di Marco Bascetta
La macchina infernale del lavoro gratuito, saldamente piantata nel cuore del sistema-paese, si va arricchendo di un settore molto promettente nella sostituzione di quello retribuito, a vantaggio delle amministrazioni comunali.
Si tratta del cosiddetto «baratto amministrativo», fondato sull’articolo 24 del decreto Sblocca-Italia. Si prevede che singoli e associazioni possano proporre interventi, «pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale», in cambio di sconti fiscali.
Con una interpretazione alquanto estensiva, per non dire capziosa di questa generica norma, diverse amministrazioni comunali vi hanno scovato lo strumento per recuperare crediti fiscali altrimenti inesigibili. Tra i primi a sperimentare questa strada fu un comune della provincia di Novara che aveva offerto a un cittadino in arretrato con la Tasi e il canone di affitto di un appartamento comunale di sdebitarsi svolgendo gratuitamente lavori di manutenzione. L’episodio fu prontamente celebrato su diversi organi di stampa come edificante esempio di collaborazione tra cittadini e istituzioni pubbliche, come nuova forma di partecipazione, sia pure non proprio volontaria, ai bisogni della collettività.
Nei giorni scorsi, due comuni importanti, quello di Milano e quello di Bari, (quest’ultimo su sollecitazione dei 5Stelle) si sono accodati alla pratica del baratto amministrativo, non in cambio di sconti fiscali ma a saldo di debiti pregressi contratti da soggetti in difficoltà economica.
Non ci è ancora dato sapere quali saranno le condizioni del baratto e cioè l’equivalente monetario dell’ora lavorata nell’estinzione del debito e le condizioni di lavoro. Ma dobbiamo ragionevolmente supporre che risulteranno più vantaggiose per l’ente pubblico di quelle del lavoro retribuito garantito da contratti collettivi e protetto da organizzazioni sindacali. Il debitore si trova infatti in una oggettiva condizione di debolezza, non deve avere ma restituire, il suo potere di contrattazione è pari a zero.
L’uso delle parole è ormai correntemente abusivo e fuorviante, quando non puro e semplice fumo negli occhi. Il baratto è infatti notoriamente uno scambio tra eguali che, per definizione, non implica relazioni di obbligatorietà né risarcimento di debiti monetari. Men che meno comporta risvolti punitivi. Del resto la generosa offerta dei Comuni non si rivolge certo agli evasori fiscali, ma alla cosiddetta «insolvenza incolpevole». Vale a dire al contribuente che non è stato in grado, per avverse condizioni o, peggio, per sproporzione permanente tra il proprio reddito e la pressione fiscale cui è sottoposto, di saldare il debito. Qualcuno ha ragionevolmente introdotto, in questi casi, il termine di elusione o evasione «per necessità», suscitando generale indignazione. La prestazione lavorativa richiesta a questi soggetti non ha dunque alcun carattere volontario o propositivo e, men che meno, di baratto. Si tratta, insomma, di una forma mascherata di coazione, che esclude qualunque valutazione sulla sostenibilità sociale del debito e sull’equità fiscale del sistema.
Il termine che meglio si adatta a queste pratiche è l’antico istituto della corvée che imponeva una certa quantità di lavoro gratuito come tributo da versare al feudatario o, più precisamente ancora, la corvée royale istituita nel 1738 per costringere i contadini a un «lavoro socialmente utile» e decisamente «pubblico», ossia la manutenzione delle strade. Obbligo abolito, non a caso, nel 1789 e ripristinato a rivoluzione conclusa. Allora, come oggi, la possibilità di versare tributi in forma di lavoro gratuito piuttosto che in forma monetaria veniva considerata una generosa concessione nei confronti dei vassalli.
Nel caso del «baratto amministrativo», poi, non si tratta nemmeno di versare un tributo, ma di saldare un debito pregresso. Lo schema ricalca dunque quella «servitù debitoria” attraverso la quale i possidenti caraibici del XVII secolo si assicuravano il servaggio dei migranti più poveri, acquistando sul mercato il debito contratto con gli armatori in cambio del viaggio. Pur celandosi dietro una parvenza di contratto a termine si trattava di fatto di una forma, spesso feroce e il più delle volte inestinguibile, di schiavitù. Tuttora diffusissima nel mondo della tratta di esseri umani, migranti e non.
E’ ovvio che il paragone è una pura e semplice forzatura, una provocazione. Ma, sul piano dei principi, ha un senso ben preciso. Se si ammette lo scambio diretto tra il lavoro e un debito che non può essere pagato altrimenti, che sia nei confronti di un privato o di un ente pubblico, si attenta inevitabilmente alla libertà della persona. Si certifica che i suoi diritti sono subordinati a quelli dei creditori. E si sblocca, in una forma o nell’altra, il ritorno della servitù debitoria.
Ciò che allarma, dunque, è che questo genere di transazioni, nell’ignoranza delle inquietanti implicazioni che comportano, suscitino tanto superficiale entusiasmo. Quasi si trattasse di una occasione in più, di un correttivo sociale alla freddezza della ratio burocratico-fiscale. E non invece di uno strumento di esazione studiato per spremere, in un modo o nell’altro, anche le fasce più povere della popolazione.
A Roma i cittadini vengono chiamati al lavoro gratuito di pulizia dei loro quartieri disseminati di immondizie. Tra i promotori dell’iniziativa figura l’Ama, il disastrato ente comunale in via di privatizzazione che se ne dovrebbe occupare. Non risultano baratti amministrativi in corso. La retorica della partecipazione può bastare. Senza sconti, questa volta.
Fonte: il manifesto
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