Intervista a Massimo D'Alemadi Matteo Giordano e Tommaso Sasso
Il processo di costruzione giuridico-istituzionale dell’Unione Europea è stato caratterizzato in profondità da una lettura post-moderna e post-statuale della globalizzazione. Il fatto che la costruzione europea non prefigurasse una sicura evoluzione verso una forma statuale e, allo stesso tempo, riducesse le prerogative sovrane degli stati membri, affidandole ad una multilevel governance, non veniva ritenuto un problema. Al contrario, vi si guardava come al segno del carattere postmoderno dell’ingegneria istituzionale dell’Unione. La crisi dell’euro ha svelato la fragilità di questa impalcatura giuridica, tanto che il processo di integrazione politica, se non si è definitivamente interrotto, ha subito una pesantissima battuta d’arresto. A tuo giudizio può essere politicamente rilanciato? E se sì, su quali basi?
"Innanzitutto, vi confesso di avere qualche dubbio sulla definizione secondo cui il modello giuridico ed istituzionale dell’Unione europea sia un modello post-statuale, e non piuttosto un modello in equilibrio tra una dimensione sovranazionale ed una dimensione intergovernativa.
L’architettura istituzionale europea è basata su un equilibrio tra organismi comunitari (parlamento e commissione) e i consigli che, a partire dal Consiglio Europeo rappresentano i governi nazionali. Si è immaginato, in particolare negli anni ’90, che l’evoluzione dell’Unione europea potesse andare in direzione di un’accentuazione ulteriore del ruolo delle istituzioni comunitarie. Questo processo ha avuto una decisiva battuta d’arresto con il fallimento della fase costituente europea all’epoca dei noti referendum olandesi e francesi del 2005.
Oltretutto, questo ha coinciso con l’allargamento territoriale dell’Unione europea, che non è stato preceduto da una necessaria, radicale riforma istituzionale capace di porre particolare attenzione sia ai meccanismi di governo della Ue fondati sul voto a maggioranza, sia all’ evoluzione della Commissione verso un vero e proprio governo dell’Unione.
Tale processo evolutivo è rimasto bloccato ed è progressivamente tornata preminente la dimensione intergovernativa. In questo modo si è rafforzato il carattere dominante dei governi più forti verso cui si è spostato il potere politico europeo e da cui dipende in sostanza la tecnocrazia di Bruxelles, l’effetto negativo di questa realtà consiste in una accentuazione delle spinte nazionalistiche. L’attuale Commissione, che rappresenta un tentativo di rilancio del processo di integrazione in chiave politica, è di fatto notevolmente ostacolata dal peso, talora paralizzante, del Consiglio. Dopo il fallimento del tentativo di compiere un passo in avanti in chiave costituzionale e federalista dell’Unione, il Trattato di Lisbona ha rappresentato un compromesso che tuttavia contiene la possibilità di muovere nella direzione di una maggiore integrazione politica. La scelta che è stata compiuta dal PSE è stata quella di spingere in avanti sul piano politico, attraverso l’indicazione dei candidati alla presidenza della Commissione europea in occasione delle elezioni. L’idea era che questo processo di politicizzazione dell’elezione del presidente della Commissione avrebbe marcato politicamente il ruolo di tutto l’organismo, oltre che rafforzarne la legittimazione democratica ed il rapporto diretto con i cittadini e non soltanto con i governi. Ora, questo in una certa misura è accaduto: la Commissione europea si configura non soltanto come la somma dei commissari nominati dai governi nazionali, ma come il frutto di una coalizione politica, sulla base di un accordo, sopratutto tra socialisti e popolari, a cui si sono aggiunti i liberali, e di un programma concordato tra le due principali famiglie politiche. Abbiamo però visto che, arrivati allo scoglio della Grecia, questo ruolo politico della Commissione si è immediatamente appannato. Basti osservare come sia stata sufficiente una dichiarazione della cancelliera federale tedesca, Angela Merkel, per interrompere i negoziati prima della conclusione del referendum indetto dal governo greco. Insomma, come dicevo prima, anche questo sforzo di politicizzare la Commissione e quindi di caratterizzare l’Europa come una entità politica, governata da una coalizione politica, sulla base di un programma politico e di una legittimazione elettorale, si scontra con un assetto che appare sostanzialmente ancora dominato dai governi più forti e dalla dimensione intergovernativa. Anche la drammatica vicenda dei profughi e dei migranti è stata caratterizzata da una tensione tra la Commissione e diversi governi nazionali. Devo sottolineare che la Commissione si è mossa nella direzione giusta, anche se alla fine è stato determinante il modo in cui i principali governi, a cominciare da quello tedesco, si sono schierati.
L’architettura istituzionale europea è basata su un equilibrio tra organismi comunitari (parlamento e commissione) e i consigli che, a partire dal Consiglio Europeo rappresentano i governi nazionali. Si è immaginato, in particolare negli anni ’90, che l’evoluzione dell’Unione europea potesse andare in direzione di un’accentuazione ulteriore del ruolo delle istituzioni comunitarie. Questo processo ha avuto una decisiva battuta d’arresto con il fallimento della fase costituente europea all’epoca dei noti referendum olandesi e francesi del 2005.
