di Marco Trasciani
Cosa può ancora dire il pensiero di Marx sulla crisi che attanaglia il mondo contemporaneo, una crisi che tende sempre di più a porsi come strumento di governo capace di neutralizzare l’insorgere di alternative al modo di vita che il capitalismo contemporaneo impone al pianeta? Nell’opera di Marx sono legate all’ insorgere della crisi, alla necessità politica di cogliere le opportunità che essa offre, le accelerazioni della attività teorica, così come la sua concettualizzazione è elemento essenziale della costruzione teorica.
Già negli anni che precedono lo studio intensivo dell’economia politica e della storia economica, cioè gli straordinariamente prolifici anni ’50 dell’esilio londinese, Marx è giunto alla conclusione del carattere strutturale delle ricorrenti crisi capitalistiche, dell’inevitabile sbocco che esse produrranno ( Manifesto del partito comunista).
Successivamente, ripresi gli studi economici, affermerà che la crisi commerciale del 1847 è stata la vera madre delle rivoluzioni di febbraio e marzo.
Poi, mentre è impegnato nella stesura della prima bozza del Capitale, auspica ed assiste all’esplodere di una crisi, 1857, che è economica e finanziaria allo stesso tempo. La sua attività si fa febbrile. Secondo Rosdolsky, considerato uno dei maggiori esegeti dell’opera di Marx, è proprio questo l’evento che spinge Marx a stringere i tempi nella stesura del suo lavoro, lavoro che concluderà in soli nove mesi.
Nella parte dei manoscritti, successivamente pubblicati con il titolo di Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica, che è dedicata al “denaro”, è presente un lungo excursus sulla crisi, che ne costituisce una parte essenziale. Contemporaneamente, negli articoli che scrive per la New York Daily Tribune, ha modo di analizzare il nesso che stringe la crisi economica e la crisi finanziaria. Si dedica ai meccanismi della speculazione borsistica, alla raccolta dei capitali attraverso le istituzione creditizie, all’intervento dello stato napoleonico nel sostegno e nello sviluppo del capitalismo francese, ai processi di ristrutturazione che poggiano sulla finanza.
L’importanza dell’attività giornalistica di Marx è stata a lungo trascurata. A ciò ha contribuito anche il modo in cui Marx stesso l’ha presentata. Un’attività minore, che serve alla mera sopravvivenza, una sorta di lavoro intellettuale parcellizzato di non particolare valore. Va a Sergio Bologna il merito di aver rivalutato l’importanza di questi articoli, il carattere di ricerca pratica che essi rivestono, la complementarietà rispetto all’attività teorica. Insomma il laboratorio marxiano deve alla crisi, alla necessità di essere pronti per le sfide politiche che essa determinerà quelle caratteristiche così efficacemente descritte nel carteggio con Engels ( 18 settembre 1857 ): “lavoro dannatamente, per lo più fino alle quattro del mattino….perchè si tratta di un duplice lavoro, elaborazione delle linee fondamentali dell’economia politica, la crisi attuale”
Ma come caratterizza Marx la crisi? Quali sono gli elementi che la determinano ?
Abbiamo accennato alla cornice generale entro cui la crisi si inscrive. E’ una idea dello sviluppo storico delle società, segnato dall’antagonismo tra i rapporti di produzione e le forze produttive. Quando lo sviluppo delle forze produttive cozza contro il limite dei rapporti di produzione che regolano lo svolgimento delle attività produttive nella società, si determina una spinta a superarli che prima o poi genera una nuova formazione sociale. La crisi evoca la possibilità di superamento del sistema, ma anche la possibilità di restaurare l’ordine compromesso.
E’ dentro questa alternativa radicale che il militante politico, “il partito dei due”, si muove, nella duplice direzione teorica ed organizzativa.
Nell’elaborazione che porterà alla definizione delle categorie analitiche del “Capitale” la crisi riceve nuove determinazioni. Essa viene ad essere caratterizzata dalla Sproporzione tra gli elementi del sistema economico che presiedono al suo funzionamento, sproporzione che ne blocca le possibilità di sviluppo, e che quindi costituisce una fonte della crisi.
