di Claudio Ceruti
Foodora, azienda tedesca operante a Milano, Torino e in procinto di espandersi a Roma, startup della cosiddetta sharing economy, fornisce ai ristoranti un sistema di consegne takeway basato su ordinazioni fatte mediante applicazioni (app) per smartphone. Le consegne vengono materialmente effettuate da una una flotta di rider, lavoratori in bici o motorino, che ricevono le commesse attraverso la versione dell’app Foodora progetta per suddividerle e assegnarle ai rider.
Boost your income! Choose your own hours! Stay Fit!
Queste le tre coordinate che l’azienda usa per descrivere chi lavora per essa, cercando di nascondere una realtà di iperflessibilità e sfruttamento che tracima le già evanescenti regolamentazioni del mercato del lavoro.
Nonostante questa narrazione smart, i conflitti emergono comunque: l’8 ottobre a Torino si è verificato il primo sciopero in Italia di lavoratori organizzati tramite app. I rider hanno bloccato il servizio per tutto il sabato sera, momento di picco delle consegne, per protestare contro le condizioni di lavoro. Il casus belli il passaggio da una paga oraria ad una paga per consegna.
BOOST YOUR INCOME!
Primo sciopero in Italia, non certo il primo a livello globale. In agosto scioperano i lavoratori di Deliveroo a Londra, azienda concorrente di Foodora, a settembre sono i rider di Parigi ad incrociare le braccia. Le motivazioni sono le stesse di chi ha animato lo sciopero di Torino: assenza di copertura infortunistica o di malattia, tariffe e organizzazione del lavoro modificati senza preavviso e comunque poco trasparenti, assenza di canali di comunicazione con i vertici aziendali.
In generale, il mondo del lavoro basato su piattaforme che connettono utenti e lavoratori ha visto l’acuirsi della conflittualità: numerosi ad esempio gli scioperi dei driver Uber, app di servizio taxi, l’ultimo dei quali lo scorso febbraio a New York a causa di un abbassamento improvviso delle tariffe; i più maligni collegano questo taglio delle tariffe alla guerra commerciale tra Uber e la concorrente cinese Didi, fatta a colpi di raccolta di finanziamenti e acquisizioni di quote societarie (è di pochi giorni fa la notizia della sconfitta di Uber, costretta ad abbandonare il ricchissimo mercato cinese).
Tratto comune deelle differenti mobilitazioni è l’opposizione al taglio improvviso delle remunerazioni: il costo delle prestazioni lavorative risulta essere un’opzione facilmente modificabile con la sostiuzione di un paio di righe di codice o con il cambio dei termini di uso o policy della app, con la stessa facilità con cui Google inserisce pubblicità nei risultati del suo motore di ricerca o Facebook cambia le pagine personali in timeline da un giorno all’altro.
Appare evidente come il problema non sia tanto l’entità della remunerazione, quanto la mancanza di trasparenza e controllo dell’organizzazione delle prestazioni lavorative, soggetta alla supposta neutralità algoritmica o a politiche aziendali attuate d’imperioovernight.
CHOOSE YOUR OWN HOURS!
Liberi professionisti, che scelgono volontariamente tempi e ore di lavoro. Questa l’ingannevole definizione dei rider data da Foodora: l’azienda si vende dipingendo i lavoratori alla stregua di ragazzini che consegnano giornali per rimpolpare la paghetta settimanale, quando in realtà è ben consapevole di pescare i rider in quell’enorme esercito di sottopagati o disoccupati, giovani, studenti, precari, costretti ad accettare condizioni di lavoro massacranti per paghe infime.
Un continuo uso di un lessico basato sull’innovazione, sul feticcio delle nuove tecnologie,smart app per smart cities per smart people, per creare una barricata ideologica in difesa dei modelli predatori insiti nella sharing economy. In primo luogo lo stesso termine sharing economy è fuorviante: cosa c’è di condiviso nel mettere a valore il proprio tempo e il proprio lavoro? È così ampia la differenzia tra un rider e un facchino o un generico lavoratore della logistica?
