di Damiano Palano
Già dalla fine degli anni Sessanta, dopo la conclusione delle riprese di C’era una volta il West, Sergio Leone iniziò a progettare un film sull’assedio di Leningrado. La pellicola avrebbe dovuto ispirarsi a The 900 Days. The Siege of Leningrad, un libro in cui il giornalista Harrison E. Salisbury ricostruiva la vittoriosa resistenza dell’Armata Rossa e dell’intera città dinanzi all’offensiva tedesca, durata dal giugno 1941 fino al gennaio 1943. Più volte accantonata, l’idea non fu però mai abbandonata da Leone, che tornò a elaborarla dopo aver girato C’era una volta America. Di quel progetto ambizioso rimangono solo alcune cartelle dattiloscritte, da cui è possibile ricostruire solo molto vagamente la direzione che Leone avrebbe imboccato per trasferire sul grande schermo la cronaca di Salisbury.
Ma grazie a quegli appunti è possibile immaginare il lunghissimo, affascinante piano-sequenza che il regista aveva ideato come inizio. L’apertura doveva essere infatti un primo piano sulle mani di Dmitrij Šostakovič, che scivolavano sui tasti bianchi e neri del pianoforte, alla ricerca delle note della Sinfonia di Leningrado, la sinfonia che il musicista iniziò effettivamente a comporre nel 1941 e che fu eseguita per la prima volta, nella città assediata, un anno dopo.
L’inquadratura si sarebbe dovuta poi lentamente allargare, scoprendo la figura del compositore e il suo appartamento.
L’inquadratura si sarebbe dovuta poi lentamente allargare, scoprendo la figura del compositore e il suo appartamento.
La macchina da presa sarebbe allora uscita dalla finestra della casa di Šostakovič, per scendere in strada e seguire i passi di due uomini che, armati di pistola, salivano di corsa su un tram, insieme ad altri civili.
Sempre senza alcuno stacco, e senza l’interruzione della musica, la macchina da presa avrebbe percorso il tragitto del tram lungo le strade di Leningrado, guadagnando poi quota e scoprendo – con una veduta dall’alto – che quel tram procedeva, insieme ad altre decine di veicoli, verso la periferia: non verso le fabbriche, bensì verso il fronte, posto poco fuori dalla città, e oltre il quale l’occhio si spingeva fino a intravedere le artiglierie tedesche pronte al fuoco.
Sempre senza alcuno stacco, e senza l’interruzione della musica, la macchina da presa avrebbe percorso il tragitto del tram lungo le strade di Leningrado, guadagnando poi quota e scoprendo – con una veduta dall’alto – che quel tram procedeva, insieme ad altre decine di veicoli, verso la periferia: non verso le fabbriche, bensì verso il fronte, posto poco fuori dalla città, e oltre il quale l’occhio si spingeva fino a intravedere le artiglierie tedesche pronte al fuoco.
Quella scena iniziale – che difficoltà tecniche e finanziarie dovevano rendere quasi impossibile da realizzare – doveva naturalmente celebrare l’epopea di una resistenza eroica, una lotta di popolo all’apparenza sconfitta fin dai primi giorni eppure capace di opporsi vittoriosamente a un assedio estenuante da parte di forze tecnicamente superiori. Ma quella scena – almeno immaginata oggi, settant’anni dopo la fine della guerra, e dopo quasi un quarto di secolo dalla dissoluzione dell’Unione sovietica – doveva anche rappresentare molto di più. Se il piano-sequenza conclusivo di C’era una volta il West aveva fissato la chiusura dell’epopea western (e forse anche la fine del mito della frontiera), l’inizio del film sull’assedio di Leningrado doveva probabilmente condensare in un solo piano-sequenza il clima del feroce Weltbürgerkrieg che sconvolse l’Europa. E forse doveva anche dare una formidabile rappresentazione plastica di quello che fu il ‘cuore di tenebra’ dell’intero Novecento.
Per quanto l’accostamento possa apparire inopportuno, è quasi inevitabile riconoscere nelle pagine di Dello spirito libero di Mario Tronti la medesima prospettiva che doveva indirizzare quell’interminabile e mai realizzato piano-sequenza. Perché anche nei trontiani Frammenti di vita e di pensiero – come recita il sottotitolo del volume – ritorna quasi costantemente la convinzione che tutto il Novecento, o quello che conta del Novecento, si consumi nell’arco di pochi anni, e che soprattutto viva il suo culmine in quello scontro fatale di cui, in qualche modo, si può trovare un simbolo nella resistenza di Leningrado. E perché proprio dentro il ‘cuore di tenebra’ del Novecento – dentro quel passato e dentro quel vissuto – si può trovare la spiegazione del nostro presente. «Oggi», scrive infatti Tronti, «il vissuto è più potente del vivente, come arma per strappare alla realtà la conoscenza, la comprensione, il possesso, il giudizio» (DSL 10)[1].
Stardust Memories
Sulla prosa di Tronti e sul suo «stile», che Alberto Asor Rosa ha definito «duramente, estremisticamente paratattico»[2], si è talvolta ironizzato. Lo stesso Tronti alcuni anni fa – in un prezioso intervento che è anche un tassello fondamentale per ricostruire la storia intellettuale italiana della seconda metà del Novecento – ne ha ripercorso la genesi, chiarendo come lo «stile operaista» fosse al principio una sorta di strumento di battaglia politica. «Allora, anni Sessanta, ci parve di scorgere un ritorno di eventi e di soggetti di alto livello», e «quella sensazione di altezza del conflitto», ha scritto, «fu quanto bastò per innescare in noi quella passione per il ‘grande stile’ nietzschano’, che ci ha accompagnato poi, nel bene e nel male, in un lavoro di ricerca, tanto aperto quanto inquieto»[3]. Dalla scelta a favore di una «scrittura forte», adeguata al «pensiero forte», discendeva dunque «quello stile di espressione conflittuale: scandito, scolpito, battente, incessante, aggressivo e lucido», nel quale era facile riconoscere «il ritmo di battaglia degli ‘operai in lotta’, in fabbrica, contro il padrone diretto»[4].
