La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 15 ottobre 2016

Trasformazioni del welfare e lotta per l’egemonia post-crisi in Italia

di Franco Abidah
Il welfare è a vario titolo al centro del dibattito e dell’intervento politico di questi ultimi mesi. Che si considerino le erogazioni economiche dirette, i servizi sociali in senso stretto o l’insieme di quello che era designato in termini marxisti come salario sociale (sanità, istruzione, cultura), si tratta di uno dei settori della spesa pubblica, e dell’azione sociale in generale, maggiormente colpito dalle retoriche e dalle pratiche neoliberali sul libero individuo e la libera impresa che si sono sviluppate in Europa a partire dagli anni ’70 e che hanno conosciuto nuova linfa nell’attuale, prolungata, gestione della crisi.
Sul fronte delle politiche si consideri, per limitarci al 2016, l’introduzione di una nuova misura parziale e frammentaria di sussidio economico quale il Reis approvato il mese scorsoe la riforma del Terzo Settore, ovvero del principale erogatore di servizi sociali pubblici, approvata nello scorso mese di maggio.
Importanti dati sono stati recentemente resi pubblici in merito alle conseguenze sociali del disinvestimento economico e culturale dal welfare. Per limitami ai due più clamorosi, richiamo in primo luogo il Rapporto Istat sulla povertà pubblicato nel mese di luglio, che ha mostrato l’aumento delle persone che vivono in condizione di povertà (circa 4,6 milioni di persone, il dato più alto dal 2005), con la crescita del numero di “nuovi poveri”, ovvero famiglie con due figli e residenti al Nord; in secondo luogo la ricerca di Censis e Rbm Assicurazione Salute pubblicata nel mese di maggio, che ha stimato in 11 milioni il numero di residenti in Italia che ha dovuto nell’ultimo anno rinunciare, per ragioni economiche, alle cure sanitarie di cui aveva bisogno.
Infine, accanto a queste iniziative politiche e questi dati, al di là dei commenti e delle valutazioni contingenti, due dibattiti si sono di recenti sviluppati (o per meglio dire, hanno ripreso vigore) in circuiti critici e militanti della rete: quello attorno al reddito sociale garantito e alla moneta del comune e quello sul rapporto tra mutualismo e soggettività politiche conflittuali.
In un simile scenario, propongo di seguito alcune riflessioni, sviluppate per punti, con cui contribuire al dibattito. I primi due punti sono di carattere teorico e riguardano una proposta generale su come inquadrare il dibattito sul welfare nell’attuale fase di gestione della crisi e di ricerca di un nuovo equilibrio cosiddetto post-neoliberale. L’ultimo paragrafo presenta in termini generali le caratteristiche del sistema di welfare italiano e le condizioni in cui si trovava alla vigilia della crisi finanziaria globale. In un successivo articolo mi concentrerò sugli sviluppi occorsi a partire dallo scoppio della crisi.
Una lotta per l’egemonia
La tesi fondamentale che voglio argomentare è che l’attuale ridefinizione del campo del welfare sia parte del più vasto processo di elaborazione e sperimentazione di una nuova egemonia capitalistica post-crisi, un’egemonia che, se conserva per l’essenziale l’indirizzo anti-sociale e neoliberale della fase precedente, tenta in modo esplicito di costruire lanarrazione di un nuovo inizio in cui saremmo immersi, nel quale benessere economico e benessere sociale avrebbero ritrovato il loro accordo. In questa narrazione il welfare ricopre una funzione importante per tre ragioni: innanzitutto si tratta del settore che finanzia gli (scarsissimi) interventi di sostegno alla popolazione povera e/o improduttiva, ovvero a quella fetta di cittadini di cui volentieri l’attuale antropologia dell’uomo-divenuto-impresa farebbe a meno. In secondo luogo è il settore della spesa pubblica cui più spesso è imputata la crescita e insostenibilità del debito pubblico. Infine, il welfare è per eccellenza il settore in cui si concentra una spesa pubblica che i parametri di corto respiro dominanti nel Finanzcapitalismo definiscono improduttiva, poiché destinata alla fornitura di servizi basati soprattutto su lavoro umano e su una bassa o nulla intensità tecnologica[7]. La ridefinizione di questo settore in una direzione più consona allo spirito dei tempi è dunque un passaggio importante nel processo di ri-acquisizione di un’anima da parte del capitalismo contemporaneo.
Data la portata di questo processo, la ridefinizione del welfare in corso a partire dallo scoppio della crisi finanziaria si articola su diversi livelli e registri. In particolare, si articola lungo due tensioni: da una parte la tensione tra aspetti distruttivi e creativi. Quella che viene, nella narrazione scientifica e giornalistica dominante, descritta come riforma, modernizzazione, innovazione del welfare, comprende azioni tese a distruggere l’assetto di welfare esistente (o almeno parti significative di esso) e altre azioni tese a creare un nuovo assetto che si sviluppi negli spazi aperti dal processo distruttivo e che nel suo sviluppo modifichi anche quegli aspetti del modello precedente lasciati formalmente più o meno intatti. D’altra parte, vi è la tensione tra la dimensione materiale (tagli, riorganizzazioni e riduzioni di servizi e prestazioni) e quella culturale e semiotica (ridefinizione delle identità e dei ruoli dei soggetti sociali coinvolti nel sistema di welfare, ridefinizione del senso stesso di un sistema di protezione-assistenza sociale) del processo in corso.