Essa investe diverse relazioni: può riferirsi al rapporto tra liquidità monetaria circolante e l’ effettiva ricchezza prodotta, alla relazione tra beni prodotti per essere consumati e beni prodotti per essere impiegati come mezzi di produzione, a quella tra capitale fisso e capitale variabile oppure a quella tra lavoro necessario e plus-lavoro. Le interpretazioni del pensiero di Marx differiranno proprio sulla sottolineatura di questi elementi. Riferendosi principalmente alle prime tre forme di sproporzione, si richiameranno i fattori oggettivi alla base della crisi, invece con l’ultima si sottolineerà l’elemento soggettivo, e conseguentemente il costituirsi del soggetto in grado di distruggere il sistema capitalistico e di produrre un nuovo modo di produzione. Nel terzo libro del Capitale la crisi di nuovo si pone come legge per quanto tendenziale del modo di produzione capitalistico e sarà dettata dalla caduta del saggio del profitto. Nel tentativo di incrementare la produttività del lavoro vivo impiegato nel processo produttivo e la quantità di prodotto realizzata per unità di tempo, il processo produttivo risulterà caratterizzato da un incremento costante degli investimenti in mezzi di produzione. Ne deriverà un accrescimento della composizione organica del capitale, cioè della parte costante di esso rispetto a quella variabile. Poiché però la creazione di nuovo valore, e conseguentemente di plusvalore, può risultare solo dal lavoro vivo impiegato nel processo produttivo e quindi dalla parte variabile di capitale, cioè quella impiegata per acquistare forza lavoro, ne risulterà una diminuzione del saggio del profitto. E’ bene chiarire che diminuzione del saggio del profitto non è ancora diminuzione della massa del profitto, ma risulterà individuata comunque una contraddizione evidente tra la tendenza alla crescita della composizione del capitale e necessità del capitalismo di estrarre plusvalore dal lavoro vivo per produrre profitto. Nella analisi marxiana il capitale è questa relazione di comando sulla forza-lavoro per produrre profitto. E’ la ricerca del profitto il motore del sistema, la produzione è tutt’uno con la valorizzazione del capitale.
Il lavoro, che il capitale acquista sul mercato del lavoro come forza lavoro, deve essere impiegato nel processo produttivo come lavoro vivo, indistinguibile dalla persona che lo realizza. Con felice espressione Riccardo Bellofiore dice che il capitale deve vincere la lotta di classe nella produzione e cioè tenere a bada possibili antagonismi, conquistare l’egemonia, la cooperazione, il consenso. In questo senso, secondo l’analisi di Marx, la crisi è immanente al concetto di capitale. Sia che la soggettività operaia si esprima nella messa in discussione del comando sulla forza lavoro e quindi come richiesta di un controllo operaio sulla produzione, sia che assuma le caratteristiche di accentuare un rapporto contraddittorio tra lavoro necessario e plusvalore attraverso le rivendicazioni salariali, la crisi risulterà prodotta, come blocco dello sviluppo, dalla lotta di classe.
Ancora nel terzo libro del capitale Marx si pone il problema di come possa essere fronteggiata questa caratteristica strutturale del sistema alla caduta della profittabilità ed individua diverse possibili controtendenze. Esse sono l’aumento dello sfruttamento del lavoro, l’abbassamento del valore della forza lavoro ,il ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’aumento del capitale produttivo d’interesse. E’ chiaro che quest’ultimo fattore risulta per noi di particolare interesse. Già negli articoli per la New York Daily Tribune Marx aveva parlato di desiderio di estrarre ricchezza senza il dolore della produzione. Il capitale trova per questa via una modalità di valorizzazione che permette di evitare una relazione diretta con il lavoro vivo, la classe operaia. Cioè con quello che secondo alcuni è il fattore determinante della crisi. Ora non si vuole qui accentuare l’importanza di questa intuizione peraltro non sviluppata, quanto piuttosto sottolineare come, in base ad una tale analisi, quella che viene definita come finanziarizzazione dell’economia debba essere considerata piuttosto come sintomo di una crisi nell’accumulazione del capitale, che come un processo completamente autonomo. E di conseguenza la crisi che in una economia di tipo capitalistico viene a determinarsi, pure in una fase caratterizzata dal predominio del capitale finanziario, non possa essere spiegata ricorrendo all’argomento della mancanza di strumenti di governo dell’ attività finanziaria, che pure certamente è un dato di fatto, ma vada invece colta nella evoluzione del sistema economico nel suo complesso.