Termini più calzanti, in grado di delineare le specifiche caratteristiche del lavoratore di Foodora, sono quelli della gig economy e del crowdworking. A grandi linee, con gig(lavoretto) si intende la prestazione lavorativa a richiesta (on demand), mentre concrowdworking (lavoro della folla) si definisce la parcellizzazione della prestazione lavorativa in singoli sottocompiti (microtask) da distribuire collettivamente. L’unione di queste due forme di organizzazione del lavoro è la caratteristica alla base delle piattaforme digitali che mediano tra datore di lavoro e lavoratore, attraverso un meccanismo del tutto simile alle aste di un sito di e-commerce. La mediazione della piattaforma rende opaco il rapporto tra le parti, lo riduce ai minimi termini, tanto che il presidente di Amazon Jeff Bezos, lanciando il servizio pioniero del crowdworking Amazon Mechanical Turk, lo definì come l’inizio dell’ “humans-as-a-service” o “human API”.
API è l’interfaccia di programmazione che si compone di parti di codice che eseguono un determinato compito, inseribili all’interno del proprio programma o flusso di lavoro, senza doversi preoccupare di come queste funzionino: basta semplicemente fornire dell’input per ricevere in cambio l’output desiderato.
Una “human API” è quindi una sorta di black box in cui i lavoratori vengono rinchiusi, dove basta inserire denaro ed istruzioni per ottenere il risultato atteso. D’altronde il nome scelto da Bezos per la sua piattaforma, il Turco meccanico, si riferisce non a caso ad un automa settecentesco in grado di giocare a scacchi, in realtà un clamoroso trucco: nascosto al suo interno un nano operava leve e pulegge per dare l’illusione di trovarsi di fronte ad un processo automatico.
In questa ottica, per la quale umani e API sono identici, è pensabile una API che protesta perché non è stata pagata o rivendica una copertura sanitaria?
Per entrare nella black box un lavoratore deve solo scaricare una app e la piattaforma metterà automaticamente sul mercato la sua prestazione lavorativa, permettendogli di partecipare così all’asta per un posto in una catena di montaggio diffusa e pervasiva, fatta di tanti piccoli microtask.
Non è una descrizione simbolica, è letterale. Basta accedere a questa pagina (https://www.airbnb.it/co-hosting/search?address=Tokyo) del servizio di co-hosting di Airbnb, il celebre servizio per affittare case vacanza, per scorrere un elenco di potenziali lavoratori al vostro servizio: per una modica cifra si può selezionare il co-host che eseguirà al vostro posto tutte quelle noiose mansioni connesse all’affitto tramite Airbnb (accoglienza ospiti, pulizia della casa, marketing, gestione dei pagamenti, etc.).
Un processo di selezione basato quasi esclusivamente sul rating, il giudizio collettivo che accompagna ogni lavoratore all’interno della piattaforma, strumento di regolamentazione e controllo del mercato delle piattaforme; esso è fondato sulla concezione per cui il voto collettivo è sinonimo di autenticità e affidabilità della misurazione della capacità di un lavoratore.
Per falsificare questo assunto basta considerare come ad un servizio come quello di TripAdvisor, che si basa sulla pubblicazione e diffusione di recensioni per alberghi e ristoranti, sia collegato un fiorente mercato di compravendita di recensioni fasulle che permettono di aumentare artificiosamente il proprio rating o diminuire quello dei concorrenti (le ultime quotazioni danno il costo di una recensione tra i 2 e i 4 euro).
Non esiste nemmeno nessuna garanzia che questo meccanismo del consenso punisca comportamenti non corretti. L’aleatorietà del rating facilita difatti persino fenomeni discriminatori: un basso rating facilita la disparità di trattamento, come già successo per Uber o la concorrente Lyft accusate di permettere di escludere disabili dalle proprie corse, o per Airbnb dove vengono applicate tariffe più elevate per utenti dai nomi poco occidentali.
Di più: due colpetti sullo schermo di uno smartphone bastano per ridurre il rating ad un lavoratore che si vede scavalcare dai “colleghi”, mettendo a repentaglio la sua presenza sul mercato sino alla sua espulsione per rating troppo basso.