Oltretutto, questo ha coinciso con l’allargamento territoriale dell’Unione europea, che non è stato preceduto da una necessaria, radicale riforma istituzionale capace di porre particolare attenzione sia ai meccanismi di governo della Ue fondati sul voto a maggioranza, sia all’ evoluzione della Commissione verso un vero e proprio governo dell’Unione.
Tale processo evolutivo è rimasto bloccato ed è progressivamente tornata preminente la dimensione intergovernativa. In questo modo si è rafforzato il carattere dominante dei governi più forti verso cui si è spostato il potere politico europeo e da cui dipende in sostanza la tecnocrazia di Bruxelles, l’effetto negativo di questa realtà consiste in una accentuazione delle spinte nazionalistiche. L’attuale Commissione, che rappresenta un tentativo di rilancio del processo di integrazione in chiave politica, è di fatto notevolmente ostacolata dal peso, talora paralizzante, del Consiglio. Dopo il fallimento del tentativo di compiere un passo in avanti in chiave costituzionale e federalista dell’Unione, il Trattato di Lisbona ha rappresentato un compromesso che tuttavia contiene la possibilità di muovere nella direzione di una maggiore integrazione politica. La scelta che è stata compiuta dal PSE è stata quella di spingere in avanti sul piano politico, attraverso l’indicazione dei candidati alla presidenza della Commissione europea in occasione delle elezioni. L’idea era che questo processo di politicizzazione dell’elezione del presidente della Commissione avrebbe marcato politicamente il ruolo di tutto l’organismo, oltre che rafforzarne la legittimazione democratica ed il rapporto diretto con i cittadini e non soltanto con i governi. Ora, questo in una certa misura è accaduto: la Commissione europea si configura non soltanto come la somma dei commissari nominati dai governi nazionali, ma come il frutto di una coalizione politica, sulla base di un accordo, sopratutto tra socialisti e popolari, a cui si sono aggiunti i liberali, e di un programma concordato tra le due principali famiglie politiche. Abbiamo però visto che, arrivati allo scoglio della Grecia, questo ruolo politico della Commissione si è immediatamente appannato. Basti osservare come sia stata sufficiente una dichiarazione della cancelliera federale tedesca, Angela Merkel, per interrompere i negoziati prima della conclusione del referendum indetto dal governo greco. Insomma, come dicevo prima, anche questo sforzo di politicizzare la Commissione e quindi di caratterizzare l’Europa come una entità politica, governata da una coalizione politica, sulla base di un programma politico e di una legittimazione elettorale, si scontra con un assetto che appare sostanzialmente ancora dominato dai governi più forti e dalla dimensione intergovernativa. Anche la drammatica vicenda dei profughi e dei migranti è stata caratterizzata da una tensione tra la Commissione e diversi governi nazionali. Devo sottolineare che la Commissione si è mossa nella direzione giusta, anche se alla fine è stato determinante il modo in cui i principali governi, a cominciare da quello tedesco, si sono schierati.
Mi chiedevate a quali condizioni si può rilanciare il processo di integrazione politica. Innanzitutto questa domanda dovrebbe costituire la principale fonte di riflessione e di iniziativa di una delle grandi famiglie politiche europee, quella socialista. Il che, purtroppo, oggi non avviene. Il congresso del Partito socialista europeo si è chiuso all’insegna di un modesto compromesso. La candidatura di Enrique Barón Crespo alla presidenza del PSE, che si caratterizzava in chiave federalista, è stata proprio per questo contrastata da molti partiti socialisti e non appoggiata neppure dal Partito democratico, il quale, non foss’altro che per questa ragione, avrebbe dovuto sostenerla. L’occasione del congresso del PSE è stata sostanzialmente, almeno in Italia, un’occasione perduta: non vi è stata alcuna discussione sulle prospettive del socialismo europeo, né sul modo in cui il PD poteva e doveva caratterizzarsi nel corso del congresso. Il problema che ponete è reale, ma parliamoci chiaro: la soluzione passa attraverso la ripresa di una battaglia politica e culturale nelle società europee. Viviamo la crisi della costruzione europea anche in termini di consensi: essa alimenta fenomeni di rivolta di natura nazionalistica o, sopratutto nelle aree maggiormente penalizzate, di rivolte sociali. Ciò avviene poiché la costruzione dell’euro, cioè di un’area monetaria a moneta unica, ma con diversi livelli di competitività, diverse politiche sociali, diversi sistemi fiscali, finisce per avvantaggiare le aree più forti e, nel momento in cui vengono meno i meccanismi di aggiustamento della politica monetaria, di cambio e non solo, tutto il peso si scarica sulla flessibilità del lavoro, sul contenimento dei salari e sul taglio della spesa sociale. La rivolta nazionalista viene interpretata dalla destra, mentre la rivolta sociale è egemonizzata da forze di una nuova sinistra. Quello che non c’è è una risposta politica che sappia sciogliere il nodo vero, che vada, cioè, nella direzione opposta a quella in cui spinge gran parte della reazione popolare: una maggiore integrazione politica, in vista di un’armonizzazione delle politiche fiscali e sociali, e di una mutualizzazione del debito. In altre parole, è necessaria una governance dell’Eurozona con meccanismi effettivi di trasferimento economico e finanziario. Penso, ad esempio, alla creazione di un bilancio europeo in grado di reggere la moneta unica. Questo dovrebbe essere il terreno su cui rilanciare il socialismo europeo. Per ora, ahimè, non è così."
