di Stefano Filauro e Elena Granaglia
Oggi, in molti paesi occidentali, e certamente in Italia, la disuguaglianza nelle opportunità registra livelli che paiono inaccettabili per una società che ambisca a essere aperta. Nonostante ciò la disuguaglianza nelle opportunità resta al di fuori dell’agenda politica e affiora spesso l’idea che il problema, quand’anche fosse considerato grave, si potrebbe risolvere con interventi relativamente semplici (in particolare sull’istruzione) o anche con il rilancio della crescita economica. Un recente convegno organizzato a Roma dal Ciret (Centre for Inter-university Research “Ezio Tarantelli”) ha fatto il punto sulla situazione e dagli interventi dei vari relatori sono emersi numerosi spunti in grado di mostrare i limiti di questo approccio.
Il convegno si è aperto con una riflessione su andamento e caratteristiche della disuguaglianza nel mercato del lavoro cui hanno partecipato Cortes, Naticchioni, Cristini, D’Amato, Lucifora, Sologon e Destefanis sulla quale non possiamo soffermarci.
Concentrandoci sulla disuguaglianza intergenerazionale, innanzitutto, uno sguardo ai dati, oramai be noti. Benché ignorati anche da molti autorevoli studiosi e commentatori, i dati a nostra disposizione già da tempo segnalano forti disuguaglianze anche nel paese considerato la terra delle opportunità, gli Stati Uniti.
La correlazione media del reddito da lavoro dei figli con il reddito dei genitori è misurata dal coefficiente di elasticità intergenerazionale. Più questo coefficiente si avvicina all’unità, più il reddito dei figli dipende da quello della famiglia di origine; valori dell’ordine dello 0,50 – come sono quelli degli Stati Uniti e dell’Italia, al top di questa classifica – sono molto alti. Considerazioni simili si estendono all’istruzione, da cui molto dipendono le opportunità dei singoli: il suo livello resta fortemente legato alle condizioni socio-economiche dei genitori.
La correlazione media del reddito da lavoro dei figli con il reddito dei genitori è misurata dal coefficiente di elasticità intergenerazionale. Più questo coefficiente si avvicina all’unità, più il reddito dei figli dipende da quello della famiglia di origine; valori dell’ordine dello 0,50 – come sono quelli degli Stati Uniti e dell’Italia, al top di questa classifica – sono molto alti. Considerazioni simili si estendono all’istruzione, da cui molto dipendono le opportunità dei singoli: il suo livello resta fortemente legato alle condizioni socio-economiche dei genitori.
Alcune relazioni presentato al Convegno hanno aggiunto motivi di preoccupazione a questi già preoccupanti dati. Gregg ha calcolato, con riferimento al Regno Unito, il coefficiente di elasticità intergenerazionale cercando di colmare tre debolezze delle precedenti stime. Più precisamente egli ha tenuto conto del reddito della famiglia d’origine (e non solo di quello dei padri), del reddito complessivo nel ciclo di vita (anziché di quello a un punto del tempo) e dei sussidi di disoccupazione percepiti nei periodi di inattività. Tenendo conto di tutto ciò il coefficiente del Regno Unito resta molto elevato e raggiunge valori simili a quelli degli Stati Uniti e dell’Italia.
Il coefficiente di elasticità inter-generazionale è tipicamente un valore medio relativo a tutta la distribuzione dei redditi. Passando dai redditi ai salari, Gregg ha anche mostrato come l’effetto di trasmissione sia di intensità maggiore nella parte alta della distribuzione. Dunque, la trasmissione del reddito da parte dei più ricchi ai propri figli è ben superiore al 50% che in media si registra su tutta la distribuzione. E’ come se un robusto “tetto di vetro” impedisse a chi viene da condizioni più svantaggiate di collocarsi nella parte più alta della distribuzione dei redditi.
Peragine, presentando un lavoro al quale hanno contribuito anche Checchi e Serlenga, ha mostrato che la disuguaglianza sarebbe ancora maggiore se si distinguesse fra la componente attribuibile alle mere circostanze – genere, età, nazionalità e condizioni socio-economiche dei genitori – che l’uguaglianza di opportunità richiede di contrastare, e la componente attribuibile all’impegno, che andrebbe, invece, preservata.
E’ usuale – come mostra anche il lavoro appena menzionato di Peragine, Checchi e Serlenga – considerare la disuguaglianza nelle opportunità di istruzione la causa principale della disuguaglianza di reddito. In particolare, se non si riesce a raggiungere una posizione economica migliore di quella dei propri genitori la ragione è che le disuguaglianze presenti nel contesto socio-economico si traducono in disuguaglianze di istruzione.
Franzini, Patriarca e Raitano hanno, però, messo in guardia da letture troppo semplicistiche della relazione fra istruzione e reddito. Pur a parità di istruzione, chi proviene da ambienti svantaggiati sembrerebbe, infatti, esposto ad un rischio di minore guadagno. Una possibile ragione consiste nel fatto che il mercato del lavoro premia, oltre al capitale produttivo alimentato dall’istruzione, un altro capitale, quello che gli autori chiamano capitale relazionale. Le famiglie più avvantaggiate dimostrano una superiorità anche su questo fronte. Il peso del capitale relazionale e le rendite che esso conferisce sarebbero tanto maggiori quanto meno i mercati sono competitivi. Come sostenuto da Raitano e Vona, il capitale non produttivo giocherebbe anche un importante ruolo di paracadute per i più avvantaggiati.