Nel corso di mezzo secolo, lo stile di Tronti – al di là di alcuni elementi di continuità – ha subito però più di qualche modificazione. Mentre Operai e capitale pareva quasi un’opera di teoria marxista scritta in esametri classici, Tronti ha in seguito adottato uno stile talvolta ermetico, a tratti esoterico e persino aforistico, che in qualche modo rifletteva il clima della «fine» della Storia e della politica.
Mentre Leone sceglieva il piano-sequenza per rendere il clima emotivo, politico e artistico della grande battaglia del secolo, nelle pagine di Dello spirito libero Tronti, per scagliare il Novecento contro il presente, sceglie così la tecnica del montaggio. Citando Cristina Campo, Walter Benjamin e Thomas Mann, Tronti definisce infatti il suo libro non come un insieme di saggi, ma «un solo discorso in più tempi, come una serie di pezzi musicali dove tornano sempre gli stessi temi, e addirittura le stesse parole», come un lavoro la cui teoria «è interamente connessa a quella del montaggio», come un «romanzo di concetti» (DSL 10-11). E si tratta di una scelta consapevole.
«Fedeli alla giovanile scoperta che qualche volta la distanza più breve tra due punti è la linea curva», si legge all’inizio del volume, «procediamo per frammenti e aggiunte e accostamenti e rimandi, fino a che non si intravederà emergere dall’abisso dei riferimenti l’unum della figura di ciò che salva» (DSL 29). E verso la conclusione: «Non si può ormai pensare e scrivere che per frammenti, essendo esploso il mondo di ieri in mille pezzi, che nessuno attualmente è in grado di mettere insieme» (DSL 302). Se al lettore probabilmente non sempre risulta chiara, la logica della composizione con cui sono affiancate le migliaia di citazioni, di riferimenti, di immagini – assicura Tronti – risponde invece a un disegno complessivo e riflette opzioni stilistiche tutt’altro che casuali:
Il procedimento analogico è una scelta. Si tratta dell’applicazione del principio secondo cui i pensieri simili hanno proprietà e inducono comportamenti simili, così per i pensieri contrari. Una scelta è lo stile metaforico: un dire traslato, figurato, indiretto, accennato, allusivo. Si parla d’altro, si fanno parlare altri: in realtà sta ancora parlando l’autore, e delle sue cose. A volte è necessario uno scarto metonimico: cambiare nome, mutando posto a causa ed effetto e allora è questo che spiega quella (DSL 305).
Lo «scarto metonimico», di cui Tronti difende la necessità, così come la scelta della «bella maniera» per il pensiero politico – «Nel tempo della dittatura della comunicazione, la tattica della ricerca deve trovare per sé una tattica della parola. Per analogia, dunque anche, similitudo e pulchritudo. La bellezza della parola, di sempre, come la bruttezza delle cose, di oggi. Sottovalutare la cura di questo aspetto è un errore politico» (DSL 305) – rende però, inevitabilmente, complessa la comprensione (se non certo la lettura) di Dello spirito libero.
E Tronti ne è del tutto consapevole. «So che quasi per tutti risulta complicata. Troppi tasti, e bianchi e neri, sulla tastiera. Tra antica armonia e nuove dissonanze, ci vuole un funambolico interprete per tradurre il rumore in suoni» (DSL 303). E quasi come chiave per «decifrare il geroglifico», per penetrare nel linguaggio – «un linguaggio cifrato, da intendere più che da comprendere, precondizione indispensabile essendo appunto una certa intesa quasi segreta con l’autore, il suo oggi ma anche il suo ieri, una postazione dunque ma anche un percorso» – fornisce in esergo un verso pasoliniano: «Uno straccetto rosso come quello / Arrotolato al collo dei partigiani» (DSL 303). Un verso che evoca un intero mondo, irrimediabilmente perduto, ma che non cessa di costituire il riferimento costante per la riflessione di Tronti.
«Questo libro sono io», recita il titolo di uno dei capitoli di Dello spirito libero. E la formula flaubertiana, precisa Tronti, significa: «io sono qui, questa è la mia postazione» (DSL 303). Ma Tronti non è Madame Bovary, e i «frammenti di vita e di pensiero», a cui allude il sottotitolo del volume, non vanno perciò intesi letteralmente come l’annuncio di una sorta autobiografia, un genere cui Tronti non ha mai concesso molto. I «frammenti» sono infatti sempre frammenti di grande teoria politica o anche di grande letteratura, collocati secondo una sequenza analogica, e forse persino secondo un andamento circolare. Ma, se certo Dello spirito libero non può essere considerato un’autobiografia nel significato usualmente attribuito a questo termine, è probabile che la frase «questo libro sono io» debba essere presa davvero sul serio. E cioè che – come una sorta di Stardust Memories – le pagine di Dello spirito libero debbano essere lette come una sorta di autobiografia teorica di Tronti, e cioè che nei «frammenti di vita e di pensiero» si debba andare a ritrovare una riflessione retrospettiva, più che un racconto, sull’intera vicenda di un «politico pensante», in cui è probabilmente impossibile (oltre che insensato) scindere la politica dal pensiero. Dello spirito libero suggerisce così anche una rilettura attenta di quelle tappe che, nell’arco di quasi sessant’anni, hanno scandito l’itinerario teorico di Tronti, perché oggi forse si possono cogliere fino in fondo le linee di continuità, i salti, le innovazioni.
Negli ultimi anni il ruolo che Mario Tronti ha ricoperto nel panorama intellettuale italiano è stato ampiamente riconosciuto, e la sua riflessione ha iniziato a essere riletta da molte prospettive differenti[5]. Le tappe della sua ricerca non scandiscono d’altronde, come spesso avviene, solo l’evoluzione di un pensiero. In modo assai più significativo, le sequenze della riflessione trontiana hanno costituito a lungo – e costituiscono ancora oggi – il perno principale della teoria radicale italiana, il cuore della «differenza italiana» e forse anche di quella che oggi si tende a definire con la formula Italian Theory[6]. E i nomi delle esperienze cui diede vita e partecipò nel corso di più di mezzo secolo – dai «Quaderni rossi», a «Classe operaia», e da «Contropiano» a «Laboratorio politico» – rappresentano ben più che l’episodio di una esperienza personale, perché scandiscono il succedersi di diverse stagioni politico-culturali. Dello spirito libero costituisce ora per molti versi la conclusione di un lungo percorso. Gli appunti di lettura che seguono non pretendono certo di «decifrare il geroglifico», o di lanciarsi in un esercizio funambolico, capace di restituire il significato ‘autentico’ di Dello spirito libero. Più semplicemente, queste note si limitano a raccogliere e sviluppare alcune delle sollecitazioni che Tronti ci offre, nella persuasione che, comunque, a queste pagine – talvolta nitide, talvolta enigmatiche – dovremo tornare spesso nei prossimi anni.
