di Raniero La Valle
L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre, mostrando un’intelligenza politica popolare tutt’altro che spenta, ci consegna una responsabilità che non possiamo ridurre a proposte di corto respiro; occorre invece affrontare come prioritari i nodi che oggi bloccano la politica e strozzano lo sviluppo stesso della civiltà in tutto il mondo. Fare politica vuol dire precisamente rimuovere queste strozzature. Io vedo tre questioni prioritarie, tre “forze frenanti” su cui dovrebbero misurarsi il pensiero e l’iniziativa culturale, politica e religiosa per consentire la ripresa di un cammino di civiltà, che per ora sembra bloccato o addirittura in ripiegamento rispetto alle conquiste del ‘900; e non solo per Trump.
Il mondo è di tutti
Il primo blocco consiste nella mancata risposta di civiltà al fenomeno della migrazione di massa. Ma non si tratta di un fenomeno, cioè di un evento, si tratta piuttosto di un nuovo mondo, il mondo globalizzato, che è stato pensato come un mondo di residenti, e risponde presentandosi invece come un mondo di migranti; era un mondo di stabilità la cui qualità era la durata – il tempo indeterminato – e si ritrova costruito come un mondo di precarietà, la cui qualità è vivere nell’imprevedibile.
Per integrare in un cammino di civiltà tale mondo nuovo è necessario che si riprenda il processo dell’imputazione dei diritti fondamentali a tutti gli uomini come diritti universali e permanenti e se ne preveda l’effettività per tutti gli abitanti del pianeta. È dalla conquista dell’America, cioè dal primo apparire di un “nuovo mondo” che tale cantiere si è aperto.
Aveva scritto Francisco de Vitoria in una sua “relectio de Indis” che “all’inizio del mondo, quando tutto era comune era lecito a ognuno trasferirsi e muoversi in qualunque regione volesse; ora non pare che la divisione dei territori abbia annullato questo diritto, dal momento che l’intenzione dei popoli non è mai stata di abolire, con quella divisione, la comunicazione reciproca fra gli uomini. Non sarebbe lecito ai francesi proibire agli spagnoli di muoversi in Francia o anche di vivervi, né viceversa, purché questo non rechi loro danno e tanto meno faccia loro torto”, e questo perché “totus orbis aliquo modo est una respublica”, tutto il mondo in qualche modo è una repubblica.
La condizione è di non recarsi danno a vicenda. Ma la costruzione di questo edificio è ancora tutta da fare. Il principio è stato enunciato con la massima chiarezza nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”; e oltre che nelle Carte e nelle Costituzioni, il principio dell’eguaglianza universale è stato espresso con la massima efficacia nell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, e sembrò allora ricevere il generale consenso: “non ci sono esseri umani superiori per natura ed esseri umani inferiori per natura, ma tutti gli esseri umani sono eguali per dignità naturale. Di conseguenza non ci sono neppure comunità politiche superiori per natura e comunità politiche inferiori per natura: tutte le comunità politiche sono uguali per dignità naturale” (Pacem in terris n.50). Ciò è affermato come una verità, non solo come una decisione etica positiva.
Questo principio comportava che quanto al godimento dei diritti umani fondamentali, oltre alle discriminazioni già escluse (razza, sesso, religione, ecc.), non potesse ammettersi quella relativa alla cittadinanza. E per quanto attiene al diritto di mobilità e di immigrazione, la cosa era detta così: “ogni essere umano ha la libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana, e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale” (Pacem in terris n. 12).
Questo è il criterio con cui dovrebbe essere affrontata la crisi delle migrazioni, la crisi più grave – come è stato detto – dalla fine della seconda guerra mondiale; ed è anche il criterio in base a cui il mondo nuovo sarebbe assunto nel processo della civiltà; ma sarebbe anche il criterio in base al quale nulla potrebbe restare com’è, e profondi cambiamenti dovrebbero essere introdotti nelle mentalità, nel costume, negli ordinamenti, nella politica, nell’economia e nella finanza.