Un ban, una disconnessione dalla piattaforma, equivale ad un licenziamento immediato, alla portata di un click, come è accaduto a due lavoratrici Foodora ritenute conniventi con le proteste di Torino.
Il licenziamento facile del Jobs Act sembra già un relitto preistorico.
STAY FIT!
Per chi opera a Torino o ancora peggio a Milano, lo slogan dovrebbe essere tramutato inStay alive! (If you can) viste le ben note difficoltà di chi si muove in bici per le arterie congestionate della città; figurarsi durante condizioni climatiche in cui anche i servizi pubblici tradizionali non transitano, ma i rider di Foodora si. Tutte difficoltà che non sono considerate dall’algoritmo di assegnazione che distribuisce chiamate ai rider in base ad euristiche ignote, se non nel loro obiettivo di minimizzare i tempi di consegna.
Un processo di assegnazione che limita al massimo la possibilità di intervento da parte dei lavoratori: i driver di Uber hanno pochi secondi per decidere se accettare o meno la chiamata di un cliente, ben sapendo però che troppi rifiuti risultano in un peggioramento del rating.
Il lavoratore non deve diventare parte attiva del processo, deve solo eseguirlo secondo regole prestabilite, in quanto il lavoratore è un utente come tutti gli altri: allo stesso modo di un utente-consumatore, accede alla piattaforma e da quel momento la sua prestazione lavorativa diviene istantaneamente merce.
In questa visione non può e non deve esistere alcuna forma collettiva di organizzazione tra gli utenti-lavoratori. Essendo venditori di un prodotto, ogni forma di organizzazione è distorsiva del mercato costruito dentro e sopra la piattaforma, è un limite alla concorrenza al pari di un cartello di aziende fondato per fare leva sui prezzi di mercato.
È in questa visione che acquistano senso nuovo, oltre la classica tradizione antisindacale, le parole dei due amministratori di Foodora, Gianluca Cocco e Matteo Lentini, quando si dicono disposti ad “ascoltare i ragazzi. Non collettivamente, ma face to face”.
SCARDINARE LA PIATTAFORMA
Sarebbe fuorviante limitarsi a considerare lo stato dei rider di Foodora come una semplice progressione peggiorativa delle attuali condizioni di precarietà e sfruttamento: l’organizzazione del lavoro basata su piattaforma permette di realizzare pienamente la condizione di imprenditore di sé stesso attraverso il suo superamento in merce di sé stesso all’interno di nuovi mercati platform-based. Mercati simili alle zone economiche speciali nella loro deregolamentazione selvaggia, dove l’ipersfruttamento e la predazione vengono gestiti da autorità algoritmiche e da misurazioni inappellabili della qualità del lavoratore.
Per poter scardinare queste piattaforme è necessaria in primo luogo una critica all’ideologia della smartificazione del lavoro, che sappia smascherare come dietro la neutralità algoritmica ci siano precise scelte politiche e meccanismi di dispossessamento, come ilrating sia uno strumento di controllo privo di affidabilità e incapace di considerare tutti gli aspetti che sfuggono agli interessi predatori della piattaforma, come le opportunità fornite dalle nuove tecnologie siano assoggettate all’esercizio di controllo e di dominio del capitale.
Per questo sperare in una regolamentazione di questi mercati da parte di qualche vetusta istituzione terza, o peggio riproporre anacronistiche visione luddiste, è dannoso proprio perché ci priva della possibilità di riconoscere le potenzialità liberatorie delle nuove tecnologie, negando a propri la creazione di mediazioni basate sul controllo collettivo da parte dei lavoratori e delle comunità in cui sono inserite.
Scardinare le piattaforme significa quindi arricchire e svecchiare il conflitto con nuovi strumenti, nuove forme di sciopero, nuovi algoritmi che sappiano trasportare gli utenti-lavoratori e gli utenti-consumatori fuori dalla black box del capitale, verso piattaforme di mediazioni sociali controllate collettivamente per la produzione e la redistribuzione della ricchezza del comune.
Immagine in apertura: foto di Marco Cremascoli, www.marcocremascoli.it
Fonte: Effimera.org
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