Per la critica
Un po’ come Sergio Leone, anche Tronti ha coltivato a lungo un progetto che non ha mai visto la luce. Il titolo di quel libro doveva suonare – almeno in una certa fase – Per la critica della democrazia politica, e probabilmente molti dei testi scritti da Tronti fra gli anni Settanta e Ottanta, così come l’indagine sulle «regolarità della politica» e il confronto con i classici, possono essere considerati come un’approssimazione a quel lavoro. Naturalmente Dello spirito libero non è quell’«opera mancata»[7], che molti hanno atteso per anni, ma certo qualcosa di quel progetto – che già al principio degli anni Novanta veniva definito «antico» e «non realizzato» (CSF 165) – si può ritrovare nelle pagine del nuovo libro di Tronti, e in particolare in due capitoli del volume, intitolati rispettivamente Per la critica della democrazia politica. Tesi e Per la critica della democrazia politica. Einleitung (DSL 181-189, e 190-206). E forse proprio in quelle pagine può essere ritrovato uno dei nodi principali attorno ai quali è tessuto l’ordito di Dello spirito libero.
Sul finire degli anni Novanta, la prima delle Tesi su Benjamin, pubblicate al termine della Politica al tramonto, recitava: «Il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo. Il movimento operaio è stato sconfitto dalla democrazia. Questo è l’enunciato del problema che il secolo ci mette davanti. Il fatto, die Sache selbst, che adesso dobbiamo pensare» (PAT 195). Dopo poco più di tre lustri, Dello spirito libero può essere considerato come l’articolazione di quella tesi. Nel nuovo volume vengono in gran parte accantonate alcune coppie di opposti attorno alle quali ruotava il discorso della Politica al tramonto, e fra queste in particolare la distinzione tra «grande Novecento» e «piccolo Novecento» (e per molti versi anche le dicotomie «economia»/«politica» e «storia/politica», che non cessano comunque di nutrire la prospettiva di Tronti)[8]. Ma la griglia di lettura del XX secolo rimane comunque la medesima. E l’obiettivo per cui il passato novecentesco viene mobilitato contro il presente post-novecentesco è dichiarato – per evitare qualsiasi possibile equivoco – già nell’incipit del volume:
Io devo capire! A questo fine della comprensione, tutti i mezzi, intellettuali, sono giustificati. Tutti i mezzi, gli strumenti, i passaggi, gli autori, gli altrui pensieri, anche quelli dell’avversario. Documentare, dimostrare, mostrare, alludere, far parlare, percorrere, pazientare prima di comprendere, legare in principio, sciogliere alla fine. Io devo capire. Questo è l’imperativo categorico: non etico, teorico. […] Capire che cosa? Non tanto come una grande storia possa finire. Anche le cose grandi finiscono. Ma come possa finire miserevolmente: passione e morte divise, l’una senza l’altra, l’una contro l’altra. Quale storia? Quella a cui appartengo. Piccola, insignificata e insignificante molecola di un organismo vivente, al limite, più che di un passato, di un trascorso (DSL 10).
Ed è qui che si colloca la tesi principale del volume, una tesi secondo cui il Novecento, con i suoi conflitti, porta a compimento non tanto la «Storia», quanto «il destino del Moderno»:
Il Novecento non sarà la casa di riposo per le anime belle. Torneranno, queste, dall’esilio, appena avuto sentore della fine anticipata del secolo, a seppellire in fretta con i loro piagnistei il cadavere della grande trasformazione. In realtà, il marxiano sogno di una cosa si è realizzato, tra il ’17 e il ’45. Non poteva durare. E aveva bisogno di durare. Di qui il tragico che lo ha investito, in varie forme, ancora tutte, appunto, da capire. Una luce si è accesa subito dopo nell’oltre Oriente, ma si è subito spenta. E poi c’è stato, a seguire, lo spegnersi, «progressivo», di ogni luce. I bagliori sinistri del tramonto dell’Occidente si sono mutati in una nebbia, o in una notte in cui tutte le idee sono grigie. Ci voleva un giapponese americano, un ibrido, exemplum di tutte le insipide ibridazioni del cosiddetto postmoderno, a ridecretare la fine della storia. Il tentativo di riaprirla, la storia, per scaraventargli contro la politica, era fallito. Non si concludeva il Moderno, esso piuttosto si inverava nella sua essenza ultima, tardo-borghese, con la sua economia degli ‘spiriti animali’ e la sua democrazia degli «ultimi uomini» (DSL 14).
Illustrando questa tesi generale, che costituisce una sorta di prologo al libro, Tronti chiarisce che il punto chiave del ragionamento sta nella relazione che il movimento operaio ha intrattenuto con il Moderno. «Il movimento operaio si presentava come il realizzatore storico del progetto originario del moderno», un progetto i cui obiettivi erano «l’assoluta padronanza del mondo da parte dell’uomo, e l’assoluta sovranità dell’uomo su se stesso» (DSL 19). Proprio la sconfitta del movimento operaio ha reso palese «il fallimento del progetto moderno» (DSL 19), e in questa sconfitta va ritrovato, retrospettivamente, anche l’errore principale di Marx, il quale, se «ha visto come nessun altro la terribile potenza del capitale», però, scrive Tronti, «non ha visto che il destino del Moderno si era ormai indissolubilmente identificato con la storia del capitale» (DSL 20).
La chiave di questo ragionamento – che potrebbe risultare forse indecifrabile agli occhi di qualche lettore, se non addirittura sconcertante per i cultori del ‘senso comune’ contemporaneo – va ritrovata probabilmente nelle tesi del capitolo intitolato Per la critica della democrazia politica, in cui Tronti si pone esplicitamente come obiettivo «un’opera di decostruzione dell’apparato ideologico che sorregge oggi la civilizzazione» (DSL 182). D’altronde, è il filosofo romano a chiarire che «per la critica della democrazia è il punto nevralgico, il nodo strategico, la decisiva questio, la considerazione inattuale, per ogni discorso, nel presente, sulla libertà: pietra d’inciampo, scandalo per i capitalisti, stoltezza per i socialisti» (DSL 42).
