di Valentina Antoniol
Il filosofo francese nacque a Poitiers il 15 ottobre 1926: oggi avrebbe compiuto 90 anni. Maestro, amico, compagno insostituibile: vogliamo ricordarlo con quest'articolo sull'importanza di resistere e ribellarsi. Sempre. «Non si detta legge a chi rischia la vita di fronte a un potere» (1). Così scriveva Michel Foucault in un articolo intitolato Sollevarsi è inutile?, apparso su «Le Monde» nel maggio del 1979. Con questo breve testo il filosofo rispondeva a coloro che, dopo la nascita della Repubblica Islamica e le brutalità perpetrate dal regime khomeinista, avevano rimproverato il suo sostegno alla rivoluzione iraniana.
A queste critiche, Foucault – che nel 1978 si era recato due volte in terra persiana per scrivere su invito del «Corriere della Sera» dei reportage di idee dedicati alle rivolte contro lo scià – replicava in modo tutto sommato semplice, ma estremamente efficace: «Non vi è nulla di vergognoso nel cambiare opinione: ma non c’è nessuna ragione di dire che si cambia quando oggi si è contro le mani tagliate, dopo essere stati, ieri, contro le torture della Savak» (2). E poco più avanti aggiungeva: «Ci si solleva, questo è un fatto; è in questo modo che la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale» (3).
Nel pronunciare tali parole, Foucault fornisce un esempio di quella che lui stesso aveva definito come “ontologia dell’attualità” (4). Egli si colloca infatti – e proprio in ciò sta la sua attualità di autore – all’interno di una specifica storia e di un dato presente, ma al contempo se ne distanzia restituendoci il senso dei limiti che definiscono ciò che siamo e che tuttavia possiamo superare. Ci parla infatti, a noi che lo leggiamo oggi e continueremo ancora a rileggerlo domani, non solo e non tanto dell’analisi di una precisa congiunzione spazio-temporale, ma piuttosto della messa in discussione di tale condizione. Ci indica le possibilità di un perpetuo movimento di riattualizzazione, di un necessario e mai preordinato darsi e farsi di pratiche che auto-costituiscono le soggettività rifiutando ogni staticità imposta. La sollevazione è infatti l’atto di rialzarsi, di prendere parola, di combattere per / combattere contro. È l’attività insita nell’agire e, dunque, nel determinare. È quel moto di trasformazione, ascendente e irriducibile, che trae potenza dal suo stesso dispiegarsi, nella misura in cui, dal basso, spezza l’assolutezza di ciò che prima appariva come intoccabile.
Il lavoro di Foucault resta oggi estremamente attuale proprio perché ci ricorda che se esiste una rete fittissima di relazioni di sapere e potere nelle quali, necessariamente, ciascuno è inserito e dalle quali risulta costituito, è però all’interno di questa trama che si possono cercare le condizioni per delle trasformazioni possibili, accettando cioè la sfida di questa necessità. Agli inevitabili processi di assoggettamento si affiancano e si oppongono, pertanto, indispensabili possibilità di soggettivazione, le quali a loro volta si configurano come forme di resistenza attiva che esplicitano – potremmo dire – il rifiuto di essere governati (o, perlomeno, il tentativo di essere governati il meno possibile o di essere governati in altro modo).
Sempre a partire dal 1978-1979, divengono infatti centrali per Foucault i temi del governo e della governamentalità e, allo stesso tempo, anche il concetto di “critica” la quale, in una conferenza tenuta nel 1978 alla Société Française de Philosophie, viene definita come «l’arte di non essere eccessivamente governati» (5). Mediante tale nozione, accostata a quella kantiana di Aufklärung (6) e riconosciuta come la conseguenza dei processi di governamentalizzazione tipici delle società europee occidentali a partire dal XVI secolo, Foucault fa quindi riferimento all’atteggiamento di indisponibilità all’accettazione passiva del proprio assoggettamento.
Governamentalità e critica rappresentano pertanto l’una la contropartita dell’altra. Mentre per quanto riguarda la prima esistono innumerevoli trattati sul governo e una proliferazione quasi esagerata di norme per dirigere bene gli altri; per ciò che concerne la seconda non vi è – e non potrebbe essere altrimenti – un decalogo contenente le buone norme sul come fare, o meglio sul come non fare. Parlare di processo di disassoggettamento – intendendo con ciò l’atto individuale o collettivo di rifiutare specifiche condotte imposte – non può che implicare dunque una volontà di sottrazione, di una «indocilità ragionata» (7), che deve necessariamente essere praticata attraverso modalità specifiche, di volta in volta stabilite, a seconda dei vari contesti.
Da ciò deriva infine che, se da un lato l’“atteggiamento critico” risulta come una sorta di passaggio intermedio tra i processi di assoggettamento e le pratiche di soggettivazione, dall’altro lato esso richiama quella che in Sollevarsi è inutile? l’autore definisce come «morale antistrategica». La domanda posta a titolo dell’articolo viene infatti sviscerata nella sua retoricità dal momento che Foucault parla dell’impossibilità di squalificare i «contenuti immaginari della rivolta» (8), anche qualora si abbia a che fare con rivoluzioni “tradite”. Così come l’atto di sollevarsi trasforma l’individuo in soggettività, aldilà di qualsiasi esito connesso con le sue azioni, allo stesso modo la soggettivazione si mostra come resistenza, come una risposta al funzionamento dei meccanismi di assoggettamento che vale più del risultato ottenuto.
Scrive Foucault: «Ma non sono d’accordo con chi dice: “È inutile sollevarsi sarà sempre la stessa cosa”» (9). E poco dopo prosegue: «Allo stratega che dice: “Che importanza ha quella morte (…)?” Ebbene, io risponderei: (…) La mia morale teorica è opposta. È “antistrategica”: essere rispettosi quando una singolarità si solleva, intransigenti appena il potere viola l’universale» (10).
1) Michel Foucault, Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica politica, a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 135.
2) Ivi, cit. p. 134-135.
3) Ivi, cit. p. 135.
4) Tale espressione è utilizzata per la prima volta ne Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), ed. stabilita da F. Gros sotto la direzione di F. Ewald e A. Fontana, trad. it. a cura di M. Galzigna, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 30.
5) M. Foucault, Illuminismo e critica, trad. it. a cura di P. Napoli, Roma, Donzelli, 1997, p. 38.
6) Cfr. I. Kant, Che cos’è l’illuminismo? (1784), trad. it. a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti, 1997. Secondo l’analisi di Foucault, Kant avrebbe inteso tale concezione nel senso di un appello al coraggio per sfuggire alla condizione di minorità che affligge l’umanità. Quest’ultima, tenuta sotto scacco da parte di un eccesso di autorità, risulterebbe incapace di servirsi autonomamente del proprio intelletto e da ciò deriverebbe quindi l’esortazione: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!», come motto dell’illuminismo. In base a questa interpretazione si comprende dunque la ragione dell’accostamento, da parte di Foucault, dell’Aufklärung con l’atteggiamento critico sviluppatosi in Occidente a seguito del processo di governamentalizzazione. Per Foucault, che in Illuminismo e critica sottolinea inoltre come la minorità sia collegata da Kant a un «qualcosa che egli reputa una mancanza di decisione» (p. 41), si tratta invece di ribaltare in positivo tale questione, guardando al superamento possibile dei limiti.
7) M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 40.
8) M. Foucault, Sollevarsi è inutile?, cit., p. 134.
9) Ivi, p. 135.
10) Ibidem
Fonte: dinamopress.it
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