di Alessandro Portelli
C’è una profonda giustizia poetica nel fatto che lo stesso giorno in cui perdiamo il premio Nobel Dario Fo, è Bob Dylan che viene premiato con il Nobel. Non si tratta solo di due «laureati» atipici, molti diversi dalla tradizione a volte paludata dell’istituzione Nobel. Ma di due artisti che cambiano il nostro rapporto con la parola anche intrecciandola con il suono, con la voce, con il corpo, con l’improvvisazione, con la performance – e che per questo sembrano estranei all’istituzione letteraria.
Più ancora, sia Bob Dylan sia Dario Fo affondano le radici della loro creatività nel mondo delle culture popolari: da Mistero Buffo a A Hard Rain’s-a Gonna Fall, sono le voci dei vagabondi e dei saltimbanchi delle campagne italiane e le voci dei braccianti neri del Delta e dei vagabondi della depressione, da Blind Willie Johnson a Woody Guthrie, che attraverso loro si impadroniscono del centro della scena e diventano nuovi linguaggi della modernità.
Più ancora, sia Bob Dylan sia Dario Fo affondano le radici della loro creatività nel mondo delle culture popolari: da Mistero Buffo a A Hard Rain’s-a Gonna Fall, sono le voci dei vagabondi e dei saltimbanchi delle campagne italiane e le voci dei braccianti neri del Delta e dei vagabondi della depressione, da Blind Willie Johnson a Woody Guthrie, che attraverso loro si impadroniscono del centro della scena e diventano nuovi linguaggi della modernità.
Ha detto Alessandro Carrera, che è il maggiore studioso e critico dylaniano di oggi, che l’opera di Dylan dal 1996 ad oggi è il più grande poema modernista della letteratura americana contemporanea. Probabilmente ha ragione. Io sono più legato, per ragioni anche generazionali, al Dylan delle origini, quello che era la voce del tempo, la nostra voce, negli anni ’60 – e che ha continuato ad esserlo, in altri modi, anche quando si è scrollato di dosso le identità, le responsabilità e i ruoli che gli avevamo scaricato addosso.
Il Dylan che ha cambiato la vita e la sensibilità di quella generazione era capace di inventare i linguaggi del presente e del futuro, e insieme di farli risuonare con i secoli delle culture popolari da cui aveva imparato – era capace di rileggere Robert Johnson attraverso Rimbaud, e viceversa. Di canzoni contro la guerra se ne scrivevano e se ne sentivano dozzine ogni giorno. Ma nessuna aveva le risonanze bibliche di quell’immagine del poeta che «in un pallido pomeriggio» – un aggettivo preso direttamente dall’Apocalisse, ma caro anche al gospel e a Hank Williams – segue la bara dei signori della guerra e si siede sulla loro tomba finché non è sicuro che sono morti – e lo fa prendendo una antica canzoncina per bambini, riconoscendovi il senso dell’assurdo, e trasformandola semplicemente con l’uso della voce in blues carico di rabbia e di dolore.
Con Dario Fo, il Nobel aveva riconosciuto la profonda serietà dell’umorismo, della farsa, della satira. Con Bob Dylan, è tutto un mondo di arti popolari troppo a lungo considerate subalterne e inferiori viene finalmente preso sul serio. È il margine che si prende il centro. A suo modo, è anche una vittoria politica.
Fonte: Il manifesto
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