La crisi dell’impalcatura istituzionale dell’Unione si intreccia in effetti con la crisi organica della piattaforma del socialismo europeo. La famiglia dei progressisti e dei democratici è variegata e contiene al suo interno molte sensibilità, anche assai distanti tra loro. Pesa la trentennale subalternità culturale della sinistra europea all’egemonia neoliberista e alla spinta della rivoluzione neoconservatrice. Le differenze tra i socialisti ed i popolari sulle materie fondamentali sono sempre più sfumate, tanto che le alternative che la sinistra riesce attualmente ad esprimere prosperano al di fuori della famiglia socialista. Pensi che la piattaforma del socialismo europeo possa essere rilanciata da sinistra, o ritieni invece che essa si trovi su una china di declino irreversibile?
"Bisogna lavorare ad un rilancio del ruolo della sinistra europea. Ho detto volutamente sinistra e non socialismo: la portata della questione trascende i singoli partiti. Naturalmente, non si può guardare alle prospettive della sinistra europea prescindendo dal socialismo europeo, perché sarebbe velleitario. Tuttavia, non si può farlo neppure con una visione che affida esclusivamente alla socialdemocrazia questo ruolo, perché penso che oggi sia fondamentale che si stabilisca un rapporto tra il movimento socialista europeo ed altre formazioni politiche, che si sono sviluppate al di fuori di esso. Ci sono due esperienze molto diverse da questo punto di vista. Da una parte, in Grecia, i socialisti si sono accodati alle politiche dettate da Bruxelles e sostenute dalle forze conservatrici, condannandosi all’irrilevanza; dall’altra, in Spagna, il Psoe ha rifiutato la prospettiva di un’alleanza con i popolari e ha scelto coraggiosamente di dialogare con Podemos. Nel momento in cui il segretario Pedro Sanchez ha deciso di sostenere le elette di Podemos ai Comuni di Barcellona e di Madrid, ha gettato le basi per un’alleanza nazionale per il governo della Spagna. Mentre parliamo siamo alla vigilia delle elezioni catalane, che rappresentano un passaggio molto delicato anche per la spinta indipendentista che potrebbe, per contrasto, favorire la destra nelle elezioni politiche successive. Tuttavia la prospettiva aperta dal PSOE rimane un’ipotesi possibile che aprirebbe una situazione molto interessante non solo per la Spagna, ma anche per altri paesi europei. Questo dimostra che il socialismo europeo è un campo di forze molto variegate, e anche per questo non riesce a esprimere una sintesi forte, né dal punto di vista politico, né programmatico. L’Italia poteva aspirare ad avere una funzione primaria, ma vi ha sostanzialmente rinunciato. Questo è stato, secondo me, uno degli aspetti più negativi dopo le elezioni europee. Esse sono state interpretate soltanto in chiave di consolidamento di una posizione di potere in Italia e non in chiave di assunzione di un ruolo di stimolo e di rinnovamento della sinistra europea, un ruolo a cui il Partito Democratico ha sostanzialmente abdicato. A mio avviso, l’alternativa al rilancio politico non può essere il declino irreversibile. L’idea di irreversibilità mi convince poco: la politica è fatta di scelte, che raramente sono irreversibili. Ritengo, invece, che la via di un rilancio del ruolo del socialismo europeo passi attraverso un radicale ripensamento del processo di integrazione europea e l’assunzione di una piattaforma federalista. Il punto non è che la presenza socialista nel governo dell’Europa non abbia determinato dei cambiamenti, è che quei cambiamenti non sono sufficienti per la svolta radicale necessaria. Non commettiamo, però, l’errore di pensare che cambiamenti non ci siano stati. Vi faccio degli esempi: l’Europa ha lanciato un piano di investimenti, che rappresenta un’inversione di tendenza rispetto al mantra delle politiche di austerità. Certo, tutto procede con una lentezza esasperante e mille incertezze, ma è una novità. C’è stata l’adozione da parte della Commissione europea di un criterio di flessibilità, il quale sostanzialmente ha messo in mora il patto di stabilità, cosa che ci permette di evitare manovre finanziarie draconiane. In modo particolare, i socialisti hanno concorso a creare un clima politico nuovo nel quale anche certe decisioni della BCE in senso antimonetarista sono state possibili. Ad esempio, il QE ha permesso il contenimento della rendita finanziaria e ha allargato la base monetaria, favorendo un necessario riequilibrio tra euro e dollaro. Tutto questo pone il nostro Paese in una posizione privilegiata, che, se sfruttata a dovere, darebbe buoni risultati sul versante della crescita, oggi, invece, piuttosto modesta. In definitiva, non credo si possa dire che i socialisti sono del tutto subalterni. In fondo, ci siamo presentati alle elezioni europee con una posizione coraggiosa. I problemi veri sono due. Primo, i socialisti europei sono molto di sinistra in campagna elettorale e lo sono molto meno nel momento in cui esercitano responsabilità di potere. La piattaforma con cui siamo andati in campagna elettorale era avanzata ed europeista. Tra l’altro, attraverso Italianieuropei e la FEPS, abbiamo contribuito non poco, con un ciclo di iniziative intitolate “Renaissance for Europe”, alla