di Giuseppe D'Elia
Il mancato raggiungimento delle firme necessarie per la presentazione dei quesiti referendari, lanciati frettolosamente quest’estate, per abrogare alcune norme delle cosiddette riforme renziane, offre l’occasione per ragionare bene su come coordinare al meglio l’opposizione all’iniziativa governativa.
Pippo Civati, giustamente, ha sempre sostenuto che sui contenuti c’è un vasto accordo tra tutti quelli che non appoggiano il governo Renzi. Ma non basta essere critici del Jobs Act, dello Sblocca Italia, della Buona Scuola e dell’Italicum. Non solo perché, chiaramente, non tutte le critiche a queste leggi hanno lo stesso segno (la prospettiva critica di Lega e Forza Italia è verosimilmente diversa da quella di Sel e M5S). Ma perché se si vuole intervenire su queste leggi, con lo strumento del referendum abrogativo, bisogna fare molta attenzione alla scrittura dei vari quesiti: la forma in questo caso conta quanto la sostanza, se non si vuole rischiare che la Corte costituzionale li dichiari inammissibili.
Tuttavia, l’errore più grande che c’è stato in questa improvvisata campagna referendaria estiva è stato quello di sopravvalutare il peso effettivo del malcontento che c’è oggi nel Paese, verso l’azione governativa.
Questo è un punto fondamentale: oggi è vero che c’è una fetta consistente dell’elettorato attivo (intorno al 40%, stando ai sondaggi) che non sa chi votare o non vota, ma questo non significa solo ed esclusivamente sfiducia nel governo Renzi e nel PD.
Gli astenuti e gli indecisi sono senz’altro un bacino potenziale di voti a cui l’opposizione di sinistra deve guardare con estrema attenzione, ma nella consapevolezza che, oggi, questi elettori così come non si sentono rappresentati dal PD renziano, non lo sono nemmeno dalle altre forze di opposizione, siano esse di destra, siano esse il M5S, siano esse le residuali forze della sinistra di area GUE/NGL (quelle che alle Europee avevano sostenuto unitariamente Alexis Tsipras, per intenderci).
Civati, probabilmente, dopo essere uscito dal PD, che risultava del tutto impermeabile all’opposizione interna, si è convinto che nel Paese ci fosse, già pronta, la forza politica (e il sufficiente consenso) per sconfiggere Renzi.
Errore gravissimo perché attaccare Renzi con dei referendum abrogativi non significa solo raccogliere 500mila firme in tre mesi: la vera sfida politica, infatti, è quella di portare al voto 25 milioni di cittadini a sostegno del SÌ, perché tanti ce ne vogliono, essendo ormai prassi consolidata, per chi sostiene il no, fare leva sull’astensione, in modo da far mancare il quorum, ossia la partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto.
Questa sfida, in Italia, non si è mai più vinta in (quasi) tutte le consultazioni referendarie successive al 1995 e l’eccezione notevole, quella del vittorioso referendum del 2011, non può essere presa a modello, a causa delle particolarissime circostanze che l’hanno favorita (su tutte la tragedia del disastroso incidente nella centrale nucleare di Fukushima).
Per tutti questi motivi, oggi, non ha alcun senso mettersi a recriminare su «chi non ha voluto partecipare»: se il Paese fosse stato già pronto a mobilitarsi in massa — stiamo parlando sempre di almeno 25 milioni di elettori — contro le leggi del governo Renzi, le 500mila firme si sarebbero fatte agevolmente. Anche con i media ostili (e quando mai sarebbero stati favorevoli, visto che cantano in coro a sostegno di Renzi da quando si è insediato?). Anche lavorando solo nell’ultimo mese disponibile (luglio e agosto sono mesi difficili da coprire, anche in stagioni meno calde di quella che abbiamo avuto quest’anno). Anche senza l’appoggio formale di partiti, movimenti e associazioni, che alla fine, pur non essendo stati parte attiva nel processo di stesura dei quesiti, a livello di adesioni singole, comunque un apporto, più o meno significativo, lo hanno dato.
Che fare, dunque, ora? Un percorso possibile per mobilitare l’opposizione al governo Renzi potrebbe essere, come già si è suggerito a suo tempo, quello di costruire i comitati referendari, innanzi tutto, a difesa della Costituzione e quindi per votare NO al referendum confermativo della riforma organica della Carta, che si dovrebbe tenere nel 2016.
I vantaggi di un’azione siffatta sono molteplici: non solo si evita lo scoglio notevole del quorum, che in questo caso non è previsto, ma soprattutto dovrebbe essere molto più semplice, per raggiungere l’obiettivo, provare a instaurare anche forme di collaborazione con le altre opposizioni, con particolare attenzione al M5S.
Quest’ultimo punto, ad avviso di chi scrive, è decisivo: costruire una mobilitazione elettorale senza avere nessun soggetto politico con un forte consenso nel Paese è un obiettivo che rasenta il velleitarismo.
È importantissimo allora che il percorso referendario sia anche un percorso genuinamente politico: opposizione alla riforma costituzionale e campagna elettorale per il NO al referendum confermativo; parallelamente ampia e aperta consultazione sui referendum abrogativi da votare nel 2017, con la costruzione di un progetto elettorale che si fondi sugli stessi contenuti politici: difesa del lavoro, della scuola, dell’ambiente, dell’assetto istituzionale democratico.
Essere presenti, fin dalle prossime amministrative, come soggetto politico nuovo con i suoi contenuti politici, diversi da quelli del governo Renzi ma aperti a qualunque forma di collaborazione positiva con M5S. Anche su questo bisogna essere pragmatici: perché lasciare a loro il pallino del siamo disposti a collaborare con chiunque sostenga il nostro programma? Perché non adottare anche da sinistra la stessa tattica? Anche noi abbiamo un programma. Anche noi siamo disposti a lavorare assieme a chi ci sta. Forse un po’ di tattica, insomma, accanto a una valida strategia, non ci farebbe poi così male; oltre a una buona dose di apertura mentale e di generosità politica, naturalmente.
Fonte: Esseblog
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