Per questo è molto difficile fare questa scelta e anche nelle società pur pervase da sentimenti umanitari, o che si danno da fare per salvare o accogliere un certo numero di profughi e di stranieri, nessuno fa appello a questo criterio. L’unico a dirlo è papa Francesco che, costante nel suo appello ad accogliere i profughi, nel messaggio per la giornata del migrante 2017 ha ancora una volta ripetuto che “le migrazioni oggi non sono un fenomeno limitato ad alcune aree del pianeta, ma toccano tutti i continenti e vanno sempre più assumendo le dimensioni di una drammatica questione mondiale.
Non si tratta solo di persone in cerca di un lavoro dignitoso o di migliori condizioni di vita, ma anche di uomini e donne, anziani e bambini che sono costretti ad abbandonare le loro case con la speranza di salvarsi e di trovare altrove pace e sicurezza. Sono in primo luogo i minori a pagare i costi gravosi dell’emigrazione, provocata quasi sempre dalla violenza, dalla miseria e dalle condizioni ambientali, fattori ai quali si associa anche la globalizzazione nei suoi aspetti negativi”. E nella Laudato sì egli aveva sottolineato come i cambiamenti climatici intacchino le risorse produttive dei più poveri, i quali “si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli.
È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa”: così il papa. E in Italia il solo che incessantemente sostiene che bisogna accogliere tutti gli immigrati e poi anche dar loro il diritto di voto è il Centro per la pace di Viterbo. Per il resto, l’apertura delle frontiere, dei porti, degli aeroporti, dei valichi agli immigranti, la loro integrazione, il riconoscimento anche a loro dei diritti politici è oggetto di esorcismo, è il tabù che non si può violare; e l’Europa, che doveva essere il luogo dove la storia si compie di contro ai “popoli senza storia”, muore. Anche Hegel è fallito.
Affrontare questo tema nelle sue diverse implicazioni – a cominciare da una nuova considerazione nella Costituzione Italiana del cosiddetto diritto di asilo, che era stato concepito come un caso di eccezione in una situazione del tutto diversa – dovrebbe essere il primo cimento di una nuova responsabilità politica. Altrimenti non ci sarà l’ostacolo della Costituzione a impedire l’iniquità, annunciata dal ministro Minniti, di respingere e cacciare dalI’Italia il 90 (!) per cento dei profughi considerandoli immigrati “irregolari”.
Insieme a ciò, dovrebbe essere posto come priorità di un programma politico il disegno di portare tutti i Paesi dell’ Unione a una rinegoziazione dei Trattati europei, così che dall’Europa non sia scartato nessuno. Il fatto che nemmeno si metta in conto come ipotesi, neanche a sinistra, di intraprendere questa strada, fa sì che le opinioni pubbliche siano politicamente e culturalmente condizionate a difendere l’esistente e a chiudere le porte ed i varchi agli “estranei”, e apre un’autostrada alle proposte politiche dei predicatori dell’egoismo e del primato della Nazione (“prima di tutto l’America”, ” prima gli italiani” o i francesi o gli inglesi) alla Trump, alla Salvini, alla Le Pen, alla May.
È vero che dopo la “Brexit”, l’elezione di Trump e la ripresa dei protezionismi, la globalizzazione, fallita nelle sue promesse, è oggi rimessa in discussione, ma non è affatto detto che ciò porti a rallentare i flussi migratori; anzi c’è addirittura chi prevede 250 milioni di migranti e profughi a metà di questo secolo.
La violenza religiosa
Il secondo blocco che intercetta e ipoteca lo sviluppo storico è il ritorno in forme incontrollate e cruente della violenza religiosa, che scaturisce non più come in passato da matrici cristiane, ma da matrici islamiche. È evidente che una violenza che viene da soggetti e gruppi di cultura o anche di fede islamica non è violenza dell’Islam, ed è noto che nel suo complesso la “Umma” (comunità) musulmana, sconfessa e condanna la violenza estremista, per cui in nessun modo si può interpretare la guerra stragista in atto come una guerra religiosa, e tanto meno come una guerra tra Islam e Occidente, anche se proprio questo era stato lo scenario su cui in Italia e nella NATO nel 1991 era stato impostato il nuovo “Modello di Difesa”, dopo il venir meno del nemico sovietico.
