di Vittorio Filippi
I cigni neri crescono e affollano minacciosamente i cieli del futuro prossimo venturo. Com’è noto, è stato il filosofo Nassim Taleb a denominare cigni neri gli eventi che per quanto imprevisti ed inattesi possono davvero capitare con ripercussioni enormi ed incalcolabili. E di cigni neri – passando dall’epistemologia alla previsione – ne propone molti, troppi, l’ultimo rapporto del World Economic Forum. Una specie di corposo ed inquietante cahier de doléances mondiale che parte dalle cinque grandi tendenze che ipotecheranno i prossimi dieci anni, tendenze che si riassumono nell’aumento della disuguaglianza di reddito e di benessere, nel cambiamento climatico, nella crescente polarizzazione sociale, nell’incremento della cyber dependency, nell’invecchiamento della popolazione.
Un mix complesso di variabili economiche, sociali, ambientali, tecnologiche e demografiche la cui interconnessione, a sua volta, produce ulteriori rischi ed ulteriori incognite: nuovi cigni neri, se si vuole usare la metafora succitata. Il rapporto non lesina analisi, ma profonde suggerimenti e consigli. In campo economico si sottolinea la cronica debolezza della ripresa, una debolezza che suscita umori populistici, antielitari ed antiglobalizzazione. Siamo di fronte ad un inedito globalization trilemma in cui tra democrazia, sovranità nazionale ed integrazione economica internazionale solo due di questi elementi sembrano essere compatibili tra loro e la tendenza è di privilegiare i primi due e di sacrificare il terzo. Donald Trump docet.
Da un punto di vista sociologico il trittico sovranismo-nazionalismo-populismo sta guadagnando consensi un po’ ovunque (spinto anche dalla delle migrazioni) e spinge a guardare con malcelata simpatia ad un deus ex machina (charismatic strongman lo chiama il rapporto) che finalmente risolva l’eccesso di complessità e di incertezza che avviluppa la quotidianità di tanti mentre lo sfilacciamento sociale e le troppe invisibili marginalità mettono in crisi i canali tradizionali del consenso politico ed i partiti stessi. E sono proprio gli anziani ex baby boomer – sempre più importanti per ovvi motivi demografici – a spingere verso un voto «securitario» e protettivo.
Sulla tecnologia già il titolo è evidente: gestire la distruzione. Che non sarà necessariamente quella creativa di Schumpeter, perché la quarta rivoluzione industriale – che mescola tecniche e tecnologie fisiche, biologiche e digitali – sta creando nuovi rischi ed enfatizza quelli già esistenti. Mandando a gambe all’aria non solo i modelli occupazionali usuali, ma anche le relazioni sociali e la stabilità geopolitica.
L’automazione in senso lato minaccia quasi la metà degli attuali posti di lavoro, non solo nell’industria ma anche nei servizi. Questo trionfo del lavoro morto sul lavoro vivo – per dirla con Karl Marx – sposta il pendolo della ricchezza verso il capitale, dato che l’80% della quota della ricchezza persa dal lavoro dipendente dal 1990 al 2007 è dovuta alla tecnologia. Alimentando così spinte antiglobalizzazione ma anche antitecnologiche di nuovi luddisti spaventati e confusi.
Nota il rapporto che in un mondo sempre più disincantato circa la cooperazione interstatuale, cresce lo scetticismo verso le organizzazioni internazionali e sovranazionali e cresce anche il ricorso agli armamenti (tradizionali, atomici, elettronici) che rendono fragile e «rischiosa» la stessa coesistenza, tra isolazionismi, frammentazioni e troppi failed State.
Infine l’ambiente, che nonostante i fragili progressi compiuti (dall’accordo di Parigi al coinvolgimento della Cina alla conferenza di Marrakesh) è un tema su cui non solo molto resta da fare, ma anche da fare in fretta. Per evitare ad esempio non solo catastrofi naturali estreme, ma anche ingestibili migrazioni climatiche dalle conseguenze geopolitiche imprevedibili o crisi idriche o agricole altrettanto catastrofiche.
E la democrazia? Non sta molto bene, conclude il rapporto. Non sta bene perché lesa o indebolita da molteplici, simultanei attacchi sferrati dall’insicurezza (economica, lavorativa, finanziaria), da una polarizzazione che è culturale prima ancora che sociale, da una indefinita paura sulla velocità dell’accelerazione dei cambiamenti (rilevante su questo punto è l’analisi del filosofo tedesco Hartmut Rosa nel volume Accelerazione e alienazione, Einaudi), da una informazione ipertrofica ma inquinata dalle fake news e dalla cosiddetta «post verità» che privilegiano emozioni e sensazioni ritagliate per gruppi piuttosto che il rigore informativo per tutti.
E soprattutto da una disuguaglianza lacerante che ha visto – secondo i dati di Oxfam International (An economy for the 99%) – lo scorso anno l’1% del mondo accumulare quanto il restante 99 ed in Italia i primi sette miliardari possedere ciò che ha il 30% dei più poveri.
Che tu possa vivere in un’epoca interessante, dicevano i cinesi per maledire qualcuno. Di sicuro quest’epoca è interessante, forse anche troppo. Divenendo quindi la maledizione di un turbocapitalismo prometeico che ormai preoccupa perfino le stesse élite di Davos.
Fonte: Il manifesto
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