di Giorgio Fontana
I seguenti dodici punti cercano di tracciare una fenomenologia e un'analisi del lavoratore del terziario avanzato: giornalisti compensati cinque euro al pezzo, “creatori di contenuti” senza garanzie, addetti stampa in partita IVA che non riescono a campare, cognitariato generico e sottopagato e così via. Prima però sono necessarie due cautele sugli scopi e la portata dell'articolo.
E chiamiamolo sempre “padrone”, anche se...
Innanzitutto, trovo le teorie sulla “terziarizzazione globale del lavoro” profondamente errate. L'idea di una produzione smaterializzata e della sua metamorfosi in puro servizio – mentre gli impegni “di fatica” saranno prima o poi affidati alla sola robotica – è molto ingenua e sganciata dalla realtà dei fatti. Che vi sia stato un aumento del settore dei servizi è palese, ma molto spesso in tale settore vengono ridistribuite figure legate alla produzione o alla manifattura, in particolare a causa della crescente esternalizzazione. (Per un'analisi stimolante di questo tema, rimando al prezioso lavoro di Clash City Workers, Dove sono i nostri, edizioni La casa Usher, 2014).
Del resto, non serve andare molto lontano per rendersi conto del doloroso e onnipresente peso della materia. Il corpo sfinito di un bracciante in un campo di pomodori in Puglia mette a tacere ogni profeta. Il lavoro primario e secondario è ancora cruciale; si è fatto solo meno visibile, sempre più relegato a nicchie di nuova povertà ed emarginazione – è tristemente uscito dai parametri del discorso comune. (E come vedremo, rischia di scivolare fuori anche dalla prospettiva del cognitariato, che spesso si dipinge o viene dipinto come la vera vittima del sistema).
Se il “lavoratore della conoscenza” e quello manuale condividono ora a volte una prospettiva di reddito che può accomunarli in una sorta di classe trasversale, non dovremmo mai dimenticare il nuovo sottoproletariato che giace al di sotto di tutto questo, come una vena carsica, spaventosamente sfruttata e sempre più deprivata di diritti.
Una lotta cosciente per i diritti di tutti i lavoratori dovrebbe tenere questi fatti nella massima considerazione, e non ricreare una “élite depauperata” quale può essere il terziario avanzato. C'è chi sta molto peggio; e il conflitto per migliorare questa condizione non deve mai oscurare la priorità di migliorare quella di chi sta molto peggio. La lotta è una e una sola; qui dunque mi soffermerò soltanto su un frammento del grande problema dell'occupazione e dello sfruttamento contemporanei.
In secondo luogo, potrà sembrare passatista il mio uso del termine “padrone” – una concessione alla nostalgia, al lessico che fu. Al contrario, rivendico questo termine proprio perché appare fuori luogo: perché ricorda un dominio indiscutibile e cieco. Per “padrone” intendo chiunque sia in una posizione di forza in una data situazione lavorativa. Chiunque: non solo il proprietario dell'azienda, ma anche il capo del determinato settore, o persino il diretto superiore, benché anch'egli faccia parte del meccanismo generale del capitalismo. So che è una definizione molto ampia e probabilmente non incontrerà favori; ma vorrei mantenerla per sottolineare come lo sfruttamento sia una questione ubiqua, che vive in moltissime relazioni lavorative al di là di quella, originaria, del capitalista e della massa di operai al suo servizio.
Inoltre tale dialettica svela, senza troppe remore, la logica sottostante a ogni rapporto di lavoro salariato: anche nel migliore e più virtuoso dei casi, chi comanda rimane il padrone di chi esegue; cede sempre e comunque a un piccolo ricatto implicito, che diventa enorme e insopportabile quando i diritti che lo delimitano vengono erosi – come sta accadendo ovunque.
Ecco ora le mie note.
Il lavoratore è operativamente scisso
Viene tenuto in equilibrio tra compiti specializzati e compiti ripetitivi (es. la redazione di testi sempre uguali, tagline sempre più simili, una sorta di “creatività strozzata”). Questo lo umilia ma nel contempo gli fa pensare che sta facendo qualcosa di “coerente con la propria formazione”. E quindi, dopotutto, bene così: anche se lo stipendio è assolutamente sproporzionato in basso agli studi – ai soldi e al tempo – spesi per arrivare fin lì. Non è una questione di dignità, ma di rischio: il rischio di vanificare l'idea stessa della formazione. Si accetta tutto, anche l'impiego più cretino, perché quantomeno è “dentro al settore”, “fa curriculum” – “serve” per un futuro sempre più irraggiungibile.