E se c’è una cosa che ancora oggi impedisce alla lotta per la supremazia nel Medio Oriente e alla lotta contro il terrorismo di degenerare in guerra di religione, non è certo la cultura dell’Occidente ma è il fermo rifiuto di papa Francesco di un coinvolgimento della Chiesa e delle religioni in una simile guerra.
Tuttavia non c’è dubbio che lo scontro con lo Stato Islamico e col terrorismo si nutre, sia in un campo che nell’altro, di motivazioni religiose, sincere o strumentali che siano. Ciò comporta che la questione religiosa non possa essere messa tra parentesi o semplicemente ignorata, ma debba essere assunta nella gestione e soluzione anche politica della crisi, se si vuole affrontare quello che veramente sta accadendo e non una sua falsa o monca rappresentazione.
Perciò la questione religiosa, e segnatamente quella del rapporto tra le grandi religioni monoteiste, Islam, ebraismo e cristianesimo, va affrontata non come estranea al conflitto e alla crisi geopolitica in atto, ma come fattore rilevante se non determinante di essa. Per poterlo fare occorre però riconoscere che il conflitto non è tra le tre religioni e le tre culture come tali, ma è tra le degenerazioni di queste tre religioni, cioè, mondanamente, è un conflitto tra un radicalismo islamico, il sionismo e l’ideologia della cristianità occidentale, intesa come cristianesimo ridotto a potere politico sacrale in Occidente.
Si tratta di tre forme storiche di queste tradizioni, che sono filiazioni o deformazioni di quella che è la loro autenticità religiosa originaria. E allora se vogliamo venirne fuori occorre sciogliere questi nodi, superare i conflitti tra queste tre ideologie, e bisogna che ciascuna religione in qualche modo converta se stessa. Il cristianesimo ha cominciato a farlo, papa Francesco è l’esempio di questo superamento dell’idea di un cristianesimo come sovranità, come cristianità, cioè come civiltà, come potere. Però questo deve avvenire anche per le ideologie tratte dalle altre due religioni, sia per il sionismo rispetto all’ebraismo, sia per l’islamismo estremista rispetto all’Islam.
Non basta la laicità
Qui però c’è un vuoto da colmare. Infatti la risposta, l’unica risposta che finora la modernità occidentale ha dato a questo problema e propone a tutto il mondo, è del tutto insufficiente, anzi addirittura sta altrove, rispetto al problema. L’unica risposta data finora è quella della secolarizzazione, che è il punto d’arrivo di quella pur feconda cultura della laicità messa in campo dalla modernità per impedire che il progresso storico venisse bloccato da una malposta ipoteca religiosa.
Sulla scia di questo vissuto lo schema su cui si muove l’Occidente suppone che da questa pseudo guerra di religione si esca con la laicizzazione, con la secolarizzazione, con la riduzione della religione a una dimensione privata. In tal modo si pensa che ogni religione possa in qualche modo essere messa in uno stato di estraneità, in condizione di non nuocere. Ma è anche una reazione conservatrice, che difende il potere com’è. Non si può infatti ignorare il movente religioso di molte obiezioni di coscienza al potere, e non si può reprimere o dissolvere, in nome della laicità, la potenza di rinnovamento e di resistenza all’iniquità che prorompe dal Vangelo.
Altrimenti sarebbe illegittimo l'”aggiornamento” dell’annuncio evangelico di papa Francesco, il suo far credito ai Movimenti Popolari, il suo appellarsi alla responsabilità politica non solo dei credenti, ma di tutti gli abitanti della terra.
Io penso che la soluzione non sia figurarsi un mondo senza religioni, perché le religioni non scompaiono, e perché appunto il conflitto non è fra le religioni, ma tra le ideologie che ne derivano. Invece il rimedio è che ciascuna di queste religioni ritrovi la propria autenticità e che quindi tutte vadano a monte del conflitto; e credo che oggi sia possibile, perché siamo in un momento in cui ciò di cui si sta discutendo non è tanto l’assetto, l’ideologia, o i dogmi di questa o quella religione, ma si sta scavando sull’ identità e l’ immagine di Dio, che è alla fonte di tutte le religioni.