Ma per Tronti la democrazia non è certo l’ideale di uguaglianza che spesso nella storia occidentale si è associato al nome del potere del popolo. La democrazia politica verso cui si indirizza la sua critica è la democrazia «realizzata», la democrazia che si costruisce dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e dunque la democrazia americana che si estende all’intero Occidente.
Ma ciò su cui attira l’attenzione Tronti non è tanto il «sistema istituzionale», quanto la «società democratica», che eleva a protagonista l’homo democraticus, «sbarcato sul nostro continente insieme agli eserciti alleati, e sotto le loro bombe» (DSL 184). «La democrazia reale è riuscita là dove ha fallito il socialismo reale: ha creato l’uomo nuovo», un uomo nuovo che però è venuto a coincidere con la «figura dell’ultimo uomo» (DSL 185). Ed è infatti proprio l’homo democraticus che costituisce l’inveramento del Moderno nella sua ultima figura, in cui convergono il borghese, l’ultimo uomo e l’uomo-massa:
Il borghese-massa: ecco la figura egemonica che residua, nella tarda modernità, da secoli di capitalismo. Un senso comune intellettuale incarnato in forma di popolo. Una mentalità medio-borghese, espansa, diffusa, articolata, interiorizzata. Dominante, perché al tempo stesso individualizzata e massificata. Esattamente come la forma merce, quando passa dalla produzione al consumo. È la passione della merce, non quella della libertà, che domanda democrazia (DSL 186).
L’insistenza con cui Tronti – in Dello spirito libero, così come in molti altri interventi recenti – torna sulla dimensione antropologica può essere deficfrata, almeno nella sua componente critica, avendo presente la centralità che, nel destino del Novecento, gioca l’homo democraticus, l’uomo-massa, l’«uomo sociale medio», che diventa in democrazia l’«uomo politico medio»[9]. È infatti proprio l’homo democraticus, più che le istituzioni democratiche occidentali, il bersaglio del progetto di Per la critica della democrazia politica. In un passaggio chiave in cui si sofferma sulla «condizione antropologica del tempo», scrive per esempio che i protagonisti del presente sono «la massa e gli individui-massa che la compongono», individui «più manovrabili e manovrati nelle pluraliste istituzioni democratiche che nelle dittature di un solo Capo o nelle religioni di un solo Dio», «perché tutti decidono di pensare allo stesso modo» (DSL 51).
Ed è da questa prospettiva che può essere probabilmente compreso il discorso sul contemporaneo «totalitarismo democratico», una figura che riflette «l’aspetto totalizzante della democrazia politica», «l’integralismo della religione democratica», «la dogmatica dominante delle forme giuridiche e istituzionali vigenti» (DSL 206). Il discorso di Tronti si richiama alle famose pagine in cui Tocqueville profetizzava l’avvento di un nuovo dispotismo (DSL 196-200), oltre che ad alcuni passi di Hans Kelsen (DSL 201-205), e trova così nel nuovo «totalitarismo democratico» un sistema capace di soffocare – in modo certo ben differente dagli autoritarismi novecenteschi – le condizioni stesse della libertà:
Non vedo per la libertà umana magnifiche sorti e progressive. Su questo, lo scavalco del secolo e del millennio mi trova muto e solo preoccupato. Non temo il ritorno delle vecchie forme di oppressione. Le tragedie del Novecento sono passate per sempre. Inquietante è solo il ricordo. Ed essenziale è la memoria. I pericoli per la libertà non vengono dal passato. Vengono dal futuro, già in parte visibile nel presente. Non è il totalitarismo antidemocratico, ma il totalitarismo democratico a mettere in questione la natura, l’essenza, la forma, l’anima della libertà (DSL 191).
Se l’affermazione dell’homo democraticus e l’avvento del nuovo «totalitarismo democratico» sanciscono la fine del Novecento, Tronti riconosce il limite (teorico e politico) del movimento operaio – e dello stesso operaismo degli anni Sessanta – nell’incapacità di comprendere quale fosse la sfida che proveniva dalla società democratica. «Non si può essere più moderni del capitalismo. Questa pretesa è stata la vera utopia del socialismo come scienza» (DSL 27). «Sarebbe stato compito del movimento operaio», scrive Tronti alludendo alle tesi benjaminiane sul concetto di storia, «quello di imporre alla tarda modernità, con i mezzi che giustificano il fine, di non più correre ma camminare: trattenendo, rallentando, ritrovando il passo dell’uomo, sottomettendo il ritmo della macchina, non per la decrescita, ma per una concrescita, tra il fuori e il dentro, tra situazione ed esistenza, tra destino e libertà» (DSL 46). Ed è in questo senso che Tronti può interpretare le rivoluzioni novecentesche come un tentativo di conservare, come una reazione e un tentativo di resistere «all’invasione del Moderno da parte dei barbarici spiriti animali del capitalismo» (DSL 23). Mentre «le insorgenze, le insubordinazioni contestatrici non hanno capito che il nemico era la Zivilisation borghese, pronta, con i suoi potenti mezzi, a includere nei suoi meccanismi di sistema tutte le risorse simboliche che esse avevano messo in moto» (DSL 23).
Nell’articolazione della tesi secondo cui è proprio la democrazia ad aver sconfitto il movimento operaio, grazie all’egemonia dell’homo democraticus, i lettori più affezionati di Tronti – e soprattutto chi ne conosce gli scritti dell’ultimo quindicennio – ritrovano motivi ben conosciuti. Nelle pagine di Con le spalle al futuro, al principio degli anni Novanta del secolo scorso, Tronti scriveva per esempio che «quello che c’è di naturalmente borghese nel mondo sociale dell’uomo moderno ha vinto, sull’onda della vittoria del mercato mondiale», e non mancava anche di segnalare – in verità in modo ancora piuttosto cauto – che «la democrazia ‘minima’ sembra […] essere l’orizzonte politico entro il quale si iscrive la fine del moderno» (CSF 55, 57).