Secondo l’economista Christian Marazzi, fine studioso delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo, della sua svolta linguistica prima e finanziaria poi, la finanziarizzazione nasce come conseguenza di una crisi economica iniziata negli anni ‘70 per effetto combinato di a) caduta del saggio di profitto b) crisi di sovrapproduzione c) calo del tasso degli investimenti nell’economia fordista.
A metà degli anni ’70, secondo Marazzi, il tasso di profitto si ferma al 13-14 %, dal 20% che aveva caratterizzato i trenta anni precedenti. Il calo dei profitti viene contrastato attraverso un aumento della rendita finanziaria, il divenire rendita del profitto stesso. Il processo investe anche i grandi gruppi industriali: negli anni ’80 colossi industriali come GENERAL MOTORS, GENERAL ELECTRICS o FIAT, sviluppano comparti finanziari addirittura superiori a quelli produttivi, destinati a dirottare risorse verso investimenti di tipo finanziario.
Allo stesso tempo, quell’incremento della domanda che un tempo veniva raggiunto attraverso politiche Keynesiane è adesso garantito dalla finanziarizzazione, attraverso forme generalizzate di indebitamento.
E’ una specie di privatizzazione delle politiche realizzate nei Welfare del secondo dopoguerra facendo leva sulla spesa pubblica, anche ricorrendo ad un “deficit spending”, cioè ad un disavanzo di bilancio. Ogni singolo cittadino diviene ora un centro di imputazione e creazione della DOMANDA aggiuntiva attraverso una spesa resa possibile da un debito. In un lavoro dedicato alla lettura di questi processi, dal titolo eloquente “Il governo dell’uomo indebitato”, Maurizio Lazzarato, dedica un capitolo a quella che definisce “La fabbrica del sapere” statunitense, un’impresa, a suo avviso, ormai completamente finanziarizzata. I 2/3 degli studenti diplomati dall’università statunitense risulta indebitata. Secondo i dati forniti da una ricerca FED nel 2010 sono 37 milioni gli studenti che sono ricorsi ad un debito per terminare gli studi. Nel suo libro Lazzarato afferma che l’indebitamento studentesco esprime in modo esemplare la strategia neo-liberista, la sostituzione dei diritti sociali ( diritto alla formazione, alla salute, alla pensione ) con l’accesso al credito, ovvero con il diritto di contrarre debiti. I crediti al consumo sostituiscono così gli aumenti salariali, le assicurazioni individuali la sicurezza sociale, i prestiti immobiliari il diritto alla casa. Il ruolo dello stato ne risulta stravolto rispetto al concetto di democrazia sociale che pure abbiamo conosciuto per un trentennio del novecento: alle spese di formazione trasferite a carico dello studente corrisponde una liberazione di risorse che vengono trasferite alle famiglie più ricche attraverso una riduzione delle tasse, divenuto ormai un obiettivo, la diminuzione della tassazione, che caratterizza , in molte democrazie, il programma sia della destra che della sinistra, per questo e altri aspetti ormai indistinguibili. Innegabile che il debito rappresenti una nuova tecnologia di potere. Il debitore non è più controllato o spinto ad agire da una forza esterna che ambisce a regolarne la condotta, il debitore sceglie volontariamente di contrarre un debito e di fare per questa via della propria vita l’oggetto di un investimento di cui è egli stesso il garante e l’esecutore. Ovvero di divenire, come è di moda dire, imprenditore o manager di se stesso. Il debito è lo strumento del “business plan” realizzato su se stessi.
Nella fabbrica fordista il lavoratore era disciplinato da persone e procedure esterne, queste erano riconoscibili e contrastabili, facendo ricorso a risorse individuali o più spesso collettive. Al lavoratore traumatizzato e precario, consumatore indebitato dell’economia contemporanea della crisi è inibito pensare ad un futuro che non sia pervaso dalle passioni tristi legate all’obbedienza e alla mimesi del sé.
Fonte: linterferenza.info
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