di Gigi Roggero
Corruzione, nepotismo, sperpero dei soldi pubblici: ogni tanto qualche figura nota del potere denuncia quello che avviene nelle università, i media ne parlano accanitamente per qualche giorno, poi tutto può finalmente continuare come se nulla fosse. The show must go on. La ricetta è collaudata: gridare astrattamente agli scandali per salvaguardare concretamente un sistema corrotto. C’è chi dice: lo fanno per tagliare ulteriormente i fondi all’università pubblica. È vero. Da qui trae la conclusione: questa università pubblica va difesa in blocco, negando l’esistenza della corruzione. È un tragico errore, anzi di più: vuol dire collocarsi dall’altra parte.
Già, perché le parti nell’università pubblica esistono e sono, potenzialmente se non purtroppo soggettivamente, contrapposte. Chi è la controparte di uno studente e di un precario? Il governo, va bene. I privati che vogliono mettere le mani sull’università – ma in Italia sono davvero poi così tanti, o piuttosto si limitano a un suo utilizzo parassitario? Diciamo una verità lapalissiana: la controparte principale e diretta è costituita dai docenti che tengono in mano le fila dei dipartimenti, che gestiscono la distribuzione dei fondi, che controllano i canali del reclutamento. Questi sono i piccoli Marchionne dell’università pubblica, gli sfruttatori che ogni giorno siedono di fronte a te, dietro la scrivania e la cattedra. E nei governi le cricche della casta accademica hanno un peso rilevante, così il cerchio tra politica e università si chiude. Chi nega la corruzione del sistema non sta attaccando i tagli, sta semplicemente difendendo l’azienda e i suoi padroni, magari sperando di avere qualche briciola in cambio.
Corruzione sistemica, appunto. Chiunque sia stato in un ateneo sa bene, per esempio, che cosa sia un concorso per avere accesso a uno dei molteplici strati della sua gerarchia. Si dice “mi hanno chiamato il concorso”, per dire che il concorso è stato fatto per me, che il posto mi verrà assegnato, che nessun altro vi può partecipare con speranze di successo. Significa cioè che il mio padrone-barone ha ottenuto nel dipartimento i fondi necessari per darmi un’occupazione, che deve necessariamente passare per una farsa pubblica di concorso in cui verrà chiamata una commissione che sa già a chi deve farlo vincere. Ci sono poi espedienti ancora più raffinati e perversi: il barone ti fa partecipare a concorsi destinati ad altri, semplicemente perché deve un favore ai suoi colleghi e ti fa fare numero per mantenere le apparenze della regolare competizione. Tu lo sai prima, ma ci vai senza battere ciglio sperando che prima o poi tocchi a te.
Cosa deve garantire il precario in cambio del concorso che gli viene chiamato? Fedeltà eterna al suo barone, come i cani per avere l’osso devono scodinzolare al padrone. Vuoi dissentire, fare di testa tua, uscire dall’ombra del tuo protettore, mostrare di essere autonomo? Il tuo pappone ti esclude dal clan, perdi il numerino con cui eri in coda, ti devi cercare un nuovo pappone e una nuova coda da fare. Così stanno le cose: all’università ci entri per un rapporto di subordinazione individuale, che in alcuni casi significa fare il dogsitter per il tuo padrone, in altri firmare contratti a zero euro di insegnamento, in tutti abbassare la testa e dire sempre di sì. Qua dunque non si tratta di scandali episodici, quelli denunciati dal Cantone di turno, ma di un sistema che istituzionalmente funziona attraverso la corruzione. Il potere feudale è la via italiana all’aziendalizzazione.
Perché i precari accettano tutto questo, arrivando a quaranta o cinquant’anni a portare le borse e sperare che prima o poi gli si aprano le porte dell’accademia? Non solo per i soldi, o almeno non è quella la cosa principale. Un ricercatore guadagna non molto di più di 1.500 euro al mese, e se entra all’università troppo tardi non diventerà un Marchionne profumatamente pagato. Nel frattempo, finché non si diventa strutturati, bisogna arrabattarsi con assegni e contrattini, pagati maluccio e in modo discontinuo, talvolta non pagati proprio, perché il lavoro gratuito dentro gli atenei è più la norma che l’eccezione. “Noi non possiamo scioperare – diceva una ricercatrice durante la mobilitazione universitaria del 2010 – perché noi non siamo lavoratori: la nostra è una mission”. E come li pagate l’affitto e la spesa? In mission? Non è dato sapere. Sicuramente esiste un salario psicologico, che sostituisce in parte o in toto il salario reale: riconoscimento, status, esercizio del potere sugli strati inferiori, che nel caso dei ricercatori e dei precari sono gli studenti. Qualsiasi studente sa infatti che una delle figure peggiori che può trovarsi di fronte a un esame è quello che nel gergo comune chiama “assistente”, che altro non è se non un precario carico di rancore e voglioso di sfogarlo su chi sta più in basso di lui, per avere l’impressione di contare qualcosa in una struttura in cui è semplicemente un servo sfigato.