Alcuni anni più tardi, nella Politica al tramonto, avrebbe esplicitato e radicalizzato la tesi, scrivendo che, nella seconda metà del Novecento, aveva vinto «l’uomo-massa democratico», «una figura storicamente inedita, nata nel cuore americano dell’Occidente, come l’europeo Tocqueville aveva con preoccupazione intravisto in un suo viaggio», chiarendo anche che proprio «la centralità, anzi la religione, di questa forma dell’individuo medio» doveva essere riconosciuta all’origine di «un macroscopico processo di decadenza della politica» (PAT 133). In un testo importante di qualche anno dopo, nel quale veniva accennato lo schema di una necessaria «critica della democrazia politica», tornava a scrivere, chiarendo ancora una volta il nesso cruciale tra egemonia dell’«uomo-massa democratico» e spoliticizzazione:
Alcuni anni più tardi, nella Politica al tramonto, avrebbe esplicitato e radicalizzato la tesi, scrivendo che, nella seconda metà del Novecento, aveva vinto «l’uomo-massa democratico», «una figura storicamente inedita, nata nel cuore americano dell’Occidente, come l’europeo Tocqueville aveva con preoccupazione intravisto in un suo viaggio», chiarendo anche che proprio «la centralità, anzi la religione, di questa forma dell’individuo medio» doveva essere riconosciuta all’origine di «un macroscopico processo di decadenza della politica» (PAT 133). In un testo importante di qualche anno dopo, nel quale veniva accennato lo schema di una necessaria «critica della democrazia politica», tornava a scrivere, chiarendo ancora una volta il nesso cruciale tra egemonia dell’«uomo-massa democratico» e spoliticizzazione:
Dopo il tramonto delle gloriose giornate della lotta di classe, non ha vinto né il grande borghese – quello à la Rathenau che ci piaceva tanto quando eravamo giovani – né il piccolo borghese che abbiamo sempre odiato. Ha vinto il borghese medio: questa è la figura della democrazia. La democrazia è questo: non è la tirannia della maggioranza, è la tirannia dell’uomo medio. È questo uomo medio che fa massa dentro la categoria nietzschana degli ultimi uomini[10].
Se dunque l’insistenza sulla centralità dell’homo democraticus torna a esplicitare il cardine del progetto di «critica della democrazia politica» coltivato da Tronti da molto tempo, il lettore non può però non riconoscere nelle pagine di Dello spirito libero anche qualche motivo nuovo, o quantomeno la traccia di un discorso che fino a questo momento era rimasta per molti versi occultata. Certo non si può dire che da ogni riga di Dello spirito libero non trasudi costantemente un pessimismo radicale, quel pessimismo che ha spinto Tronti a definirsi in più occasioni come uno «sconfitto» della storia[11], e che ancora oggi lo induce a definire il nostro tempo come «un tempo che non merita pensiero» (DSL 17). Sotto la coltre di cupo pessimismo trapela però la flebile traccia di una speranza, che certo non assume mai le vesti di un progetto politico ma resta collocata solo sul piano della ricerca teorica. Nella «disperazione teorica» della Politica al tramonto non sembrava di intravedere margini sostanziali per una riconquista della «grande Politica», irrimediabilmente sconfitta con la fine del Weltbürgerkrieg[12].
Se dunque l’insistenza sulla centralità dell’homo democraticus torna a esplicitare il cardine del progetto di «critica della democrazia politica» coltivato da Tronti da molto tempo, il lettore non può però non riconoscere nelle pagine di Dello spirito libero anche qualche motivo nuovo, o quantomeno la traccia di un discorso che fino a questo momento era rimasta per molti versi occultata. Certo non si può dire che da ogni riga di Dello spirito libero non trasudi costantemente un pessimismo radicale, quel pessimismo che ha spinto Tronti a definirsi in più occasioni come uno «sconfitto» della storia[11], e che ancora oggi lo induce a definire il nostro tempo come «un tempo che non merita pensiero» (DSL 17). Sotto la coltre di cupo pessimismo trapela però la flebile traccia di una speranza, che certo non assume mai le vesti di un progetto politico ma resta collocata solo sul piano della ricerca teorica. Nella «disperazione teorica» della Politica al tramonto non sembrava di intravedere margini sostanziali per una riconquista della «grande Politica», irrimediabilmente sconfitta con la fine del Weltbürgerkrieg[12].
Nel nuovo libro Tronti inizia invece ad articolare un discorso che – pur senza imboccare scorciatoie – punta a guardare ‘oltre’ la «disperazione teorica». Alcuni anni fa, in una conversazione con Pasquale Serra, Tronti indicava l’obiettivo della sua ricerca più recente – una ricerca in cui sempre si trovavano affiancati il «pensare estremo» e l’«agire accorto» – nel guadagnare la «libertà dalla congiuntura», ossia nel «conquistare, conservare, raffinare, l’autonomia del proprio punto di vista»[13]. Oggi Dello spirito libero riprende proprio l’esigenza di costruire «una proposta di sintesi» e di giungere a «un passaggio di discontinuità» (DSL 29). Simili obiettivi ripropongono la questione cruciale di «fare in modo che la contingenza nemica diventi una contingenza amica» (DSL 29), ed è soprattutto a questo proposito che Tronti sembra accantonare l’ormai quasi proverbiale pessimismo per riconoscere quantomeno la ‘pensabilità’ – più che la concreta praticabilità – di una riarticolazione della critica allo «stato delle cose presente» (DSL 28)[14]. Ed è in questa prospettiva che deve essere probabilmente compresa la centralità assegnata allo «spirito libero».