costruzione di un nucleo programmatico per i socialisti europei. Ecco, l’impegno c’è stato, ma si fatica ad essere coerenti con l’impostazione iniziale nell’esercizio di un ruolo di governo. La presenza socialista nella Commissione e nei governi europei è abbastanza significativa. Tenete presente che i socialisti esprimono oggi poco meno di 10 primi ministri e fanno parte di 15 governi. Spesso, purtroppo, si tratta di governi di larga coalizione e questo ne costituisce il limite principale. Sul piano della piattaforma economica, però, voglio evidenziare un elemento serio di debolezza e cioè che il movimento socialista europeo non ha fatto proprio il tema di una vera politica europea del debito, pur essendoci in campo proposte significative. Penso, ad esempio, a quella dell’European Debt Redemption Fund (la creazione di un fondo europeo per l’abbattimento del debito, suggerita niente meno che dal Consiglio degli economisti tedeschi, che non sono noti per il piglio rivoluzionario delle loro convinzioni). Essa è tecnicamente una delle più serie, perché suggerisce che diventi europeo tutto il debito eccedente il 60% del PIL dei singoli Stati membri (e quindi anche quello tedesco, che è al 78%). I Paesi indebitati concorrerebbero a creare questo fondo europeo, ma il vantaggio è che il debito verrebbe pagato da tutti allo stesso tasso di interesse. Introdurrebbe un elemento di novità enorme dal punto di vista della costruzione di una dimensione europea economica, ma implicitamente anche politica. Non c’è una posizione comune dei socialisti su questo punto e ciò indebolisce la battaglia per la crescita. L’altro problema è la mancanza di una dimensione politica, cioè di un progetto di integrazione dell’Europa. Innanzitutto bisognerebbe dialogare con quelle forze che hanno un’ispirazione di sinistra e che dalla Grecia alla Spagna manifestano una linea più critica. Avere, come dicevamo, un asse di collaborazione e non di contrapposizione con queste forze. In secondo luogo, nel campo socialista occorrerebbe una più forte iniziativa delle forze dichiaratamente federaliste per dare un nocciolo politico alla nostra proposta, che altrimenti rischia di ridursi ad una piattaforma di rivendicazioni economiche e sociali."
Ti chiediamo ora un focus in particolare su SYRIZA e la Grecia: a Gennaio, ad un’iniziativa presso l’Associazione della Stampa estera a cui partecipasti assieme a Stefano Rodotà, spiegasti benissimo come una parte fondamentale della cultura politica di SYRIZA sia quella dell’eurocomunismo. Ora che un partito del genere ha conquistato il governo in Grecia e Podemos è proiettato verso la vittoria delle elezioni in Spagna, pensi che siamo di fronte non solo ad un’ulteriore declinazione della spaccatura classica tra riformisti e radicali, che ha percorso tutta la storia europea, ma a qualcosa di assimilabile storicamente alla frattura tra socialdemocratici e comunisti?
"No. Innanzitutto, nell’analisi che feci di SYRIZA, misi in luce che la cultura eurocomunista è una delle radici della cultura politica di quel partito. SYRIZA è un movimento che presenta una sintesi e non c’è dubbio che Tsipras sia stato anche capace di collegarsi alla tradizione nazionalista del socialismo greco di Andreas Papandreou. Tsipras non è né un estremista né un populista e l’antieuropeismo non appartiene alla sua ispirazione culturale e profonda. Secondo, la nascita del movimento comunista introdusse una frattura nei punti più avanzati del capitalismo: il partito comunista era forte in Germania e non solo nella Russia zarista. Non vedo oggi all’orizzonte una nuova Internazionale della sinistra in grado di contendere ai socialisti il ruolo di principale forza europea del movimento operaio. Il movimento socialista europeo deve dialogare con queste forze, avere un atteggiamento aperto e deve rifiutare la logica punitiva dei conservatori. Non c’è dubbio che la Merkel sia stata pressata non solo dalla destra tedesca, ma anche dai partiti europei di centrodestra, in primo luogo spagnolo e portoghese, i quali volevano dare una lezione alla Grecia per contenere la possibilità di un cambiamento in casa loro. Lo hanno fatto basandosi su un calcolo sbagliato, perché tutto questo susciterà un sentimento contrario e di aspro risentimento. Credo che sia stato importante il modo con cui Hollande, questa volta, si è smarcato dalla linea della Merkel e il modo con cui apertamente i socialisti francesi hanno giocato un rapporto diretto con la Grecia. Questo sarebbe stato uno spazio anche nostro, ma non lo abbiamo coperto. Del resto, è noto che il commissario Moscovici abbia tentato un’iniziativa in extremis per rilancare il negoziato, il chè forse avrebbe potuto evitare il referendum, ma che sia stata bloccata dalla Merkel, che aveva puntato, erroneamente, su fatto che il referendum portasse alla caduta del governo di sinistra in Grecia. Insisto, è molto importante che si crei un clima di comprensione e collaborazione tra queste forze ed il movimento socialista europeo, ma che la nascita di SYRIZA sia paragonabile alla Rivoluzione d’Ottobre, questo no, è una forzatura pesante. La Rivoluzione d’Ottobre, in concomitanza della Guerra mondiale, rimane un evento unico nella Storia."
