di Marta Fana
Lo sciopero dei fattorini della Foodora, società che gestisce ordini e consegne di pasti a domicilio, ha mostrato all’Italia il risvolto amaro dietro la comodità del consumo on demand. L’azienda ha recentemente deciso, unilateralmente, di eliminare per i nuovi assunti la remunerazione fissa basata sul numero di ore lavorate e mantenere solo la parte variabile, legata alle consegne: 2,7 euro ciascuna. I nuovi lavoratori sono quindi pagati a cottimo in base a un contratto di collaborazione, di quelli in cui non c’è traccia di tutele e diritti minimi (ferie, malattia, contributi). Così funziona la gig economy, “l’economia dei lavoretti”, di cui Foodora fa parte: a chiamata si consuma la cena e a chiamata si sfruttano i lavoratori (su questo vedi l’articolo pubblicato nel numero 1174 di Internazionale).
Il processo produttivo, se di produzione si può parlare, avviene attraverso un’applicazione per smartphone: vengono raccolti gli ordini che sono trasmessi in tempo reale ai relativi ristoranti e infine il fattorino di riferimento della zona riceve la notifica di una nuova consegna da fare. I lavoratori sono fattorini, operai della logistica, sebbene l’azienda preferisca definirli rider.
Ecco che ritorna la questione di un’organizzazione del lavoro funzionale alla massimizzazione dei profitti attraverso la riduzione delle retribuzioni e dei diritti e l’intensificarsi dei turni di lavoro, così come per la logistica della grande distribuzione, di cui si è già parlato.
Inoltre, anche in questo caso l’economia on demand non rappresenta un’innovazione che sviluppa nuovi mercati, ma ne trasforma di esistenti, abbattendo il costo fisso del lavoro, anacronisticamente, fino al cottimo. Si compie così un vero e proprio ribaltamento: l’assenza di un salario legale impedisce quella che un tempo era definita la libertà nel lavoro e cioè la possibilità di godere di un tempo di vita oltre il lavoro.
Sembra crollare definitivamente tutta la vulgata efficientista legata alla diffusione delle nuove tecnologie: l’abbattimento dei costi di transazione, cioè la facilità con cui si incontrano la domanda e l’offerta, equivale in questo caso a un declassamento del lavoro, ridotto in condizioni che rasentano quelle degli operai di una fabbrica inglese dell’ottocento. Una degenerazione che non riguarda solo l’Italia ma che investe più in generale tutti i paesi a capitalismo avanzato. Ma si sa, in Italia i lavoratori costano meno che nel resto d’Europa anche per la Foodora: per esempio in Francia un fattorino costa a questa azienda sette euro all’ora più due per ogni consegna. Salario a parte, il regime contrattuale francese è lo stesso: nessun rapporto di subordinazione formale, tutti collaboratori, imprenditori di se stessi.
Un processo sempre più radicale di sfruttamento della forza lavoro spesso mascherato da enormi pubblicità che strizzano l’occhio a consumatori sempre più distratti. Per esempio, in pochi si chiedono come sia possibile per la Foodora Italia, che vanta un capitale sociale di appena diecimila euro, essere esponente di spicco di un settore che fattura oltre 400 milioni di euro solo in Italia. La Foodora, come le altre piattaforme che si occupano sia di ordini sia di consegna, impone, da un lato, una commissione tra il 20 e 30 per cento dell’ordine ai ristoranti e, dall’altro, una commissione fissa al consumatore, di 2,9 euro a consegna.
Un circolo vizioso
Semplificando, se ogni sera tra Milano e Torino, l’1 per cento della popolazione ordinasse dalla Foodora un pasto da 15 euro, il guadagno sulle ordinazioni sarebbe di circa 63mila euro, a cui vanno aggiunte le commissioni dovute dal consumatore. Ipotizzando che in media ogni consegna riguardi quattro ordini (quattro persone cenano insieme e fanno un’unica ordinazione), allora il guadagno da commissione sarebbe di circa 15.400 euro. La Foodora dovrebbe comunque pagare i fattorini per un totale di 14.300 euro. A fine serata, il profitto (al netto di altri costi di gestione) è pari a circa 64mila euro.
Dal punto di vista dei ristoratori, la convenienza deriva sicuramente dalla visibilità che le piattaforme garantiscono, ma anche dalla diversificazione della loro attività senza nuovi costi. Molti di questi, infatti, non necessariamente facevano consegne a domicilio precedentemente. Di conseguenza l’aumento degli ordini è un incremento netto, senza costi aggiuntivi (se non quello relativo alla preparazione dei pasti) dal momento che non dovranno assumere né nuovi camerieri (forse ne risparmiano anche qualcuno) né occuparsi della consegna.
Si stabilisce così un circolo vizioso per cui la corsa al guadagno e al consumo sempre più facile viene ancora una volta scaricata sulla parte debole della catena: il lavoro del fattorino di cui non si può fare a meno, sebbene si tenti in tutti i modi di sottrarlo alla sua vera essenza. In fin dei conti siamo di fronte a un atteggiamento storicamente coerente: l’ambizione del massimo profitto.
Eppure, da Piacenza a Torino, in un’Italia che ha subìto inerme l’intero processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, dal pacchetto Treu ai voucher buoni per qualsiasi uso, le proteste dei fattorini ci restituiscono la percezione che esiste un terreno di conflitto su cui agire per migliorare le condizioni della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici. Una maggioranza che non è invisibile, ma bussa ogni sera alle nostre porte.
Fonte: Internazionale
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