E allora il vero problema è di quale Dio parliamo, di quale Dio parlano queste religioni quando parlano di Dio: è il Dio violento, il Dio della vendetta, il Dio del giudizio, il Dio che punisce, il Dio che nel giudizio finale distribuisce punizioni e meriti come farebbe un giudice umano, oppure è un altro Dio, il Dio della misericordia, dell’ accoglienza, del perdono, quello che “arriva primo nell’ amore”? Questa mi pare che sia la questione. Perché se l’Islam si rifà al Dio violento, al Dio con la spada, non si rifà al vero Dio dell’Islam: ci sono molti testi islamici, e c’è anche un documento di grandi saggi islamici rivolto nel settembre 2014 a Abū Bakr al-Baghdādī, il sedicente califfo, in cui si dice che anche Maometto ha preso la spada per una contingenza storica, ma non è quella l’ identità e il destino dell’Islam.
Qui da noi c’è questo papa che ha scoperto e proclamato un Dio nonviolento. Il documento che egli ha scritto per la giornata della pace 2017 fa della nonviolenza (che è stata un’ideologia nata in territori anche non cristiani come quelli gandhiani) l’identità stessa del cristianesimo. Allora il problema non è la secolarizzazione ma la conversione rispetto ai falsi dei, rispetto agli idoli, rispetto al Dio della guerra, rispetto al Dio della violenza, rispetto al Dio che legittima le sopraffazioni, le ingiustizie e i soprusi del potere: un Dio, dice Francesco, “che non esiste”. Questo a me pare sia il futuro: non la pace nonostante le religioni, ma la pace anche come primo anelito e potenza creativa delle religioni.
Di quale Dio si parla?
Si potrebbe obiettare che si tratta solo di un problema religioso, che riguarda unicamente i credenti. Non è così. Se le religioni sono le prime implicate in questo processo, la politica non vi è estranea e non può pensarsi fuori del conflitto. Non certo per una ricaduta nel giurisdizionalismo o addirittura in un giuseppinismo di vecchi tempi, o in altre forme di reciproca ingerenza e di sbandate clericali, ma perché il Dio sbagliato delle religioni ha profondamente influenzato, in passato e fino ad ora, le posizioni e le culture politiche.
Dopo la sua ascesa alla Casa Bianca ci si è interrogati su quale sia il Dio di Trump. E lo storico Alberto Melloni ha risposto che nel suo discorso di insediamento, Trump, distorcendo il salmo 133 che esalta l’unità dei fratelli in senso universalistico, l’ha attribuita agli americani intesi come “popolo di Dio”, presentando Dio come il garante di un privilegio americano, che farebbe dell’America un «”popolo eletto” portatore di una specie di teologia della singolarità globale».
Non si tratta affatto di una cosa nuova. Dicendo questo Trump interpreta perfettamente uno dei filoni in cui la “cristianità” (intesa come unità organica di istituzioni, popolo, civiltà e cristianesimo), si è articolata in Occidente. Come scrive Erich Przywara nel suo “L’idea d’Europa” nell’età costantiniana il cristianesimo invece di annunciarsi come la novità di un rapporto – di “uno scambio” attraverso la croce – tra Dio e l’uomo, si sviluppò in «una nuova “antica alleanza”», che ripeteva quella che era stata propria degli Ebrei, ma estesa a nuovi eletti: tale fu il Sacro Impero, tale fu poi la «nuova “comunità di eletti” fondata da Lutero che successivamente Calvino strutturò a Ginevra basandola su “eletti predestinati”».
Questa impostazione comportò l’idea di «una “terra razionale e divina” secondo legge e ordine» che «si diffuse con il puritanesimo, conquistando l’Inghilterra e il Nord America che, ancora oggi, sono formati interiormente da questa idea. Ne è scaturito il pensiero di una “terra razionale e divina anglosassone” che, secondo legge e ordine, ha portato e porta al modo di funzionare e ai risultati di un capitalismo fondato sul calvinismo».