L’Europa deve sciogliere la riserva strategica su cosa “vuol fare da grande”: se porsi o meno cioè come terza forza, ponte di mediazione tra gli Stati Uniti, il Medioriente e l’Asia. Quale pensi dovrebbe essere la sua collocazione geostrategica nel mondo? In che modo potrà intervenire nelle vecchie e nuove faglie di crisi?
"Il mondo è ormai multipolare, quindi il ruolo dell’Europa non può, né deve, essere misurato solo in relazione a quello americano. Il tentativo unipolare degli USA è sostanzialmente fallito e siamo entrati in una fase di ridefinizione profonda della loro strategia. Kissinger ha recentemente scritto un libro molto interessante da questo punto di vista, in cui spiega, con un approccio realistico, che gli americani rimangono la più significativa potenza militare, ma in uno scenario molto più articolato e complesso. Uno scenario in cui l’America tende a ridefinire il proprio ruolo globale, scegliendo delle priorità e ridimensionando il suo impegno in altre aree, per esempio in Medioriente. L’Europa non è in grado di riempire questo vuoto con sufficiente energia. Non ho un giudizio negativo sull’indirizzo generale di politica estera che perseguono, oggi, la Commissione europea e l’Alto rappresentante Federica Mogherini. Si tratta di verificare con quanta forza politica sono in grado di agire. La possibilità che l’Europa giochi un ruolo di player globale è innanzitutto legata al fatto che essa sia capace di affrontare le questioni che più premono sulla sicurezza e sulle prospettive del continente. Tra le prime vi sono, senza dubbio, il rapporto con la Russia, il problema del Mediterraneo e il rapporto con l’Africa. L’Africa, oggi, è un terreno di confronto egemonico tra grandi poteri, sul quale, fin qui, c’è stata una preminenza indiscussa della Cina il cui ruolo politico ed economico in molti paesi africani è elevatissimo e si accompagna ad una qualificata immigrazione cinese e all’acquisizione di molte risorse naturali, in particolare la terra in varie parti del continente. Per quanto riguarda la Russia, l’Europa deve contenere la visione neoimperiale. Né si può certamente apprezzare quella sorta di democrazia autoritaria che egli ha costruito all’interno del paese. Ma dobbiamo renderci conto che la politica di assedio che l’Occidente in questi anni ha perseguito nei suoi confronti ha favorito, e non indebolito, il nazionalismo di Putin. Infatti, si sono create le condizioni per una convergenza massiccia e per un consenso popolare diffuso intorno a lui. Occorre un approccio diverso, che consenta di avviare un processo di distensione. La politica europea verso la Russia non può essere guidata dai Paesi ex sovietici mossi da rancore, storicamente anche comprensibile, verso Mosca. E non può essere una politica di accerchiamento o contenimento. Non si può pensare che l’UE e la NATO circondino la Russia. Questa prospettiva è stata fatta balenare all’Ucraina, anche qui secondo un calcolo sbagliato e in base a una prospettiva non realistica, determinando una crisi ed una reazione in parte prevedibili. L’Ucraina è un Paese dove vive una minoranza russa che conta circa un terzo della popolazione. Occorre, dunque, una politica incalzante sul piano dei diritti umani nei confronti della Russia (a questo proposito trovo intollerabile che l’UE non abbia detto nulla su quello che la Russia ha fatto in Cecenia), mentre, dall’altra parte, è necessario porsi il problema di come ricostruire un’architettura di sicurezza in Europa. Quando Medvedev propose una nuova conferenza di Helsinki, l’Europa non raccolse l’iniziativa: fu a mio giudizio un errore. L’esigenza di una nuova architettura di sicurezza europea, che liberi la Russia dall’ossessione dell’assedio da parte dell’Occidente, è un tema centrale, anche ai fini di mettere in movimento forze liberali e democratiche all’interno della società russa. Esse, altrimenti, resteranno inevitabilmente compresse da un consenso nazionalista a Putin e dalla sua politica di potenza, che oggi soffoca ogni dialettica nel suo Paese. Su questo ho avuto una lunga e impegnativa conversazione con Gorbachov, il quale mi ha invitato alla riunione del board della sua fondazione a Berlino, tenutosi in occasione dell’anniversario della caduta del Muro. Mi ha detto: “bada che il problema non è Putin, ma il consenso che lui ha nel popolo russo. Se non vi ponete la questione del perché egli goda di un tale consenso, e quindi degli errori dell’Occidente, ho paura che non ne verrete a capo”. Bisogna trovare un compromesso ragionevole, che preveda che l’Ucraina, sia garantita nella propria indipendenza da Mosca, senza tuttavia diventare né membro dell’UE né della NATO, il che non sarebbe realistico. Naturalmente l’accordo deve tutelare insieme la sovranità dell’Ucraina e i diritti della minoranza russa. In qualche modo, una strada che consenta a tutti, compresi i russi, di uscirne in modo dignitoso. Su questo, gli interessi europei e quelli tedeschi coincidono, mentre ci sono state pressioni americane che vanno in una direzione non condivisibile.
