaccia alla porta e scruta il corridoio col suo sguardo miope, poi si ritira in camera. Claud Cockburn, giornalista comunista britannico, bianco come il marmo, si aggira davanti alla sua stanza con in mano una caffettiera. Antoine de Saint-Exupéry, in vestaglia di seta azzurra, fermo in fondo alle scale, offre graziosamente dei pompelmi alle signore svegliate di soprassalto.
Tra esse Martha Gellhorn, la nuova compagna di Ernest Hemingway, i capelli biondi arruffati e lo sguardo stravolto, si aggira col cappotto indossato sul pigiama mentre lui, Hemingway, si dirige deciso all’uscita, vestito di tutto punto, per andare a girare un documentario a Fuentidueña, vicino Segovia.
Tra esse Martha Gellhorn, la nuova compagna di Ernest Hemingway, i capelli biondi arruffati e lo sguardo stravolto, si aggira col cappotto indossato sul pigiama mentre lui, Hemingway, si dirige deciso all’uscita, vestito di tutto punto, per andare a girare un documentario a Fuentidueña, vicino Segovia.
Capita talvolta, in momenti straordinari, che un’umanità eccezionale si ritrovi accomunata dalla sorte e sorprendentemente raccolta in uno stesso luogo. Giornalisti, fotografi, scrittori – ma anche spie, piloti, diplomatici e prostitute – si ritroveranno a convivere negli anni della guerra civile in questo hotel, un tempo albergo di lusso, posizionato in una zona di moda, la Gran Vía, di fronte ai moderni cinematografi di Plaza de Callao e vicinissimo al palazzo della Telefónica: sicché «in quegli anni all’Hotel Florida imparavi tante cose quante a girare il mondo intero». Opportunamente perciò Amanda Vaill, affermata scrittrice statunitense, ne fa il palcoscenico di un avvincente non-fiction novel, in altri termini un racconto veridico, non romanzato ma basato su fonti documentarie: Hotel Florida Amore e guerra a Madrid (Einaudi, traduzione di Federica Oddera, pp. XII-484, euro 20,00).
Fra le tante figure che circolavano a Madrid in quel frangente (e che vanno dal famigerato agente stalinista Vittorio Vidali all’attore Errol Flynn, dalla giornalista americana Virginia Cowles, reporter di guerra per i giornali della catena Hearst, al giovane romanziere inglese Arthur Blair, che scriveva con lo pseudonimo di George Orwell) l’autrice sceglie di seguire le vicende di sei personaggi, tre uomini e tre donne e anzi, più precisamente, tre coppie di amanti: Hemingway e Gellhorn, il grande fotografo Robert Capa e la sua sfortunata collaboratrice e compagna Gerda Taro, e infine di Arturo Barea, il responsabile della propaganda repubblicana e Ilsa Kulcsar, giovane comunista austriaca di cultura cosmopolita.
La ragione di questa scelta non viene dichiarata esplicitamente da Vaill ma è facile da cogliere. La presenza di Hemingway e Gellhorn è ben documentata e il grande scrittore americano, tornato in Spagna vent’anni dopo Fiesta, oltre a scrivere dei reportages, collaborerà a Earth od Spain, il film del regista olandese Joris Ivens. Di Robert Capa sono state recentemente rinvenuti nella celebre mexican suitcase e restaurati, vari rullini di foto inedite della sua esperienza di corrispondente di guerra in Spagna. Arturo Barea, infine, è l’autore di una importante e dettagliata autobiografia, The forging of a rebel, che costituisce una delle fonti principali del lavoro di Vaill.
Le storie intrecciate di queste coppie, tutt’e tre in diverso modo impegnate a illustrare al pubblico le drammatiche vicende in atto, hanno al centro proprio il tema delle condizioni e dei limiti del racconto di verità. La guerra civile spagnola, che Claud Cockburn definirà «l’avvenimento decisivo del ventesimo secolo», e che – per il gioco di ideologie contrapposte e di interessi politici internazionali, costituiva una sorta di «piccola guerra mondiale» – è stata molto raccontata. E tuttavia qui è messa in evidenza la dimensione problematica di ogni rappresentazione dell’accaduto.