Se poi guardiamo ai docenti con fama di essere critici o radicali, dobbiamo chiederci innanzitutto verso cosa sono critici e radicali. Non certo verso l’università in cui lavorano, pardon, in cui svolgono la mission. Non vale la pena esserlo, dicono, perché l’università ormai è un deserto: è un buon escamotage retorico per parlare di altro, cioè di cose che non fanno correre alcun rischio e non urtano i rapporti di sfruttamento dentro il proprio ateneo. Peccato che in quel deserto c’è chi muore di fame e di sete e chi gozzoviglia e beve abbondantemente. E allora, ecco che ci sono altri temi “radicali” su cui si possono costruire belle carriere tutt’altro che radicali. I migranti, per esempio, garantiscono un curriculum che punti almeno al livello del professore associato. L’importante, ovviamente, è che i migranti restino un oggetto di studio e non rompano i coglioni, mettendo in discussione le posizioni consolidate nella società e magari negando ai filantropici docenti radicali il sacrosanto diritto di consumare il meritato aperitivo in un bataclan qualsiasi. Già, perché è facile fare i radicali con le mission degli altri. Del resto, nell’università non si può, anzi non si deve dedurre una qualche consequenzialità tra quello che si dice e quello che si fa, come vorrebbero i volgari militanti. Un conto è criticare il signor Capitale, tutt’altro è attaccare il rettore della propria università capitalistica. Il concetto deve rimanere astratto, perdio, perché se si determina concretamente poi in dipartimento mi guardano male. O ancora: si può essere contro la guerra in generale, questo fa sempre curriculum, ma mica questo vuol dire essere contro i baroni che la guerra la predicano. Anzi, nessuno si stupisca e mi chieda conto se firmo un appello per difenderli dagli studenti che non comprendono la differenza tra concetto astratto e azione concreta, ovvero tra carriera e politica!
Ecco la libertà di espressione che oggi viene invocata negli atenei: è quella dei baroni di non essere disturbati e contestati. Poi c’è la rivendicazione del diritto alla libertà di espressione per chi esprime un pensiero critico. Può servire a svelare l’inganno, cioè il fatto che l’espressione non è mai neutra, che dipende dai rapporti di forza, che quel diritto viene garantito a chi esercita potere e non a chi lo contesta. Bene. Oltre a ciò, dobbiamo chiederci: è davvero questo il punto centrale oggi? Nelle università anglosassoni, modello egemone della corporate university, puoi dire più o meno quello che vuoi, perché tutto quello che dici viene depoliticizzato dalla macchina aziendale attraverso cui lo esprimi. E così l’operaismo, privato della sua struttura rivoluzionaria e sradicato dalla composizione di classe, diventa “italian theory”, innocua merce accademica adatta per fare convegni internazionali, recintare i saperi e costruire carrierucce “critiche” e “radicali”. Nelle università italiane, se guardiamo alla mediocre medietà di docenti, ricercatori e precari, il problema della libertà di espressione si pone ben poco, perché la libertà non è un diritto ma un esercizio: se uno non ha niente da dire, ovvero il coraggio di dirlo, è inutile che rivendichi la possibilità di farlo.
Non comprendere le spaccature interne agli atenei, presentarli come una comunità unita da difendere, significa non comprendere le ambivalenze delle espressioni meritocratiche espresse dalla nuova composizione studentesca a partire dall’Onda in avanti. Quello della meritocrazia è un lessico urticante e mistificato, è vero; ma dentro quella mistificazione vi è un’istanza di classe, il rifiuto cioè del potere baronale. È così anche per la valutazione: è uno strumento aziendale, certamente; però come si fa a non vedere che oggi il rifiuto della valutazione è espresso dalla casta accademica, nel nome del suo potere arbitrario e della sua presunzione intellettuale? La valutazione va controutilizzata e agita autonomamente, contro i feudatari e contro l’azienda che (fintamente) la promuove.
Insomma, i movimenti universitari a venire non possono che essere contro i baroni e i docenti che riproducono un sistema corrotto, non possono quindi che essere basati sul desiderio di prendere a calci nel culo i baroni e i Marchionne dell’università. Se queste istanze non le vogliamo affidare alla magistratura, devono essere agite e trasformate collettivamente approfondendo le linee di potere e sfruttamento in cui l’università si spacca, dando ai nemici un volto e un nome, a cui corrispondono un indirizzo e un ufficio. Ricercatori e precari scelgano da che parte stare: se riprodurre l’antropologia dei “negri da cortile” o romperla soggettivamente, andando contro se stessi in quanto miseri individui e reinventandosi come parte collettiva. Quanto ai docenti, la loro collocazione sarà data dal posizionamento dentro questa spaccatura, non dalla loro fama “critica” e “radicale”. Perché i servi sono servi, i baroni sono baroni, e quelli illuminati di rosso si colpiscono semplicemente meglio.
Ps: ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente voluto.
Fonte: Effimera.org
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