Ora pare che tra Stati Uniti e Russia si siano riaperti canali di comunicazione e sia ripreso un dialogo innanzitutto perché prende finalmente piede la consapevolezza che occorre fronteggiare insieme la minaccia principale contro la pace e la sicurezza che viene dal fondamentalismo e dal terrorismo di matrice islamista. La condizione per vincere questa sfida consiste innanzitutto nel rifiutare l’idea che si tratti di un conflitto tra l’Islam e gli “infedeli” il che poi significa in particolare l’Occidente. In realtà la principale vittima del fondamentalismo sono i musulmani stessi. Per questo bisogna incoraggiare tutte quelle forze nel mondo islamico che possono fare argine al fondamentalismo e combattere Al Qaida e lo Stato islamico. D’altro canto i curdi che sono in prima linea tra la Siria e l’Iraq e che meriterebbero per questo un maggiore sostegno da parte di tutta la comunità internazionale, sono musulmani, così come le milizie che in Libia contrastano l’avanzata dello Stato islamico. Ritengo che sarebbe sbagliato spingere l’Islam politico nel suo insieme – mi riferisco alla Fratellanza musulmana – verso posizioni estremistiche. La Fratellanza musulmana è un movimento molto variegato e complesso. In Tunisia, ad esempio, ha avuto un ruolo chiave nel favorire una evoluzione democratica dopo la rivolta popolare contro Ben Ali. Per questo sono molto dubbioso per il sostegno acritico che è stato dato ad Al Sissi dopo il colpo di stato dei generali in Egitto. Non credo che, nel lungo periodo, una dittatura militare che si rivolge contro la maggiore forza popolare del paese possa garantire la stabilità di quella grande e decisiva nazione che rappresenta una parte così rilevante del mondo arabo. Credo che l’Europa dovrebbe spingere con maggiore determinazione per porre fine alla repressione, per la liberazione dei leader incarcerati della Fratellanza musulmana e per un processo di pacificazione che eviti il rischio di una guerra civile strisciante. Noi dobbiamo guardare alla realtà del Medio Oriente, e quindi anche dell’Egitto, dal punto di vista degli interessi europei che non coincidono necessariamente con quelli della destra israeliana; anzi in questa fase divergono su diversi punti fondamentali.
Di particolare importanza in questo senso è il tema del rapporto con l’Iran. L’accordo sul nucleare e la conseguente fine dell’isolamento dell’Iran rappresentano un passo fondamentale. Mi fa piacere sottolineare il ruolo importante avuto dall’Europa e dalla Alta Rappresentante nella conduzione del negoziato nel raggiungimento di un’intesa. L’Iran è un paese complesso nel quale certamente l’apparato religioso-militare legato all’integralismo sciita ha un peso rilevante; tuttavia è anche un paese dove sono forti componenti politiche di ispirazione riformista le quali oggi sembrano avere un’influenza prevalente sulla presidenza Rohani. Ma soprattutto l’Iran è un paese evoluto nel quale esiste una società civile, un mondo culturale e nuove generazioni aperti e che guardano senza ostilità verso l’Occidente. Avere considerato l’Iran come nostro nemico principale e avere perseguito una politica di ostilità e isolamento è stato un errore. Questo corrispondeva soltanto agli interessi e alla volontà della parte più miope della leadership israeliana, ma era totalmente contrario agli interessi nostri. Il nemico principale nel Medio Oriente è il fondamentalismo di marca wahabita nelle sue espressioni estreme, in particolare Al Qaida e lo Stato islamico. Chi si oppone a questo nemico non può che essere un nostro interlocutore. Per contenere l’espansione del fondamentalismo è molto importante che l’Occidente apra un confronto vero con alcuni dei suoi tradizionali partner nella regione: penso alla Turchia e all’ambiguità della sua condotta, penso all’Arabia Saudita, al Qatar e in generale al Golfo. Certamente per creare le condizioni di una collaborazione tra paesi che si sono contrapposti in modo anche aspro occorre chiedere anche all’Iran la disponibilità al dialogo e la rinuncia a sostenere spinte destabilizzanti, come per esempio nello Yemen. Credo che un dialogo diretto tra Iran e Arabia Saudita sarebbe una condizione indispensabile per aprire una fase nuova, ridurre i rischi di un lacerante conflitto tra sciiti e sunniti, isolare e sconfiggere le componenti più estremiste. Allo stesso modo continuo a ritenere importante che riprenda l’iniziativa a favore della pace tra israeliani e palestinesi. La politica arrogante e irresponsabile di colonizzazione dei territori palestinesi, condotta dalla destra israeliana, rischia di spazzare via del tutto ogni speranza di una soluzione basata sulla convivenza fra due stati nella regione. Le conseguenze sarebbero inevitabilmente quelle di indebolire le forze laiche, democratiche e di ispirazione socialista nel campo palestinese a favore del fondamentalismo. L’Europa deve e può fare di più: è stato sufficiente che l’Europa ponesse finalmente il problema del blocco dei prodotti israeliani che provengono dalle colonie costruite in violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, per dare una scossa e aprire un dibattito interno alla società israeliana. Si tratta di esercitare una pressione incisiva anche perché gli Stati Uniti d’America, dove pure matura un crescente fastidio per le scelte di Nyetaniahu, difficilmente potranno compiere passi decisivi se non tornerà ad esserci una forte sollecitazione europea."
