di Andrea Colombo
Racconta Marianne Faithfull, all’epoca fidanzata di Mick Jagger, che nel 1965 Bob Dylan, allora la stella più scintillante del firmamento pop, gelò con poche e feroci parole i glimmer twins, Jagger e Richards: «La differenza tra me e voi è che io avrei potuto scrivere Satisfaction. Voi non avreste mai potuto scrivereDesolation Row». Non poteva certo immaginare, allora, che cinquantuno anni più tardi sarebbe stato premiato con il Nobel per la letteratura, lasciando a bocca aperta la platea al momento dell’annuncio, scandalizzando qualche purista nonostante a partire dal 1996 fosse stato candidato più volte e almeno in un’occasione, proprio nell’anno in cui il premio andò a Dario Fo, ci fosse andato molto vicino.
La sferzata di Dylan riportata da Marianne era impietosa ma precisa. Molti autori hanno scritto musica buona come quella di Bob Dylan, nessuno l’ha saputa coniugare con parole altrettanto affilate. In Italia furono presentate per la prima volta nel ’72 da Newton Compton, con la traduzione a tutt’oggi insuperata di Stefano Rizzo e introduzione di Fernanda Pivano.
La sferzata di Dylan riportata da Marianne era impietosa ma precisa. Molti autori hanno scritto musica buona come quella di Bob Dylan, nessuno l’ha saputa coniugare con parole altrettanto affilate. In Italia furono presentate per la prima volta nel ’72 da Newton Compton, con la traduzione a tutt’oggi insuperata di Stefano Rizzo e introduzione di Fernanda Pivano.
Come musicista e come poeta Dylan ha sempre pescato a piene mani, a volte lasciandosi ispirare, a volte rimaneggiando, qualche volta copiando, nel serbatoio inesauribile della sua mostruosa cultura musicale. Ci sono voluti anni però per scoprire che applicava lo stesso metodo anche alla sua poetica: quell’aspetto Bob Dylan lo ha tenuto a lungo celato. «Preferirei costruire impugnature per armoniche piuttosto che discutere di antropologia azteca/ letteratura inglese o storia della Nazioni unite», scriveva sul retro di Bringing All Back Home, per ironia forse calcolata uno dei suoi dischi più letterari, quello che segna il passaggio dalla fascinazione e dalle influenze del folk e della letteratura americana impegnata degli anni ’30 e ’40 a quella dei poeti beat e dell’ermetismo francese. Quando, 39 anni dopo, pubblicherà il libro Chronicles vol. 1, un’antologia delle influenze letterarie e musicali della sua vita camuffata da autobiografia, si scoprirà che, se non discuteva di letteratura, Dylan ne divorava parecchia. Poi, proprio come con la musica, la traduceva in qualcosa di completamente nuovo e radicalmente diverso. La motivazione del Nobel è attagliata: aver «creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande canzone americana». Ma anche della grande letteratura mondiale.
È quel che a 75 anni suonati ancora fa. Tempest, il lungo pezzo che dà il nome all’ultimo cd originale prima dei dischi, bellissimi, dedicati alle cover di Sinatra, riprende nota per nota la melodia di The Titanic, un vecchio gospel della Carter Family. Dylan ne riscrive i versi, ne altera l’interpretazione, dissemina citazioni prese sia dalla cultura popolare che da quella accademica fino a renderlo una metafora dell’apocalisse post-moderna, vicina per molti versi alla narrativa di Thomas Pynchon che, fra tutti gli autori contemporanei, è quello che con cui il ragazzo di Duluth ha più a che spartire.
Ci sono molti Dylan cantanti, tanto diversi da riuscire a reinterpretare nel tempo le stesse canzoni rovesciandone il senso: si possono ascoltare versioni rabbiose, malinconiche, esultanti, tristi, gioiose e persino ironiche del capolavoro Like a Rolling Stone. Ci sono quasi altrettanti Dylan scrittori: l’autore di canzoni di protesta dei primi anni ’60 è diverso dal visionario dei grandi dischi di metà decennio, il bucolico poeta di John Wesley Harding è diverso dallo scrittore sperimentale che gioca con la narrazione passando dalla prima alla terza persona di Blood on the Tracks. Ma pur nella vorticosa parata di maschere che Dylan ha scelto di indossare nei decenni, l’essenza più intima e vera della sua poetica è sempre la stessa da Hard Rain’s Gonna Fall, 1961, aTempest: Dylan è stato ed è il grande cantore contemporaneo dell’Apocalisse. Un ragazzo ebreo con le radici affondate nella cultura ebraica, rimasto tale anche dopo aver rinnegato il nome o nella fase del «cristiano-rinato». L’influenza fondamentale è sempre rimasta la Bibbia, il libro dei Profeti, la visionarietà apocalittica.
Quella di Dylan è un’apocalisse presa alla lettera, nel senso della distruzione ma anche della rinascita e della rigenerazione. Era ovvio che una generazione animata dallo stesso mito ne facesse una specie di portavoce. Ancora ieri, dopo la notizia del Nobel, erano in molti a ricordarlo soprattutto come alfiere del movimento pacifista.
In realtà Dylan ha sempre giocato a rimpiattino con la sua generazione e con il suo pubblico, senza mai farsi trovare dove era aspettato. Dopo aver protestato e contribuito a innescare la miccia del movimento nei primi anni ’60, si era sottratto a un ruolo che gli andava stretto proprio quando quel movimento dilagava. Nel mitico 1968, mentre le piazze e le università bruciavano, se ne stava rintanato in campagna come un signorotto d’altri tempi, scrivendo melodie bucoliche per testi che nascondevano il contenuto critico dietro una simbologia ermetica. A chi lo esaltava come icona della purezza folk ha risposto mandando al massimo gli amplificatori. A chi gli imponeva di restare a vita araldo della protesta ha voltato la schiena con uno sprezzante «I was so much older then, I’m younger than that now».
Ci sono cantautori e scrittori la cui forza sta nell’onestà con cui sanno mettersi in piazza senza maschera. Bob Dylan è il contrario. La sua musica e le sue parole sono una continua sfida, un gioco a spiazzare chi lo ascolta e chi lo legge mutando maschera, oscillando senza posa tra passato e presente, fra riscoperta della tradizione e violenta riattualizzazione della stessa. Quel che sta facendo negli ultimi dischi con Sinatra lo aveva già fatto con Woody Guthrie, con Allen Ginsberg, con Elvis Presley, con Arthur Rimbaud, con gli infuocati predicatori cristiani e con il vaudeville rivisitato.
Bob Dylan non ha mai voluto essere il portavoce di nessuno. Ha fatto propria la voce più profonda d’America e imposto la sua, diversa da qualsiasi altra sentita in precedenza e poi imitata praticamente da chiunque si sia seduto con la chitarra in mano a scrivere canzoni. Per una volta il premio Nobel è andato a un artista puro.
Fonte: Il manifesto
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