La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 1 febbraio 2017

Oggi dobbiamo fare “comunità”, inteso come modo di agire

di Roberto Mancini 
Tre priorità per il movimento dell’economia democratica in Italia. Desidero evidenziarle perché mi sembra che le associazioni, le cooperative, le aziende, le reti dell’altra economia siano ormai giunte a un punto di svolta. O si accontentano di navigare a vista, oppure elevano la loro azione a un grado di maggiore maturità. Per farlo -ecco la prima priorità- è necessario che sia attuata la piena trasformazione del modo di pensare di quanti a vario titolo vi partecipano. Mi riferisco alla sempre più lucida scelta di aderire all’etica del bene comune, quella che coniuga la dignità di ogni persona, quella di tutta l’umanità e quella della natura.
Questo è il nucleo vitale del pensiero democratico, ossia della cultura che guarda alla democrazia non solo come sistema di governo, ma più radicalmente come forma dell’ordinamento politico di una società comunitaria aperta. È la società dove nessuno è straniero, dove non il potere e la violenza, ma l’accoglienza e la corresponsabilità sono la norma. Se i soggetti dell’altra economia avranno cura della formazione etica e del laboratorio di pensiero collettivo che stanno sperimentando, essi avranno la forza spirituale e culturale per essere fertili in un contesto difficile.
La seconda priorità è quella di lavorare affinché la nostra sperimentazione possa divenire un vero e proprio movimento etico, sociale e politico di radicamento popolare. Se una rete resta solo una rete e non genera un movimento che sia radicato -nelle città, sui territori, nei luoghi essenziali della vita quotidiana (famiglie, scuole, comuni, aziende, associazioni)-, allora si riduce a un’entità autoreferenziale. Per raggiungere questo obiettivo occorre adottare modalità comunitarie di presenza, di incontro, di azione.
Qui bisogna essere chiari. Poiché “comunità” è divenuta una parola magica, calda e rassicurante, va chiarito che occorre scegliere tra due tipi di comunità. Una è la comunità capsulare, l’altra è la comunità democratica. La prima è la comunità-rifugio, dove si ritrovano solo quelli che la pensano allo stesso modo. È una setta, un guscio protettivo che gratifica psicologicamente ma che si traduce in un ripiegamento mortale. L’altra è la comunità aperta, che si caratterizza per la pratica della solidarietà, per lo spirito di ospitalità verso chiunque, per la scelta di essere responsabili insieme verso la società intera. A noi serve dare vita a questo secondo tipo di nuclei comunitari, ricordando che “comunità” è più un modo d’essere e di agire che un luogo circoscritto. Da arcipelago di realtà più o meno isolate bisogna passare a essere un tessuto di comunità civili aperte che giungono a convergere in un movimento ampio, popolare, plurale ma indivisibile e coeso.
La terza priorità è quella di dare forma politica alla nostra azione. È sbagliata l’idea che la “politica” sia solo quella di istituzioni come il governo, il parlamento e i partiti, o peggio quella dei “politici” di mestiere. Quella delle istituzioni, benché importante, è la politica seconda. La prima politica è quella dei cittadini organizzati, che in ogni comunità civile territoriale si impegnano per attuare la cura del bene comune e dei beni comuni. In questo senso i soggetti dell’altra economia sono a pieno titolo soggetti politici. Riconoscere tale potenziale democratico significa, concretamente, smettere di interessarci solo di economia e renderci disponibili all’alleanza con tutti i movimenti dell’altrimenti (intendo i movimenti femministi, per i diritti civili, per l’accoglienza dei migranti, per la tutela della natura, per una scuola vera, contro le mafie e così via). Insieme a noi queste sono le forze sociali più creative, che cercano un modo differente di tessere la convivenza sociale. È urgente incontrarsi con loro, creando occasioni e percorsi di collaborazione sul filo conduttore di un progetto di società. Assumere queste tre priorità non significa chiedere di fare cose in più, significa fare meglio quello che già stiamo facendo.

Fonte: Altreconomia.it 

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