La crisi che viviamo, non certo uno dei tanti cicli depressivi del Capitalismo, ma una vera e propria crisi della Modernità e della civiltà del lavoro, è stata descritta da alcuni osservatori come un conflitto economico mondiale, che sta cambiando gli equilibri geopolitici fra le grandi potenze. Appare sempre più evidente l’insostenibilità di un sistema che si fonda sull’unicità del dollaro come moneta di riferimento internazionale ed è notizia recente il varo della Banca Mondiale dei BRICS, in contrapposizione all’egemonia del FMI e della World Bank. Quali scenari geopolitici si stanno prefigurando nella citata ridefinizione dei rapporti di forza tra le principali potenze mondiali?
"L’istituzione della Banca mondiale dei BRICS costituisce un’ulteriore prova del carattere multipolare dell’equilibrio internazionale. Naturalmente, questo dovrebbe sollecitare un riordino generale degli strumenti esistenti. Questi paesi avvertono di non avere uno spazio sufficiente nelle istituzioni internazionali esistenti. Parliamoci chiaro: vi sembra ragionevole che la Cina e l’Italia abbiano la stessa rappresentanza nel FMI? E ancora, a quali equilibri mondiali corrisponde la composizione del G7? O l’Occidente si muove verso una riforma inclusiva, tenendo conto del mutamento dei rapporti di forza, oppure il rischio è che nascano istituzioni che determinino una dialettica conflittuale con quelle esistenti. Abbiamo ormai un assetto delle istituzioni mondiali che non riflette i nuovi equilibri in cui ci muoviamo. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è l’immagine del mondo del dopoguerra. L’Europa potrebbe dare un grande contributo al necessario riassetto, decidendo finalmente di rappresentarsi unitariamente. Inoltre, l’Eurozona dovrebbe avere una voce sola nelle istituzioni finanziarie internazionali, di modo da essere più autorevole di un coretto spesso discorde e dunque irrilevante. Una regola fissa è che l’Europa quando si presenta divisa non conta nulla: lo si è visto nella crisi irachena del 2003."
A proposito della guerra in Iraq, pensi possa essere interpretata, tra l’altro, come un tentativo della destra neo-con statunitense di arrestare la proiezione europea verso il Mediterraneo ed il Processo di Barcellona del 1995?
"In qualche modo, sì. Però sia chiaro, l’Europa ci ha messo del suo. Essa non ha mai avuto una posizione coraggiosa sul nodo mediorientale. L’Unione per il Mediterraneo non si è mai riunita perché sul nodo israelo-palestinese si è bloccato tutto. Infatti, le forme di cooperazione che hanno funzionato di più sono state quelle tra Europa e Nordafrica, proprio perché potevano in qualche modo prescindere dalla questione mediorientale. Anche la cooperazione tra Europa e Nordafrica ha però incontrato delle difficoltà, legate alla crisi del Maghreb, riconducibile al conflitto fra Marocco e Algeria e al fatto che l’Europa non ha mai avuto la capacità di prospettare una soluzione ragionevole della questione del Sahara occidentale in grado di mettere d’accordo algerini e marocchini. Ci siamo divisi tra Paesi che hanno parteggiato per il Marocco, come la Spagna, e Paesi simpatizzanti per l’Algeria. La politica mediterranea dell’Europa è stata una politica faticosa, proprio perché sui nodi conflittuali, non è stata in grado di intervenire con la dovuta autorevolezza."
Veniamo ora al nostro paese ed alla sinistra italiana. Con sguardo retrospettivo, ritieni che il necessario superamento del Pci sia stato intrapreso su basi sufficientemente solide in termini di analisi della sua crisi e del mutamento dei rapporti di forza in Occidente sancito a cavallo tra gli anni ’70 e ’80? Quanto ha poi pesato- nella fase successiva- la subalterna adesione della sinistra italiana alle idee e alla lettura dei grandi processi avanzate dalla ‘Terza via’ di Clinton e Blair?
"Il superamento del Pci era una scelta necessaria per aprire una prospettiva nuova alla sinistra italiana, a prescindere dal modo in cui è stato sancito. Io sono abbastanza critico, e lo ero anche allora, su come questo passaggio fu realizzato. Tuttavia, rimane un merito incancellabile aver preso questa decisione, che richiedeva una dose notevole di coraggio politico, perché il Pci, proprio per la sua natura positivamente ambigua di partito comunista originale e democratico, era un partito che poteva anche pensare di sopravvivere alla caduta del comunismo. Infatti, la discussione ci fu ed era legittimo che ci fosse. Si poteva sostenere che il Pci era una forza diversa rispetto al comunismo che crollava.