Nello spazio delimitato da queste quattro polarità prende forma il disegno tratteggiato in maniera molto chiara ad esempio nei documenti di indirizzo dell’Unione Europea per il cosiddetto Orizzonte 2020 “per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”. Secondo questa visione, la fase dell’individualismo feroce, della competizione e della mercificazione di ogni aspetto della vita sarebbe superata (o comunque andrebbe, per generale consenso, superata). Si tratterebbe ora di mobilitare a questo fine le energie diffuse nella società e di mettere a sistema un nuovo modo di produzione della ricchezza e di sviluppo di relazioni sociali: imprenditoria sociale, innovazione sociale, piattaforme di condivisione, industria verde, ecc. sarebbero gli strumenti di questa straordinaria conversione etica dell’economia e della società europee. Il supporto economico a questa transizione, oltre che da cospicue risorse pubbliche impegnate a sussidiare in vari modi le imprese (siano finanziamenti diretti o sgravi fiscali), verrebbe anche dalla conversione etica dei settori imprenditoriale e finanziario.
Buone pratiche e manuali, raccomandazioni e consulenze (“incubazioni”) si diffondono, insieme ad alcuni finanziamenti a fondo perduto (per ricerca scientifica o per l’avvio di start-up sociali). In questa narrazione, le politiche di austerità, con le loro conseguenze in termini di rafforzamento dei processi di finanziarizzazione e di impoverimento delle nostre economie e società, sono ignorate o tutt’al più utilizzate retoricamente per legittimare le nuove, buone, pratiche sperimentali che, nonostante tutto, si sviluppano. In entrambi i casi, rappresentano un dato di fatto intoccabile, con cui convivere e a cui trovare “nuove soluzioni”, o magari innovative “resilienze”.
Il welfare dunque è mobilitato per alimentare questa rappresentazione e ne costituisce uno dei principali campi di sperimentazione tanto materiale quanto retorica: tagli ai servizi ed elogio delle virtù della comunità; sviluppo di impresa “sociale” e confusione tra lavoro retribuito e volontariato; riproposizione di misure assistenziali parziali e obbligo direstituire alla comunità l’aiuto ricevuto sotto forma di prestazioni volontarie; apertura e sgravi fiscali per il welfare aziendale e creazione di metriche di impatto sociale finalizzate a retribuire il capitale investito nel welfare da finanzieri illuminati.
Nell’intreccio di questi fattori si producono nuove forme di governo tanto dei cittadini-utenti quanto dei lavoratori sociali, tutti invitati a farsi imprenditori di se stessi, a coltivare i propri talenti e a venderli al primo offerente e, soprattutto, a lasciar perdere la politica e il conflitto, dedicandosi piuttosto al concreto bene della comunità.
Economia politica del welfare
La lente che uso per analizzare questi processi si basa sulla prospettiva marxista dell’economia politica del Welfare State (Gough 1979, 2008), che fornisce alcune coordinate fondamentali attraverso cui osservare il welfare e le sue trasformazioni. In questa prospettiva, lo Stato Sociale presenta una fondamentale ambiguità: esso è infatti, da un punto di vista strutturale, da un lato il risultato delle lotte delle classi lavoratrici contro gli interessi del capitale, dall’altro la migliore garanzia di riproduzione della forza lavoro necessaria al capitale stesso; da un lato è punto di arrivo e di ripartenza delle lotte sociali, dall’altro un vaccino contro di esse in quanto strumento di incorporazione e addomesticamento delle classi lavoratrici. Lo Stato Sociale sarebbe dunque per il sistema capitalistico e le classi dominanti un peso necessario da sopportare, che tuttavia non deve superare una certa soglia, a pena di divenire un ostacolo ai meccanismi di estrazione e accumulazione di valore. Da questa contraddizione discenderebbe la tensione interna ai sistemi di welfare tra la funzione di tutela e promozione delle classi lavoratrici e subalterne e quella di contenimento/controllo delle stesse.
In questa cornice, il welfare ricopre tre funzioni, distinte ma strettamente intrecciate: la riproduzione della forza lavoro; il mantenimento del cosiddetto esercito di riserva dei disoccupati e della “popolazione improduttiva”; la legittimazione dello stato esistente delle cose attraverso la finzione dell’armonia sociale incarnata da uno Stato garante del benessere di tutti.
Arbitro del difficile equilibrio tra queste funzioni sarebbe appunto lo Stato, da intendere assieme come attore di parte (attivo nella riproduzione del modello capitalista) e come arena dello scontro tra gli interessi e gli attori di classe che si affrontano. Infatti, se quella appena esposta è la contraddizione che permea strutturalmente i sistemi di welfare in una società capitalistica, è poi la dinamica storica e politica specifica di ogni Paese e la sua specifica collocazione nell’ordine economico globale a determinare le specifiche traiettorie ed evoluzioni dei sistemi nazionali di welfare (e vedremo nel prossimo paragrafo alcuni aspetti specifici del caso italiano).
