di Roberto Musacchio
Era aprile di questo anno quando Mario Draghi prendeva parola davanti al Consiglio di Stato portoghese. Da poco eletto il nuovo Presidente del consiglio, Costa, socialista sostenuto dalle sinistre e con un programma anti austerità. Le parole del capo della Bce non si limitano a difendere le lacrime e sangue imposte dai vari memorandum, ma ripropongono concetti «cari» a Draghi per il quale le Costituzioni nazionali sono spesso di ostacolo alle riforme. Per aggiungere che tra quelle necessarie c’è anche la modifica della legge elettorale, nell’ottica della governabilità (come è importante allora che Tsipras abbia riproposto il proporzionale!).
Non sono concetti nuovi ma riprendono un refrainche sta a cuore a Draghi ma anche a molti altri protagonisti della grande finanza, JP Morgan in testa.
Non sono concetti nuovi ma riprendono un refrainche sta a cuore a Draghi ma anche a molti altri protagonisti della grande finanza, JP Morgan in testa.
Il referendum italiano è dunque un momento decisivo di una partita che si gioca in realtà in tutta Europa. Diciamo decisivo perché la Costituzione italiana è la più avanzata del dopoguerra e il suo «azzeramento» (rottamazione, scalpo?) la prova di lealtà che Renzi deve portare ai gestori del sistema.
Che il voto sia europeo lo pone bene in evidenza Napolitano quando osserva che la vittoria del Sì permette di «garantire l’autorità di queste istituzioni». Istituzioni che a suo parere bene hanno lavorato.
Il progetto delle istituzioni europee è perseguito su un doppio binario. Da un lato si procede sull’edificazione di una Ue che prescinde, e non prevede, cardini costituzionali e democratici. Dall’altro si procede allo smantellamento sistematico degli assetti costituzionali e democratici realizzati su base nazionale. Per altro i due processi interagiscono tra loro anche perché chi li manovra vuole assolutamente evitare che accada il contrario e cioè che la base costituzionale e democratica che ha fondato le realtà nazionali si proietti sulla dimensione europea.
Questo doppio binario ha visto viaggiare in questi anni un processo che è stato ad alta velocità. E che come il Tav ha fatto disastri ambientali, economici e sociali non favorendo la mobilità sociale, quella democratica e dei diritti, ma quella dei profitti e dei poteri forti. Se pensiamo alla quantità ed alla «qualità» delle «riforme» fatte in realtà in pochi anni e agli stravolgimenti che hanno portato negli assetti consolidati e nella vita delle persone e dei popoli l’accusa di immobilismo che giustificherebbe la «velocizzazione» e la «semplificazione» dei processi appare una pura mistificazione, la beffa dopo il danno, costruito con anni di stravolgimento del senso comune.
In pratica tutti gli argomenti di Draghi, e di Renzi, sono in realtà «falsificati» dalla realtà fattuale. Ma proprio la capacità di guardare alla realtà è la prima prerogativa che viene messa in discussione da questo processo. La «disinvoltura» con cui si impone un refrain (governabilità, stabilità, non si può fare altro) e lo si tiene fermo, salvo poi «ripensarci» disinvoltamente e strumentalmente come stanno facendo sull’Italicum. Perseguono l’obbiettivo di non avere impedimenti «locali» all’esercizio del potere «generale».
Ma questo schema non regge più, travolto da voti popolari di segni diversi. Travolto da una crisi economica inarrestabile. Schiacciato dai corpi dei migranti bloccati davanti alle reti e ai muri che dividono il continente.
Come prima di ogni voto fondamentale minacceranno il fallimento delle banche (in primis Mps), il crollo dell’economia, disordine e caos – in pratica la fine del mondo. Ma il mondo non finisce, come non è finito dove queste minacce hanno prodotto un voto popolare contrario – con segni politici diversi -, un voto del «basso» contro un «alto» insostenibile.
Il voto in Italia, paese simbolo per il carattere progressista della Costituzione e della legislazione dei diritti, è quindi un grande voto per l’Europa.
Fonte: Il manifesto
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