Il problema vero era, secondo me, che anche quel progetto di rinnovamento del comunismo in senso democratico, di cui il Pci era l’interprete, era stato già storicamente sconfitto a partire dalla liquidazione della Primavera cecoslovacca del ’68. Il tentativo di riforma di Gorbaciov avvenne poi così tardi da non potere avere altro risultato se non una accelerazione del crollo di un regime oramai condannato dalla storia.
La mia opinione è che nel corso degli anni ’90 e poi nel primo decennio del nuovo secolo la sinistra abbia subito il peso di un’egemonia culturale liberista e di una visione ottimistica e acritica della globalizzazione. Intendiamoci, io continuo a ritenere che l’incontro con la cultura liberale abbia avuto anche aspetti positivi nell’emancipare la nostra tradizione rispetto al peso di una visione statalista che aveva mostrato i suoi limiti e non solo nella esperienza sovietica. Tuttavia è giusto riflettere in modo autocritico sul ritardo con cui l’insieme delle forze progressiste hanno compreso che la deregulation e l’esaltazione acritica del mercato avrebbero aggravato le diseguaglianze e creato le condizioni per un blocco dello sviluppo, come poi è avvenuto. Lo stesso Clinton d’altro canto ha riconosciuto recentemente che la sottovalutazione del ruolo dello Stato ha rappresentato un errore dei progressisti e suo nel corso della esperienza di governo. Non credo sia giusto dire che la sinistra italiana – che pure non è stata esente da questi errori – abbia aderito subalternamente al blairismo. Noi cercammo di mantenere un collegamento sia con Clinton e Blair, sia con le forze più tradizionali del socialismo europeo. Non a caso l’incontro di Firenze ebbe questa ampiezza. Bisogna anche dire che nella esperienza dell’Ulivo un peso rilevante e positivo ha avuto anche una ispirazione cattolica legata ad una tradizione che non è certo ispirata all’ultraliberismo.
La mia opinione è che ciò che condizionò negativamente la svolta e la prima fase del Partito democratico della sinistra fu piuttosto una certa subalternità rispetto al “nuovismo” e all’antipolitica che influenzarono enormemente l’opinione pubblica italiana nel vivo della crisi di quella che è stata chiamata la Prima Repubblica. L’esaltazione acritica della società civile contro i partiti è una lettura della crisi italiana che metteva in ombra gli elementi profondi materiali e strutturali per privilegiare l’idea che il male del paese fosse la cosiddetta partitocrazia e il consociativismo, come se la questione morale non investisse in pieno anche i poteri economici e i caratteri stessi del nostro capitalismo. Non a caso l’illusione secondo cui, spazzati via i vecchi partiti, noi saremmo approdati al potere con la forza di una legge elettorale maggioritaria si rivelò alquanto inconsistente. Una volta liquidato il sistema politico, la società civile portò Berlusconi al governo del paese, dato che, come è evidente, egli era in grado molto meglio di noi di interpretare l’antipolitica e di portarla alla guida dell’Italia."
La sinistra, non da ultima quella italiana, soffre indubbiamente della mancanza di un mito di mobilitazione di massa di cui invece dispone l’avversario, si pensi alla liberazione dell’individuo da ogni tipo di vincolo, alla libera espressione della propria volontà di potenza. Qual è secondo te il terreno su cui provare a costruirne uno capace di dotare la nostra parte della necessaria autonomia?
"C’è sicuramente bisogno di un’idea-forza intorno a cui ricostruire la sinistra e la sua identità. Secondo me questa idea-forza sta nel nesso tra uguaglianza e democrazia. In fondo, la grande crisi del capitalismo finanziario e senza regole – che ha preteso di ergere il suo potere globale distruggendo il ruolo regolatore delle istituzioni politiche – si è generata a partire dalle disuguaglianze. Il giorno in cui la famiglia americana media si è talmente impoverita da non essere più in grado di pagare la rata del mutuo della casa, è stato il sistema nel suo complesso a crollare. Il motivo reale per cui quella famiglia si è impoverita è che il capitalismo finanziario ha indebolito il lavoro, ha concentrato la ricchezza nelle sue mani generando un’insostenibile disuguaglianza, il che è anche la radice della crisi democratica che stiamo vivendo. In sintesi, la democrazia è attuale se rimane fedele alla sua ragione fondativa, ovvero l’uguaglianza. E qui sta il nesso di cui parlavo. La crescita delle disuguaglianze mette in crisi la democrazia, genera un sistema dominato dalla ricchezza finanziaria, che si sostituisce alla politica diventando il nuovo potere. Un potere fondato sulla diseguaglianza e che genera diseguaglianza. Non è un caso che questo sia il tema che la Chiesa romana prende oggi in mano per rilanciare la sua funzione universale."
Fonte: Pandorarivista
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