Tutte le relazioni offrono, però, anche motivi di speranza. La disuguaglianza non è inevitabile e le politiche – diversi tipi di politiche – possono contrastarla. Il tema dell’istruzione è stato, naturalmente, menzionato più volte nel Convegno sottolineando l’importanza del disegno delle politiche per l’istruzione. Ad esempio, come ha rilevato Gregg, garantire l’uguaglianza di opportunità di istruzione richiede un sistema che, pur premiando il merito, si discosti dai modelli più competitivi dove il vincitore prende sostanzialmente tutto. Dal canto suo, Blanden ha ricordato che non basta accrescere le risorse destinate alla prima infanzia e ciò è dimostrato dagli esiti di un ampio programma adottato in Inghilterra per rendere universale e accessibile l’istruzione pre-scolare fornendo sussidi statali a istituti privati, L’attento esame di questa esperienza da parte di Blanden mostra che esso non ha assicurato ai ragazzi coinvolti i benefici attesi in termini di più alti livelli educativi e migliori condizioni socio-economiche. Scarpetta ha poi sottolineato l’importanza di politiche di formazione mirate a un mercato del lavoro segmentato.
Altri partecipanti hanno focalizzato la proprio attenzione sul sostegno alle famiglie. In contrasto con l’idea, molto diffusa nel nostro paese, secondo cui per valorizzare le famiglie occorre lasciarle “libere” da interferenze (sole), Corak ha proposto politiche che favoriscano strutture familiari stabili, garantendo continuità di reddito e equilibrio tra occupazione e cura infantile, soprattutto nel caso di famiglie con basso reddito e limitata istruzione.
Nella prospettiva del sostegno al reddito, occorre, altresì, ricordare, oltre al ruolo che possono svolgere i salari minimi, esaminato nell’intervento di Marx, la proposta presentata da Brandolini, Carta e D’Amuri di una misura europea di maggiore protezione dai rischi di disoccupazione che aggravano le disuguaglianze. La proposta è concreta, compatibile con i sistemi nazionali e in grado di ridurre non solo le disuguaglianze ma anche le oscillazioni di reddito.
Atkinson ha, infine riproposto le ricette contenute nel suo lavoro recente (Inequality. What can be done?, Harvard University Press, 2015), indicando un ampio spettro di politiche, alcune di stampo re-distributivo, volte a modificare ex post le distribuzioni di mercato attraverso trasferimenti e altre di stampo pre-distributivo, volte a regolare/indirizzare i mercati ex ante in modo tale da contenere le disuguaglianze, e altre ancora miste. Fra le prime, ricordiamo la proposta, non proprio convenzionale, di aumento della progressività fiscale agendo all’interno sia dell’imposta personale, attraverso l’innalzamento al 65% dell’aliquota massima, sia della più complessiva composizione del prelievo, attraverso il rafforzamento dell’imposta di successione. In un mondo in cui molti chiedono di abbassare l’imposizione sui redditi da lavoro la richiesta di aumentare l’aliquota massima potrebbe risultare incomprensibile. La ragione, in breve, è che i redditi da lavoro – naturalmente quelli più elevati – contengono, nel mondo attuale, un forte elemento di rendita e tassare le rendite oltre a essere equo è efficiente.
Fra le seconde ricordiamo le politiche di regolazione del mercato del lavoro; le politiche tese a indirizzare il progresso tecnico al fine di contenere i rischi di disoccupazione strutturale e le politiche di fissazione di espliciti obiettivi di disoccupazione, con la garanzia anche di occupazione pubblica, magari nei settori ad alta intensità di lavoro come è quello dei servizi alla persona. A ciò dovrebbero aggiungersi politiche di fissazione di salari minimi almeno ai livelli di sussistenza (da innalzare gradualmente nel tempo) e codici di buona pratica industriale.
Fra le proposte miste vorremmo, infine, ricordare un assegno per ogni bambino come parte di un programma europeo di reddito minimo, e la distribuzione di un capitale minimo a tutta la popolazione adulta da finanziare tramite un’imposta sulla ricchezza. Si tratta di misure miste in quanto comportano aspetti sia redistributivi sia pre-distributivi, riflettendo il diritto di tutti a una quota delle risorse comuni.
Certo la volontà politica resta cruciale e Pianta ha messo in evidenza come le politiche economiche finora intraprese dagli stati europei siano ben lontane dal muoversi nella direzione di un serio contrasto delle disuguaglianze. Una ragione di questo stato di cose potrebbe risiedere nel fatto che i processi politici sono sempre più influenzati dalle élite economiche e l’adozione di politiche ugualitarie è ostacolata dai mercati finanziari e dalle pressioni internazionali. Cruciale sembra essere l’influenza politica e mediatica degli avvantaggiati dalla disuguaglianza, come si è già sostenuto in questo Menabò. E quella influenza forse spiega anche perché è così diffusa l’idea che poco si possa fare contro la disuguaglianza, soprattutto senza generare altri danni. Il Convegno del CIRET ha mostrato che gli argomenti per confutare questa idea non mancano, e sono piuttosto solidi.
Fonte: eticaeconomia.it
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