Libertà e Destino
Il 6 dicembre 2001, in occasione della sua uscita dall’insegnamento, Tronti tenne nell’Aula Magna all’Università degli Studi di Siena una Lectio magistralis dal titolo Politica e Destino. Nella lezione, il cui testo fu pubblicato alcuni anni dopo, l’intellettuale romano – anche se certo non veniva meno alla sua consueta diffidenza per l’autobiografismo – rifletteva sul proprio percorso teorico, e soprattutto esplicitava una volta di più come la sua intera ricerca dovesse essere intesa come un esercizio sempre politico. «La mia condizione non è quella del pensatore politico», si leggeva infatti nel testo, ma «quella del politico pensante» (PED 17). Tronti però chiariva, o quantomeno suggeriva, anche il significato dell’accostamento tra politica e destino, un accostamento che poteva forse risultare enigmatico agli ascoltatori. Politica e destino non doveva essere inteso infatti nel senso di «politica come destino», ossia come l’idea secondo cui la politica costituisce una «chiamata», una «vocazione originaria». Il destino che Tronti affiancava alla politica non era infatti fatum, ma Schicksal in senso hegeliano: o meglio Schicksal nel significato che gli attribuiva il giovane Hegel nel frammento Freiheit und Schicksal, un frammento risalente al 1799-1800, talvolta anche indicato dall’incipit come Der immer sich vergrössernde Widerspruch. «Politica e destino», notava Tronti esplicitando un passaggio altrimenti oscuro, «qui diventano la stessa cosa che libertà e destino», e proprio da qui derivava allora «la declinazione della politica come libertà dalla storia, che pure dalla storia è condizionata, determinata, necessitata, ma che non si rimette e non si arrende a questa determinatezza e condizionatezza» (PED 12-13).
In quel frammento, scritto dal giovane Hegel come abbozzo di introduzione al lavoro sulla Costituzione tedesca, la «contraddizione sempre crescente» cui Hegel era la contraddizione fra «l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria»[15]. Ed era in questo quadro che il futuro autore della Fenomenologia dello Spirito evocava la figura del destino, ossia proprio la figura collocata da Tronti al cuore della sua riflessione. «Lo stato dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore», scriveva Hegel, «può essere o soltanto una morte perpetua, se egli in esso si vuol mantenere, o se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un anelito [Bestreben] a superare il negativo del mondo sussistente per potersi trovare e godere in esso, per poter vivere»[16]. «La sua sofferenza [sein Leiden]», continuava, «è legata con la coscienza dei limiti, a causa dei quali egli disprezza la vita così come essa gli sarebbe permessa»; «egli vuole il proprio soffrire, mentre invece il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino» – e qui la precisazione è cruciale per decifrare il discorso di Tronti – «è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti [die Schranken], solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria, come invincibili e prende le proprie determinatezze come assolute, e anche ad esse, anche perfino se esse ledono i suoi impulsi, sacrifica sé e gli altri»[17].
Il riferimento al frammento hegeliano – che forse solo parzialmente doveva consentire agli ascoltatori di Tronti di «decifrare il geroglifico» della sua riflessione – non introduceva un tassello effettivamente nuovo nel mosaico composto nel corso degli anni dal teorico romano. Tronti lo aveva già affrontato in Hegel politico, uno dei suoi lavori forse meno compresi, e di cui probabilmente solo oggi si riesce a cogliere pienamente il senso. Nel 1975, quando il libro su Hegel fu pubblicato, era d’altronde quasi scontato che il testo dovesse apparire quasi sconcertante, soprattutto per quanti avevano trovato nelle pagine di Operai e capitale una rottura netta con la tradizione storicista e idealista del marxismo italiano. Dopo le ipotesi ancora interlocutorie della conferenza torinese Sull’autonomia del politico, un testo che sarebbe peraltro stato pubblicato solo diversi anni dopo (vincendo le resistenze dell’autore), Hegel politico era forse il primo tassello di quel progetto – «la premessa metodologica di un Per la critica della politica, tanto matura ormai quanto ancora lontana»[18] – che Tronti iniziò a intraprendere all’inizio degli anni Settanta. E in questo senso, a interessare Tronti non era certo l’Hegel della maturità, e neppure quello della Fenomenologia, bensì il giovane Hegel, perché proprio dai primi scritti pareva emergere come il giovane studioso coltivasse interessi politici e ambizioni d’azione concreta, e come la filosofia e la costruzione del «sistema» fossero una sorta di ripiego, l’esito di un fallimento politico.
Era dunque nel quadro di questa «biografia politica» che Tronti si imbatteva in Freiheit und Schicksal, un frammento che era letto insieme alla famosa lettera in cui Hegel nel novembre 1800 scriveva a Schelling, ricostruendo il suo itinerario, che «l’ideale degli anni giovanili» si era mutato, «in forma riflessiva, in un sistema».
In particolare, il frammento e l’accostamento tra libertà e destino erano intesi da Tronti come un riferimento alla realtà tedesca del tempo, quella realtà che nel celebre incipit, induceva Hegel a scrivere che la Germania non era più uno Stato. In Freiheit und Schicksal, «Hegel parla di sé, poi parla della sua epoca, poi della Germania», notava infatti Tronti. «Tutto questo forma veramente un Intero, dove ogni parte separata dalle altre è sofferenza, è il contrario di libertà, cioè è destino»[19]. Il contrasto fra libertà e destino avrebbe trovato una soluzione solo più tardi, nel passaggio a Jena, in un’operazione che per Tronti testimoniava negli anni Settanta «una rivoluzione nel modo di pensare lo Stato»[20]. Ed era in questa scoperta del «politico», come elemento distinto rispetto allo Stato e contrapposto al «destino», che andava individuata la chiave per sottrarre il giovane Hegel al pensiero conservatore:
Il punto in cui la vita di Hegel cerca, tenta di rapportarsi al suo tempo e al suo paese nella connessione di un Intero è un punto di svolta nella storia moderna del concetto di Stato: qui veramente nasce il «politico», come elemento completamente nuovo. La paternità di questa nascita non è indifferente: lotta contro il destino che si presenta come Stato. […] Nello «Stato come destino» scocca la scintilla di una del tutto nuova intuizione politica: il punto di partenza per il cammino del «politico» non è negli individui, ma nello Stato stesso[21].
Quarant’anni dopo, nelle pagine di Dello spirito libero, Tronti torna ancora una volta su quel frammento hegeliano, di cui fornisce una lettura almeno in parte diversa, ma che costituisce però un tassello fondamentale per l’articolazione del discorso sulla libertà (contrapposta alla «democrazia politica»). Per questa nuova interpretazione di Freiheit und Schicksal Tronti ricorre soprattutto alla mediazione offerta da Cesare Luporini, che aveva già tradotto il frammento hegeliano nel 1945 su «Società»[22]. Il riferimento alla condizione «dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore» può essere oggi considerato da Tronti come uno specchio in cui ritrovare la condizione contemporanea. Ma è soprattutto sull’idea di colui che è «senza riflessione sul proprio destino» che si concentra Tronti: essere «senza riflessione sul proprio destino» significa infatti «essere senza coscienza, e senza volontà – che è la stessa cosa –, o il non avere ancora raggiunto né l’una né l’altra, o averla perduta», una condizione che dunque «porta a onorare il negativo, a considerare i limiti come invincibili» (DSL 35).