Da questa impostazione discende una prima importante indicazione: se Welfare e capitalismo sono parte di una medesima dinamica storica e sociale, i loro sviluppi vanno messi in relazione ed interrogati per ciò che significano l’uno per l’altro. Gough, richiamandosi alla teoria della crisi fiscale dello Stato (O’Connor 1973), fotografava l’inizio della crisi della fase espansiva del Welfare e ne prevedeva quattro possibili vie di uscita per lo Stato capitalistico: 1) avvicinamento del campo dell’istruzione a quello del lavoro, ovvero esasperazione della funzionalità del primo al secondo; 2) trasformazione degli utenti dei servizi di welfare in lavoratori attraverso la limitazione dei benefici assistenziali e la creazione di canali ad hoc per il loro inserimento lavorativo; 3) managerializzazione dei servizi pubblici, attraverso strategie di gestione economica e di gestione del personale mutuate dal mondo dell’azienda privata; 4) riprivatizzazione e ri-mercificazione di alcuni settori del welfare.
Per capire come e quanto questi quattro processi si sono sviluppati nei decenni successivi, è necessario domandarsi quale tipo di capitalismo si sia affermato e in che direzione le sue contraddizioni si siano svolte.
Con molta approssimazione si può dire che il Nord del mondo è stato interessato a partire dagli anni ’70 dalla progressiva affermazione di un nuovo modello di capitalismo e, con questo, di un nuovo paradigma antropologico, di stampo neoliberale. Questo paradigma, basato su una concezione esasperata dell’individualismo, della concorrenza e della mercificazione di ogni aspetto della vita, ha indebolito in maniera sostanziale l’idea e la pratica di un compromesso sociale quale quello espresso, con tutti i suoi limiti, dallo stato sociale keynesiano. Piuttosto, attraverso la “lotta di classe dopo la lotta di classe” (secondo la felice espressione di Luciano Gallino) e attraverso l’attiva mobilitazione dello Stato a favore di processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, ha approfondito le diseguaglianze e incoraggiato, o esasperato, la centralità del privato, anche nei campi della cura e della protezione sociale.
Si è trattato di un processo lungo e complesso, fatto di fasi prevalentemente distruttive (dagli anni ’80 a metà dei ’90 circa) e di altre prevalentemente costruttive (dalla metà degli anni ’90 fino allo scoppio della crisi finanziaria). Nel campo del welfare, questa dinamica ha corrisposto a fasi principalmente caratterizzate da tagli e ristrutturazioni dei servizi e delle misure esistenti e ad altre caratterizzate da iniziative sperimentali che ridavano (moderatamente) slancio alle politiche sociali, trasformandone tuttavia alcuni importanti presupposti.
All’interno di questo processo, il neoliberismo si è nutrito (in parte per trasformarlo in strumento di accumulazione di ricchezza e di gestione della popolazione, in parte a puro scopo retorico) anche dell’immaginario “liberato” dei movimenti sociali degli anni ’70 e ’80. Di questa materia è fatto il cosiddetto nuovo spirito del capitalismo, creativo e attento alle potenzialità e alle specificità dell’individuo. Questo spirito ha trovato espressione, nel campo del welfare, nel paradigma dell’investimento sociale ispirato al concetto quanto mai inquietante di capitale umano (Foucault 2004), un concetto che cattura ed esaspera l’importanza della formazione del lavoratore per il successo economico dell’azienda, fino a farne la variabile principale. Conseguentemente, il paradigma dell’investimento socialerivaluta il benessere dei lavoratori in quanto fattore di produttività e innovazione economica e, se fornisce argomenti e strumenti in favore di un welfare orientato al potenziamento del capitale umano, scredita tutti gli interventi rivolti alla popolazione più povera ed esclusa dal mondo del lavoro. A due decenni dall’affermazione scientifica e retorica del paradigma, recenti revisioni delle riforme delle politiche sociali messe in atto in Europa sottolineano due dati: in primo luogo la limitatissima traduzione di questo paradigma in concrete politiche pubbliche; in secondo luogo il forte privilegio ricevuto, nei pochi casi di implementazione di politiche di investimento sociale, da parte dei ceti medi piuttosto che dei ceti popolari (Morel, Palier, Palme 2012; Cantillon, Vandenbroucke 2013, Cantillon et alii 2013).
In Italia, cenni storici
Contro qualunque visione nostalgica di un passato ideale e perduto, è bene richiamare alcune caratteristiche storiche del welfare italiano e alcune delle tensioni che lo hanno percorso negli ultimi decenni, allo scopo di individuare linee di tendenza di lungo periodo e di mostrare come l’attuale fase di crisi e ridefinizione non agisca su un terreno vergine né pacificato ma al contrario su un sistema che è a sua volta frutto di una lunga storia, di interessi contrapposti, di conflitti, di vuoti, di compromessi.