Ma anche il marxismo, secondo Przywara, proviene dalla stessa matrice, rovesciandosi in risultati opposti: il materialismo dialettico «scaturisce essenzialmente dal profetismo rivoluzionario del primo ebraismo che (per quanto oggi non lo si voglia riconoscere) è il fuoco più intimo della riflessione di Marx. Ma scaturisce ugualmente dallo gnosticismo rivoluzionario russo, di tipo apocalittico-escatologico il cui profeta più infiammato è Bakunin». Per Przywara Marx pur ateo, sarebbe nel profondo “un ebreo della più genuina antica alleanza” e Bakunin, pur antiteista, sarebbe nel profondo “un cristiano greco-ortodosso di quella nuova alleanza che attende e anticipa il regno del ritorno di Cristo”.
Un altro filone in cui si è proposta la “cristianità” è quello scaturito dal tentativo novecentesco di restaurare una società cristiana mediante i partiti cristiani, il socialismo cristiano o altre forme di “occidente cristiano”.
Questo è ciò che ci racconta la storia. Ma queste diverse “forme cristiane” – secondo Przywara – sono una distorsione del messaggio, «portano in sé un “no”, frutto di dura cervice, all’ “unico e vero cristianesimo” che è il cristianesimo dello “scambio che redime”».
Erich Przywara era un teologo gesuita tedesco, e citarlo qui non è casuale perché è l’autore a cui ha fatto riferimento papa Francesco quando, riproponendo in termini nuovi il messaggio evangelico, ha postulato l’uscita dalla cristianità, e nel ricevere il premio Carlo Magno ha ignorato lo stereotipo dell’Europa cristiana e ha dato alla Chiesa la missione del servizio e quello di “lavare i piedi” all’Europa. Uscire dal regime di cristianità per non perdere il cristianesimo, significa tornare all’autenticità del messaggio originario, e rompere l’identificazione tra fede, potere, cultura e politica.
Questa operazione però deve essere fatta anche dalle culture politiche e dalle forze storiche che agiscono nella laicità, ma sono in diversi modi portatrici di concezioni sacrali della politica (“il sacramento del potere” messo in luce dall’opera storica di Paolo Prodi) e sono state o sono ancora interpreti di modi di essere propri della cristianità; dunque questo è un compito proprio della politica e può e deve essere parte di un progetto o programma politico per la ripresa di un cammino di civiltà.
Per la Chiesa uscire dalla cristianità vuol dire compiere molte, decisive revisioni. Ma questo non vale solo per il cristianesimo, vale anche per l’Islam e per ogni altra religione. Perché il problema dell’uscita dalla “cristianità” non è solo del cristianesimo. Tutte le religioni hanno avuto la loro notte oscura, in cui hanno sognato il sogno di Costantino, “in hoc signo vinces”, in cui si sono smarrite dando ascolto alla voce del Tentatore che ha voluto persuaderle dicendo: “tutti questi regni ti darò col loro splendore se prostrandoti mi adorerai”.
Tutte le religioni, ognuna con i suoi tempi, devono uscire dalla loro forma di cristianità, devono allontanarsi da quel sogno di vittoria, spogliarsi delle maschere regali. L’Islam dovrà ritrovare nel Corano il pluralismo, uscire dall’ideologia della sharia realizzata contro la società degli infedeli, Israele deve separarsi dall’ideologia di Sion e dello Stato degli Ebrei concepito come lo “Stato della redenzione” (ma “catastrofe” per i palestinesi), l’induismo “convertito”, come dice Raimundo Panikkar, tornerà a bagnarsi nel Gange alle sue sorgenti, incontaminato dal potere, le culture laiche dovranno rinunciare ai loro assoluti di riserva, a cominciare da quello del denaro e del mercato.
Ciò non vuol dire che si perderanno le differenze, il sincretismo globalista non è, né deve essere, nel nostro futuro. Tutte le tradizioni manterranno la loro identità; è sull’incontro tra le loro differenze che si fonda l’unità umana.