L’errore che compie dunque chi è «senza riflessione sul proprio destino», nella lettura attualizzante proposta oggi da Tronti, è allora quello di «scambiare la contingenza della sua attuale condizione con una determinatezza assoluta della sua vita, fino a sacrificarvi se stesso e gli altri, persino negli impulsi che quella medesima condizione sottopone a sofferenza» (DSL 35). E a proposito di un passo ancora di Freiheit und Schicksal in cui Hegel evoca l’«entusiasmo di uno legato» – un entusiasmo che «è un momento per lui stesso, nel quale egli si perde, ritrovando la propria coscienza solo nelle determinatezze dimenticate, non divenute morte»[23] – il discorso torna alla critica del presente, perché l’individuo «legato» non è altro che l’«uomo-massa democratico»[24]. Ed è in corrispondenza di questo passaggio che si esplicita il collegamento fra la riflessione sul conflitto tra libertà e destino e l’esigenza della critica della democrazia politica:
Se non smascheriamo la finzione di libertà dal destino che c’è nella figura presente, antropologicamente determinata, dell’homo oeconomicus + homo democraticus, non avremo mai visione esatta della condizione politica contemporanea. E senza questa esattezza di visione, nessun progetto di grande trasformazione può essere realisticamente ricaricato di entusiasmo dello spirito libero. […] Abbiamo […] a che fare con un apparato di apparenze, individualizzato e totalizzante, quale nessun regime di convivenza umana, né politicamente totalitario né religiosamente teocratico, ha mai messo in campo. E la novità – tardo-moderna – è proprio questa inedita, volontaria identificazione nei confronti delle determinatezze non divenute morte, viventi, anzi scattanti sempre in avanti, e mutanti, ibridanti, che fanno la gioia dei postmoderni, e che in realtà nient’altro sono che il non luogo in cui ci si perde, abissale moderno pauroso esperito, vissuto sarebbe dire troppo, come sovrana affermazione di sé (DSL 41-42).
Nell’obiettivo di smascherare «la finzione di libertà dal destino» perseguito oggi da Tronti qualcuno potrebbe forse ravvisare una nuova replica della vecchia polemica sull’insufficienza delle libertà «formali» rispetto alle libertà «sostanziali», quella stessa polemica che per esempio spinse Galvano della Volpe – forse il solo marxista italiano che (insieme all’allievo Lucio Colletti) davvero influenzò il giovane Tronti negli anni Cinquanta, nel momento in cui si delinearono le premesse della «rivoluzione copernicana» operaista – a criticare l’impostazione liberale con cui Norberto Bobbio affrontava l’idea della «dittatura del proletariato», e che lo indusse anche a ritrovare un nesso robusto e una sostanziale continuità tra Rousseau e Marx[25]. Nell’importanza che oggi Tronti assegna al frammento hegeliano qualcuno potrebbe anche trovare la definitiva conferma dell’idea secondo cui la vera matrice del «trontismo» e di tutto l’«operaismo» fosse da rinvenire, fin dalle origini, in un’impostazione idealista, se non addirittura in una variante dell’attualismo gentiliano[26].
E infine nel progetto di «critica della democrazia» altri lettori potrebbero persino ravvisare, quasi a conferma delle sinistre influenze che fin dai primi passi indirizzarono tutto il percorso del filosofo romano, la scomoda eredità di Ugo Spirito e della sua tarda Critica della democrazia, e cioè di un pensiero venato non solo di idealismo, ma anche di un organicismo dai toni inconfondibilmente irrazionalistici e anti-democratici[27]. Ma ognuna di queste letture – al di là di ciò che concerne la complessiva interpretazione della ricerca trontiana – si troverebbe a fraintendere anche i contorni di un avvicinamento a Hegel che rimane comunque lontano dalle traiettorie del marxismo storicista italiano tanto criticato da Tronti negli anni giovanili.
Il «compito politico» che Dello spirito libero indica come necessario, dinanzi alla «condizione antropologica tragica» del presente, è quello «di sottrarre l’idea di libertà all’orizzonte borghese, lasciando al capitalismo la sua democrazia» (DSL 54). Ma con questo Tronti non intende riferirsi al fatto che le libertà politiche ed economiche sono insufficienti. «La libertà economica è libertà reale», scrive per esempio, e «la libertà politica lo è altrettanto» (DSL 42).
L’ambizione di «sottrarre l’idea di libertà all’orizzonte borghese» equivale piuttosto – se questa lettura è corretta – al progetto di superare una condizione in cui la libertà è intesa semplicemente come la libertà dell’individuo di operare all’interno del quadro definito dallo «stato delle cose presente», dal «destino», dai rapporti di forza, dalla contingenza. E per questo la libertà di cui Dello spirito libero argomenta la necessità è una libertà che non si esaurisca nella conservazione delle condizioni politiche, sociali, giuridiche esistenti, ma è piuttosto finalizzata a un superamento del presente. In termini brutali – e forzando non poco il ragionamento – Tronti si ripropone dunque di ricollocare la democrazia ‘nella’ storia, sottraendola al quadro definito dalla «fine della Storia». Il suo Per la critica della democrazia politica può così essere letto come un tentativo di criticare quell’ideologia della «democrazia reale» che, mentre celebra la libertà come il perno dell’ordine sociale, di fatto ne circoscrive i limiti, chiudendo l’orizzonte del possibile dentro la conservazione del presente e dei suoi assetti.