Nello specifico, è opinione diffusa negli studi sul welfare che l’Italia si collochi all’interno del modello mediterraneo segnato da: a) la preminenza del ruolo della famiglia e delle reti primarie rispetto a quello dello Stato nelle funzioni di assicurazione sociale; b) la preminenza, nell’intervento dello Stato, di interventi che implicano trasferimenti economici diretti piuttosto che costruzione di servizi; c) la grande frammentazione delle misure assistenziali esistenti sulla base delle categorie e delle carriere lavorative, con gravi conseguenze per gli esclusi dal mondo del lavoro (Esping Andersen 1990; Ferrera 1996).
Coerente con questo quadro sono due caratteristiche specifiche del Welfare Italiano. In primo luogo l’assenza di una misura universale di sostegno economico per chi si trovi in condizione di povertà: realizzata in tempi e modalità diversi in diversi Paesi dell’Unione Europea, tra i Paesi della cosiddetta Europa a 15 è ancora assente solo in Italia e Grecia. In secondo luogo lo sviluppo, a partire dagli anni ’80, di un Terzo Settore di natura sostitutiva rispetto allo Stato piuttosto che complementare: appaltatore al ribasso dei servizi pubblici quando questi esistono; benevolente erogatore di prestazioni gratuite quando questi non esistono o sono insufficienti. A queste caratteristiche si deve aggiungere un forte squilibrio territoriale tra regioni sia per quanto riguarda lo sviluppo economico che per quanto riguarda l’investimento in politiche sociali.
Senza poter entrare nel merito di una ricostruzione storica di lungo periodo, mi limito a richiamare due aspetti che permettono di apprezzare, in coerenza con l’approccio teorico sopra esposto, la stretta connessione tra dimensione economica e politica e caratteristiche del welfare italiano nella sua fase espansiva, che si può datare fino a circa gli anni ’80. In primo luogo la centralità, culturale e politica, della figura del lavoratore più che del cittadino, da cui deriva la persistenza e per certi aspetti l’esasperazione di forme categoriali di protezione sociale sviluppate in epoca repubblicana, che sono state alimentate e hanno alimentato anche le dinamiche clientelari e il peso degli specifici gruppi di pressione nel sistema politico italiano. Su questa base si è determinato il fatto che, nella sua fase espansiva, il welfare italiano abbia beneficiato principalmente i ceti medi “siano essi artigiani, commercianti e soprattutto contadini, siano essi lavoratori dipendenti (impiegati statali)” (Morlicchio, Pugliese 2000). Praticamente inesistenti, in questo contesto, misure di assistenza slegate dalla posizione lavorativa/previdenziale del cittadino – con conseguenze tuttora visibili.
In secondo luogo la frattura tra nord e sud del Paese, con l’impiego massiccio e distorto, nel Meridione, di prestazioni previdenziali impiegate come sostitutivo di una politica di investimenti e sviluppo economico (idem).
A partire dagli anni ’90 si diffonde in Italia, soprattutto su spinta europea, l’idea che la spesa sociale vada non solo ridotta (attraverso politiche di shock economico e sociale come quelle che discendono dai diversi passi verso l’unione monetaria) ma anche “ricalibrata”, ovvero resa più adatta alle nuove caratteristiche del lavoro e della società (ovvero di un capitalismo a sempre maggiore contenuto cognitivo). Tre i fatti salienti del decennio: 1) si gettano le basi culturali e politiche del paradigma dell’investimento sociale: si diffonde il concetto di capitale umano e l’idea di politiche e interventi sociali tagliati a misura dell’individuo; 2) prende forma il cosiddetto welfare mix, un sistema di collaborazione tra pubblico e privato basato sul progressivo affidamento dell’erogazione di servizi al Terzo Settore, capace di garantire costi molto più ridotti grazie all’ampio ricorso al lavoro precario e al volontariato, e sulla strutturazione di un quasi mercato dei servizi, ovvero di un sistema di produzione e scambio dei servizi in cui il settore pubblico determina in maniera esclusiva il volume delle risorse in gioco; 3) il settore dell’assistenza, storicamente debole, acquista timidamente maggiore visibilità e interesse politico con sperimentazioni sia nel campo dei servizi territoriali che per quel che riguarda l’introduzione di un reddito minimo per le persone in condizione di povertà.
Queste tre tendenze continueranno ad affermarsi (con l’eccezione delle sperimentazioni di reddito minimo) fino alla metà degli anni 2000 con alcuni fondamentali limiti e contraddizioni, in particolare la mancata formalizzazione del diritto dei cittadini ad accedere alle nuove forme di welfare che venivano sperimentate (né in termini di servizi né in termini di salario minimo). Questa mancata formalizzazione era resa ancora più grave dalla perdurante insufficienza del finanziamento pubblico per l’attuazione delle politiche, che ha a sua volta contribuito alla fine delle sperimentazioni sul reddito minimo di inserimento e all’aumento del ricorso al Terzo Settore per l’implementazione, a costi ridotti, degli interventi territoriali.
Tutte queste contraddizioni precipiteranno con lo scoppio della crisi economica e con il definirsi della sua gestione politica attraverso le cosiddette politiche di austerità.