Il lavoratore è concettualmente scisso
Al posto del concetto unificatore di classe, troviamo una serie di etichette generiche che io stesso ho utilizzato: “precariato intellettuale”, “lavoratori della conoscenza”, “terziario avanzato”. Se da un lato esse catturano la realtà trasversale di questo fenomeno (non limitabile alla mera classe sociale), dall'altro non sembrano ancora avere una funzione efficace in termini di lotta. Benché genericamente ascrivibile alla “classe media impoverita”, il lavoratore del terziario avanzato può provenire da realtà sociali molto diverse; e questo rende problematica la formazione di una sua coscienza per l'acquisizione o il mantenimento di determinati diritti. Se questi termini-etichetta non riescono a farsi classe, e dunque a mettere in modo un conflitto produttivo, è anche perché sono troppo duttili e variegati; nella loro complessità, non hanno una forza d'impatto immediata come invece la parola “operaio”.
Il lavoratore è alienato dal punto di vista valoriale
L'alienazione marxiana si arricchisce di un nuovo termine: non solo il lavoratore viene espropriato di quanto produce e del valore di quanto produce; ma si rende conto che quanto produce è essenzialmente inutile, se non dannoso. Il fenomeno dei bullshit jobs (“lavori di merda”, n.d.r.) descritto da David Graeber nel suo omonimo saggio è in tal senso esemplare. “Riempiamo la rete di rumore bianco”, mi disse un amico che da anni scriveva contenuti per portali generalisti. Sappiamo che quanto facciamo contribuisce a reggere un sistema ingiusto; ma è quanto ci viene offerto. La sua coscienza politica è scissa. Le alternative sembrano gettare vanamente un voto come una moneta nel pozzo dei desideri al partito al momento più di sinistra, per quel che significa, oppure rassegnarsi al nichilismo. (C'è però una terza strada, che è quella più propriamente anarchica: un astensionismo attivo, una diserzione dalle illusioni partitiche, legata a una riorganizzazione del sindacalismo di base. Riportare tutto il piano della lotta al livello terreno: un compito difficile e urgente).
Il lavoratore è alienato dal punto di vista sociale
La distinzione fra lavoro e vita privata è soggetta a un'erosione sottile e continua. Ovunque il padrone possa mettere le mani per ottenere profitto, lo fa: che si tratti di chiedere al lavoratore di far girare la voce su un evento, o di consigliare il prodotto ad amici e parenti – qualunque cosa. Naturalmente i social media sono un mezzo ideale per espropriare il lavoratore del suo capitale sociale, e sfruttarlo anche nel privato. Una grossa agenzia ha chiesto ai suoi impiegati di condividere su Twitter, con un hashtag aziendale, delle scene di allegria in ufficio. Anche la tua cerchia di amici, anche il frutto del tuo impegno personale su un network, deve essere posta a servizio del padrone – perché dopotutto “Ti chiedo solo un tweet! Cosa ti costa?” Mi costa tutto: perché sto lavorando gratis per te, per di più su una piattaforma che si arricchisce proprio grazie ai miei dati.
Il lavoratore non ha tempo
Nel 1930 John Maynard Keynes fece una celebre previsione: entro la fine del secolo lo sviluppo tecnologico ci avrebbe reso in grado di lavorare 15 ore alla settimana. Ed è vero: lo sviluppo tecnologico potrebbe permettercelo; e più in generale potremmo lavorare meno per lavorare tutti. Ma non è così: il capitalismo necessita tanto di controllo sul tempo quanto di produzione; e in questo si inserisce il tipo di impiego del terziario avanzato: fornire sempre nuovi servizi a fianco di nuovi prodotti; e insieme occupare tempo e immaginario: impedire lo studio, il miglioramento personale, il gioco, la socialità; mortificare, in una parola, la capacità immaginativa del lavoratore specializzato – e dunque tanto più pericoloso per il sistema. In 24/7. Il capitalismo all'attacco del sonno(Einaudi 2015), Jonathan Crary ha illustrato come il capitalismo contemporaneo si dirige verso un dominio assoluto sull'intero tempo del singolo: una “veglia globale” dove ogni istante va ricondotto alla produzione surretizia.
Il lavoratore è solo
Alla base di tutto ciò c'è un'estrema solitudine, una gravissima perdita di unità materiale: la consapevolezza di condividere una situazione di sfruttamento viene rimossa subito, e incapace di trovare sbocchi di lotta concreti. Lo slogan più diffuso potrebbe essere un rassegnato “Mal comune, mezzo gaudio”. Avete mai visto uno sciopero in un'agenzia di comunicazione? Dovremmo vedere gatti selvaggi ovunque; non ne vediamo nessuno.