La più famosa foto di Robert Capa, quella del miliziano morente nasce, ad esempio, dal tentativo di Capa e di Taro di mostrare i miliziani in azione chiedendo a un gruppo di combattenti, a Espejo, in Murcia, di far finta di cadere uccisi. Uno di loro, in camicia bianca, sarà però colpito davvero da un cecchino e quella famosa istantanea, pubblicata su Life, diverrà il simbolo della guerra civile.
Come spiegherà Capa in seguito «uno scatto diventa straordinario grazie all’immaginazione dei direttori di giornali e del pubblico». Un altro esempio: Martha Gellhorn, prima di giungere in Spagna aveva scritto su The Spectator il racconto del linciaggio di un uomo di colore, Justice at night, molto apprezzato e pubblicamente lodato perfino da Eleanor Roosvelt. Era un racconto verosimile e tuttavia inventato, come la stessa Gellhorn sarà poi costretta ad ammettere una volta convocata da una commissione del Senato statunitense in vista di una legge contro il linciaggio.
Arturo Barea, infine, come responsabile della propaganda repubblicana, si ritroverà a riflettere a fondo sul raccontare o meno la verità dei fatti bellici e, in sostanza, su cosa significhi davvero fare informazione, chiedendosi se tacere i fatti non sia uno sbaglio. Di fronte alla caduta di Bilbao, ad esempio, egli osserverà che «il silenzio ci danneggerà più della sconfitta».
Nel tentativo di spiegare al pubblico l’accaduto, otterrà perciò di condurre una trasmissione radiofonica serale, intitolata La voz incognita dove dava conto dei fatti successi nella giornata. Presto si ritroverà tuttavia in gravi difficoltà politiche, specie mano a mano che nel fronte repubblicano si farà drammaticamente strada la soluzione centralizzatrice filo-stalinista, con la conseguente eliminazione fisica delle altre componenti repubblicane, trozkiste e anarchiche soprattutto.
Come aveva detto un dirigente stalinista a Dos Passos, indicando un gruppo di anarchici intenti a pescare: «abbiamo fatto pulizia dei fascisti e dei preti, adesso dobbiamo eliminare i perditempo». E anche qui il tema della rappresentazione si rivela cruciale: nel quadro della repressione del Poum, il partito socialista catalano, l’eliminazione fisica di Andrés Nin, il suo leader, sarà condita da una macabra messa in scena che puntava ad accreditare una sua finta liberazione. Anche Barea e Kulcsar verranno poi arrestati dal Sim, il servizio di informazione militare creato sul modello del sovietico Nkvd, organizzato e finanziato da Mosca.
Hemingway aveva a suo tempo detto che «è molto pericoloso dire la verità in guerra» ma Barea non la pensava come lui, aveva capito che il pericolo stava anche altrove. Quando poi nel 1940 verrà pubblicato Per chi suona la campana, il più famoso romanzo basato sugli eventi spagnoli, Barea scriverà che Hemingway, avendo poco in comune con gli spagnoli, li aveva immaginati: «stare a guardare non basta a far emergere la verità da ciò che si scrive, bisogna viverla, e sentire fino in fondo quel che si sta vivendo». L’articolo era intitolato, significativamente «Not Spain, but Hemingway».
Barea, pensava che la verità consistesse nella trasparenza, nello stare attaccati ai fatti, non dissimilmente da Capa, che aveva spiegato a Gerda Taro : «se le tue foto non sono buone significa che non sei abbastanza vicina». Taro morirà tragicamente nel luglio del 1937 travolta da un carro armato, forse per tenere fede a quell’impegno di testimonianza. Così alla fine questo non-fiction novel è esso stesso una meditazione sul significato civile del racconto in un tempo estremo, quello della guerra, e sul nebuloso e talora elusivo confine tra verità e menzogna.
Fonte: Il manifesto
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