Rovesciare il denaro dal trono
Il terzo blocco che oggi inibisce il cammino della civiltà e intercetta e soffoca lo sviluppo storico, è prodotto dall’ascesa del denaro al potere sovrano nel mondo. Se è proprio della politica innalzare o deporre i sovrani (e delle Costituzioni e del diritto regolare l’esercizio della sovranità) il primo compito della politica odierna è la decisione sul potere sovrano: è giusto che la sovranità appartenga al denaro e a lui sia rimessa l’ultima decisione, e in quali forme e limiti ne può essere regolato l’esercizio?
Non stiamo parlando di una scelta tra sistemi economici, di una lotta tra capitalismo e socialismo, tra globalizzazione e protezionismo. Cosa sarà di ciò dipende da una ripresa del pensiero e del dibattito economico, dal rinnovato confronto tra le ideologie politiche e appartiene a tutta la vicenda politica del futuro. Parliamo di una cosa che viene prima, che è una scelta di civiltà, e da cui dipende la legittimità sia dell’uno che dell’altro sistema.
Perché è chiaro che se a governare non è l’essere umano, ma il denaro, un manufatto, qualcosa che non esiste in natura, che può essere creato dal nulla e spesso viene creato da poteri irresponsabili, la questione non è più di economia politica, ma è una questione antropologica, interpella l’idea dell’umano, anche se è la politica che ha gli strumenti per dirimerla. E se vince il denaro, l’uomo è perduto. Finisce il diritto del lavoro, se ne vanno le fabbriche, non trovano difese i terremoti, si innalzano i muri, il mare fa da fossato confine e cimitero, la terra può essere riscaldata e spremuta, la salute è calpestata e perfino il paradiso, messo al plurale, non è più per l’uomo ma per i soldi scappati dal fisco.
E questo non è capitalismo, è barbarie. Perciò un progetto, un compito politico diretto a sgombrare gli ostacoli che inibiscono la ripresa di un cammino di civiltà, deve primariamente assumere questa tematica, deve prefiggersi il rovesciamento del denaro dal trono, la sua restituzione come strumento al servizio dell’economia e della vita, e il ristabilimento della sovranità in capo agli esseri umani ed ai popoli.
Con quali strumenti politici?
Attraverso quali strumenti politici affrontare questi problemi cruciali? Quali soggetti politici possono farsi carico di assumerli e di lottare per la loro soluzione, per il superamento di queste chiusure che bloccano l’incivilimento umano?
Trattandosi di questioni che hanno origini e impatto globale, ci vorrebbe un’Internazionale. Ma un grande soggetto politico internazionale non può che partire da soggetti che emergano da singole Nazioni. Perciò non possiamo sottrarci alla responsabilità di immaginare e promuovere soggettività politiche in grado anche qui da noi di avviare questo processo.
Occorrerebbe anzitutto suscitare soggetti che si dessero il compito di far emergere classi dirigenti omogenee a questi nuovi compiti, che ponessero questi temi all’ordine del giorno delle Università e della cultura diffusa, che risvegliassero i sindacati, che orientassero opinione pubblica e innovassero il mondo dei media in funzione della formazione di un nuovo senso comune su queste cose.
Certamente però, nonostante la riattivazione di coscienza politica mostrata dal referendum, ben oltre i partiti esistenti, non ci sono oggi le condizioni per una nuova iniziativa che assuma la forma partito. Tuttavia questa non si può escludere nel futuro: la stessa Costituzione, salvata dai cittadini ma da tutti sentita come inattuata, contiene in sé il germe di nuove concretizzazioni dell’art. 49. Non si tratterebbe di un partito che pretendesse intestarsi la Costituzione, ma che ne proponga alcune attuazioni più urgenti e altrettanto urgenti sviluppi.