All'aggregazione si preferisce, dominati come si è dalla paura, l'omertà e persino la delazione nella speranza di trovare un minimo di sicurezza in più: la logica individualista che cerca di portare acqua al proprio mulino, e si risolve unicamente a favore del padrone. Alla retorica della solidarietà si sostituisce la retorica della competizione, frutto ingannevole del capitalismo digitale – saremo tutti startupper, tutti imprenditori di noi stessi.
Il lavoratore è depresso
Semplice: l'odio di classe si avvita su di sé. La perdita dell'etica della rivolta, del desiderio di combattere per i propri diritti, corrisponde a una “introiezione del conflitto”, come la chiamò Christian Raimo in un articolo sul blog Minima&moralia: invece di migliorare la propria situazione lavorativa e sociale, si cerca in tutti i modi di non farla precipitare. Si vedono anni di formazione andati persi, inutili, il sogno dei padri crollare miseramente a terra. Isolamento, pessimismo e mancanza di un'alfabetizzazione della lotta portano a una fase di depressione comune.
Al peggio, il meccanismo si traduce in quella aberrazione che è lasolidarietà negativa: se le mie condizioni di lavoro peggiorano, allora che peggiorino per tutti; invece di lottare per migliorarle, mi limito a vivere in un odio indiscriminato, in un risentimento diffuso: l'odio si sposta dal padrone all'interno della classe sulla scorta della competitività di cui sopra – ogni minuscolo miglioramento della condizione di un individuo paritario è vissuto come un privilegio che offende. Inutile aggiungere che tale perversione dissolve l'idea stessa di un fronte comune dei lavoratori, che sia molecolare (nel piccolo) od organico (nel grande). L'isolamento raddoppia, il nichilismo è ormai parte integrante della coscienza lavoratrice; ma non è finita qui.
Il lavoratore è psicologicamente sottomesso
Avendo ricevuto un'educazione per cui “se studi e lavori sodo ottieni dei risultati” – ed essendo nel contempo abituato a uno stile di vita mediamente più alto rispetto a quello che ebbero i suoi padri alla sua età – il lavoratore non conosce metodi adeguati di lotta e tende a sottovalutare il bisogno di uguaglianza nell'acceso al mondo che frequenta. Soprattutto, fraintende l'impiego come un gesto caritatevole da parte del padrone (di questi tempi, un lavoro! è un sogno!) e dunque si sottomette per intero alla logica perversa della produzione: assume compiti che non gli spettano, perde ogni connotazione ribelle, piega la schiena perché costretto in uno stato di ansia continua, di ricatto eterno.
Il caso limite è una forma di perversione diabolica: per infondere un briciolo di senso in una vita così disperata, il lavoratore si convince a credere nel grande progetto aziendale; diventa di sua sponte ingranaggio, anche della peggiore delle macchine. Diventa un “servo volontario”, per usare la terminologia di La Boétie: non avendo altro per cui godere – ed essendo il lavoro così onnipresente, sia quando manca che quando c'è – egli cerca di godere di tale situazione malata. Eppure anche un operaio non specializzato nella Torino del 1967 poteva essere ricattato e perdere il posto: perché non chinava il capo, perché non credeva all'inganno capitalista? Perché non era stato plagiato. Perché sapeva che il rischio di perdere è connesso alla possibilità di ottenere qualcosa di meglio. Perché conosceva la dignità.
Il lavoratore si inserisce in un processo destinale
La questione della lotta viene dunque rimandata all'infinito: non avendo un orizzonte comunitario, non avendo fiducia, non avendo nemmeno un'educazione alla resistenza collettiva, il futuro assume la cupa tonalità del destino – andrà come deve andare, speriamo in bene. Il lato religioso del sistema, come illustrato nel piccolo frammento di Walter BenjaminCapitalismo come religione, trova qui un inquietante compimento: il lavoratore del terziario avanzato diventa, o meglio si offre come carne sacrificale per il dio del profitto, non sapendo che altro fare. La confusione delle lingue giunge al culmine.