Prima parte (continua)

Bibliografia


Cantillon, B., Vandenbroucke, F. (2014), Reconciling work and poverty reduction. How successful are European Welfare States? Oxford: Oxford University Press

Esping Andersen, G. (1990), The three worlds of welfare capitalism, London: Polity Press

Ferrera, M. (1996), “Il modello sudeuropeo di Welfare State”, Rivista italiana di Scienza politica, XXVI, n. 1, aprile

Foucault, M. (2004), La naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Paris: Seuil/Gallimard (tr. It. Nascita della biopolitica, Milano: FeltrinellI, 2005)

Gough, I. (1985), The political economy of the welfare state, London: Macmillan (tr. ItL’economia politica del welfare State, Napoli: Loffredo, 1985)


Morel, N., Palier, B., Palme,J. (2012), Towards a Social Investment Welfare State? Ideas, policies and challenges, Chicago, University of Chicago Press

Morlicchio, E., Pugliese, E. (2000), “L’Italia, un welfare di stile mediterraneo che mal distingue tra beneficiari forti e deboli”, Sistema previdenza, n. 196.

O’Connor, J. (1973), The fiscal crisis of the State, New York, NY: St.Martin’s Press (tr. It. La crisi fiscale dello Stato, Torino: Einaudi, 1979)


Note

[7] Per una critica teorica ed empirica a questa impostazione, si vedano Gough (1979) e, più di recente, Vercellone (2011).

Fonte: Effimera.org

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