È vero che ciò non appare oggi possibile; ma non si capisce la foga con cui questa ipotesi viene respinta come una pericolosa tentazione. Anche nella riunione del 21 gennaio dei Comitati del No l’idea di dare seguito alla vittoria referendaria non con singole mobilitazioni ma con un partito è stata esorcizzata; ciò è stato giustissimo perché sarebbe un grave errore immaginare un nuovo soggetto politico di sostegno alla Costituzione partendo dal solo bacino dei voti del No, quando anche tra i sostenitori del Si sono stati rivendicati, e spesso con verità, analoghi sentimenti di fedeltà alla Costituzione, soprattutto nei suoi principi fondanti.
Ciò che non si capisce però è la ragione di una specie di opposizione di principio all’idea di un partito; a volte sembra quasi che in campo progressista sia stata interiorizzata e fatta propria la polemica contro la politica ed i partiti avanzata dalla destra per renderne immuni i poteri esistenti. È ovvio che i partiti devono essere criticati, che devono essere vincolati a regole costituzionalmente legittime, che se ne devono anche inventare forme nuove, ma deve essere chiaro che senza partiti, senza rappresentanza nelle istituzioni, senza confronto e lotta tra soggetti omogenei, non si dà politica e non si realizza il disegno della Costituzione.
Sarebbe legittimo ad esempio pensare all’ideazione di una forza politica di tipo nuovo, una specie di Partito Costituzionale Italiano. Certo la Costituzione è un patto tra le parti e super partes; e così è stata e l’abbiamo vissuta dalla Costituente in poi (basta ricordare l’ “arco costituzionale”).
Il fatto è però che essa è sottoposta da decenni ad attacchi “riformatori” ed è stata formalmente indicata come l’ostacolo da abbattere, insieme alle altre Costituzioni “socialiste” del dopoguerra, dalla Banca Morgan e da altre massime espressioni del Mercato internazionale. Dunque come effetto indotto dallo stesso conflitto politico, è del tutto naturale che si formi un partito per la Costituzione, senza alcuna pretesa di esclusività o di una privilegiata autorità nella sua interpretazione. Che la Costituzione sia un patrimonio comune non impedisce che se ne faccia una propria bandiera, più di quanto la Repubblica non impedisca a un partito di chiamarsi repubblicano o la democrazia non impedisca a un altro di chiamarsi democratico o l’universalità della libertà impedisca a un altro di dirsi liberale.
Dovrebbe trattarsi di un partito a vocazione proporzionale, pluralista e unitiva. La novità potrebbe essere (ma già ci fu l’esempio del partito radicale) la facoltà della doppia tessera per gli iscritti al partito, a significare che le sue battaglie sulle priorità adottate per la nuova prospettiva politica sono compatibili con l’ispirazione e i programmi di altri soggetti politici; la presenza nelle istituzioni rappresentative potrebbe essere perseguita sia, come è normale, con finalità di governo, sia anche solo per avere voce in esse mediante quella forma riduttiva di rappresentanza che viene chiamata “diritto di tribuna”, ove si voglia decidere di non voler entrare in concorrenza per il potere.
In ogni caso si dovrebbe fare della condivisione la condizione e il fulcro della legislazione e della governabilità. Gli accordi in Parlamento sia per la formazione dei governi che per la legislazione, dovrebbero essere rivendicati e onorati come la strumentazione stessa della democrazia, contro il mito demiurgico e la sua vulgata parafascista dell’innalzamento sugli scudi la sera delle elezioni del capo o del partito che avrà il potere nei successivi cinque anni. Adottare la forma partito non significa solo riconoscersi come una parte, ma come una parte del tutto. In questo quadro l’opzione per la proporzionale sarebbe irrinunciabile.
La nuova forma partito dovrebbe porsi come espressione non delle istituzioni ma della società. La sua democrazia interna dovrebbe essere garantita da appositi statuti a norma dell’art. 49 della Costituzione.
La “vision” o “mission” di tale partito, irrealistico oggi ma possibile domani, sarebbe in estrema sintesi quella di un costituzionalismo interno e internazionale accrescitivo e perfettibile, per aprire un varco a quello che abbiamo detto essere il vero e più urgente compito della politica oggi: mettere al sicuro i diritti, i valori e i beni comuni storicamente già acquisiti e riaprire le porte e il cammino per l’avanzamento della civiltà.
Fonte: Il manifesto Bologna
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