Il lavoratore lavora male
Per tutti questi motivi, anche nella condizione in cui si trovi a fare ciò che ama – ciò che gli piace e lo gratifica, “ciò per cui ha studiato” – molto spesso il lavoratore lavora male, o comunque meno bene di quanto potrebbe. Questo ha ovviamente una ricaduta sull'intera società: il prodotto non soddisfa chi lo produce e nemmeno chi ne usufruisce; diventa unicamente una variabile nel gioco del profitto. Il contenuto digitale illustra al meglio questo paradosso: non importa la qualità di quanto si scrive o propone, solo il numero: il fine non sono i lettori, ma i click per guadagnare tramite pubblicità. (Qui tornano particolarmente attuali le riflessioni di Camillo Berneri sul lavoro attraente. Non c'è necessità di respingere il lavoro tout court: c'è necessità di sganciare il lavoro dalle sue modalità salariate e parasalariate più umilianti).
Il lavoratore parla la lingua del padrone
Competitivo; flessibile; imprenditore di se stesso; cosciente della crisi e dunque prono allo sfruttamento (così come all'eventualità disposto a sfruttare); capace di fare sempre di necessità virtù. Ricordiamo tutti la celebre frase di don Milani: “L'operaio conosce cento parole, il padrone mille, per questo è lui il padrone”. Ma che dire di oggi, dove il lavoratore del terziario avanzato conosce ben più di mille parole, e spesso ne conosce molte più del padrone? Significa che l'educazione non serve a nulla? Al contrario. Ma abbiamo lasciato da un lato che il lavoratore non la usasse nel modo migliore e collettivo, e dall'altro che facesse sue le stesse parole del padrone – ma senza ottenerne in alcun modo il potere promesso.
E così il lavoratore si trova scisso fra un'ambizione padronale che non potrà mai attingerne (e che lo frustra) e una condizione di sottomissione e disparità (che lo umilia). Invece di solidarietà, eguaglianza e diritti, parla di competitività, rischio d'azienda e mercato. La lingua padronale, introiettata dal dipendente, crea un paradosso dolente. Il lavoratore può avere anche centomila parole a disposizione: ma se non sa pronunciare la più importante – No – allora tutto è vano.
Il lavoratore è miope
Di fronte a tutto questo, il lavoratore dà per scontato che non esistano alternative. Non qui, non ora, e nemmeno domani: coltiva vaghi sogni di emigrazione nel resto dell'Occidente prosperoso e “meritocratico”, ma in fondo sa che il virus si replicherà ovunque alla stessa maniera. Allo stesso tempo, il lavoratore è talmente immerso nella dimensione immateriale – nel tempo in ufficio come nel tempo libero – che rischia di pensare all'intero lavoro come ormai terziarizzato. La sua appartenenza urbana, il suo status culturale determinano molto spesso un oblio di fondo per la forza-lavoro fisica, per l'impiego materiale, per la fatica muscolare. Muratori, operai, facchini: il capitalismo digitale tende a rimuoverli dall'orizzonte visivo e concettuale ancor più che dall'agenda politica.
Questo può portare il nostro lavoratore, anche quando organizza lotte o forme di resistenza, a delle strategie miopi e limitate – a sottostimare l'importanza della produzione diretta in un mondo che solo per comodità o vizio appare dominato dall'informazione o dalla comunicazione. Intanto il legame causa-effetto viene distrutto dalla retorica imperante: la colpa è “dei mercati”, “dei tempi che corriamo”, o “dell'Europa in crisi”. Il padrone alza le spalle e invita a fare di necessità virtù. La cecità nei confronti del possibile è forse la conseguenza peggiore di questa condizione, la più triste e amara delle prigioni. Così muore il bisogno di utopia: muore quel sentimento istintivo, indispensabile, che è la solidarietà.
Tornare all'intransigenza
Che fare, dunque? Innanzitutto operare per respingere la sirena che ci vuole simili al padrone, anche nella lotta, anche eticamente. Non vogliamo i loro fini e non vogliamo i loro mezzi. Qualsiasi vangelo che ci proponga di prendere una scorciatoia e diventare come loro – non imprenditori, masfruttatori – va bandito. (Perché la medesima dinamica di sfruttamento può ripetersi anche al di là del classico rapporto di lavoro).
Dobbiamo quindi tornare all'intransigenza: la riscoperta della solidarietà, la volontà di creare e non semplicemente distruggere: e ancora e per sempre, la coscienza che la lotta per una società più giusta è una soltanto.
Lotta per un reddito di base comune. Lotta per un'equità sostanziale e non formale nei diritti. Lotta contro ogni crumiraggio, per un'autentica ricomposizione del tessuto sociale di chi non ha diritti. Lotta quotidiana contro anche il più piccolo abuso di potere – lotta contro il potere stesso, alla lunga: lavorare meno, lavorare meglio.
Fonte: A Rivista
Originale: http://www.arivista.org/?nr=410&pag=21.htm
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