E devono pertanto essere lette in questa chiave frasi come quelle in cui Tronti scrive: «Il pericolo immane sta nella folla di chi crede di essere libero e non lo è» (DSL 56). Ma, soprattutto, è probabilmente in questa chiave – una chiave volta cioè a ricollocare la democrazia ‘dentro’ la storia, dentro conflitti capaci di mettere in questione gli assetti della «contingenza», dentro una «politica» capace di muovere contro il «destino» – che deve essere letta la proposta di rovesciare la logica dell’incipit rousseauiano del Contratto sociale:
L’uomo nasce in catene in questa società e va liberato in essa e da essa. La libertà non è quella che ci è data, ma quella autonomamente scelta; non è quella iscritta nelle leggi, ma quella maturata nella coscienza; il «non credere di avere dei diritti» è la premessa del genuino essere libero; la libertà di pensiero è un falso senza un vero pensiero della libertà. Le istituzioni giuridiche che garantiscono le libertà vanno tutte messe in valore, ma l’apparato ideologico democratico-progressista dei diritti umani che giustifica la libertà va tutto messo sotto critica. Le libertà hanno un valore di strumento, diciamo pure qui da noi raggiunto, la libertà ha un valore di scopo, di là da venire (DSL 56).
Considerato in questa luce il progetto di un Per la critica della democrazia politica sembra mostrare ben più di qualche parentela con quella «rivoluzione copernicana» che Tronti delineava in Operai e capitale. In effetti l’operazione di critica che il filosofo romano si propone appare sempre – almeno ‘teoricamente’ – incardinata su una soggettività parziale, su uno specifico «punto di vista». «Ci vuole un punto di vista, da cui guardare il mondo, e la vita», «ci vuole una parte di mondo e di vita a cui ascrivere il proprio pensiero», ha scritto ancora di recente (CP 15). E, d’altro canto, in origine il progetto trontiano doveva proprio procedere in questa direzione. «La ricostruzione del soggetto diventa il punto determinante nella formulazione del progetto della ricerca», si leggeva infatti in Con le spalle al futuro, e, anche se il disegno veniva consegnato solo al livello del pensiero, nell’argomentazione si riconosceva ben più di qualche traccia della vecchia stagione: «Il punto di vista conquista una importanza strategica. Senza sguardo unilaterale nessuna comprensione del tutto» (CSF 167).
A quasi un quarto di secolo di distanza, la prospettiva che torna oggi nel «puzzle» di Dello spirito libero è per molti versi la medesima, anche se alcuni accenti sono in parte (o sensibilmente) mutati. In special modo, c’è un’insistenza sulla «coscienza» che, se forse era già ravvisabile in Con le spalle al futuro, era certo assente nel ‘giovane Tronti’. A proposito della critica del «senso comune di massa» – quel senso comune che circoscrive lo spazio della libertà entro il perimetro del destino – Tronti scrive per esempio che «il sovvertimento va lucidamente introdotto nel punto opaco della resistenza a un modo veramente libero di pensare, che è il punto dei rapporti reali, sociali e politici, quanto il punto dei livelli di coscienza, o di incoscienza, da essi prodotti» (DSL 56)[28]. Ma un simile riferimento alla «coscienza» non va probabilmente – o necessariamente – compreso nei termini del giovane Lukács.
La «coscienza» cui allude Tronti non sembra infatti riducibile a quella conoscenza non reificata della totalità sociale che, secondo Storia e coscienza di classe, solo la classe operaia poteva conquistare. Certo Tronti, tornando in alcune pagine preziose a Marx, scrive che, davvero, «ridare autonomia alla soggettività dentro la condizione totalizzante del feticismo è un attualissimo discorso di libertà» (DSL 127), e proprio in questo senso richiama il giovane Lukács degli anni Venti, definito «fondamentale» (DSL 138). Consegnando inoltre ai lettori uno di quei passaggi stilisticamente inconfondibili in cui si trova tutto il suo mondo, scrive anche:
Sapere, capire, il dorso del feticcio, il sotto della cosa, il rovescio del tavolo: questo adesso è forse più importante che sapere, capire, l’entità, la qualità del soggetto. La prima operazione è comunque preliminare, la seconda è conseguente. Tra il rovescio delle cose e il loro rovesciamento, c’è la chiave di una porta di passaggio che si è perduta. La stiamo cercando, ancora (DSL 148).
Se tra il Tronti di oggi e il giovane autore di Operai e capitale c’è senza dubbio ben più di qualche differenza, probabilmente non è in questi passi – e in particolare nell’affermazione secondo cui «sapere, capire, il dorso del feticcio» è «più importante che sapere, capire, l’entità, la qualità del soggetto» – che si deve ravvisare una rottura rispetto al Tronti della «rivoluzione copernicana», o anche rispetto all’intero operaismo, che per molti versi percorse una strada opposta rispetto a quella indicata da Lukács in Storia e coscienza di classe. Senza dubbio Tronti riconosce che anche al cuore del suo discorso sta l’idea che il «feticcio-merce» con tutte le sue conseguenze – «reificazione del soggetto e personificazione della cosa, perdita del proprio da noi e dominio della proprietà su di noi» – è «centrale per cogliere la ‘situazione’ dell’esistenza umana contemporanea» (DSL 137). Ma la «coscienza» di cui parla Tronti non è probabilmente, come per Lukács, una conoscenza in grado di giungere alla conoscenza dell’«Intero», e non può cioè essere intesa in termini ‘hegelo-marxisti’, come lo ‘svelamento’ di una realtà mistificata. La coscienza cui allude Tronti sembra infatti sempre – come era negli anni Sessanta la «scienza operaia» – una conoscenza di parte. Se al cuore della «rivoluzione copernicana» stava la rivendicazione del «punto di vista operaio», come punto di vista parziale con cui smantellare l’apparente coerenza della totalità sociale, anche oggi Tronti non sembra rinunciare alla parzialità, a una soggettività parziale, come strumento di demistificazione. Nonostante oggi – dinanzi al «destino» della contingenza – una simile soggettività possa solo essere pensata, costringendo così il «che fare» a vestire i panni di un «che pensare»[29].
Ed è per questo che il nesso tra le oscure formule del giovanile frammento hegeliano e la critica della democrazia politica – il nesso che per molti versi ‘tiene in forma’ tutto il discorso solo all’apparenza disomogeneo svolto in Dello spirito libero – può forse essere correttamente decifrato rileggendo un passo della lectio su Politica e destino. Un passo apparentemente autobiografico, ma che in realtà proietta sulla recente riflessione di Tronti una luce per molti versi chiarificatrice:
La vera dicotomia, il vero entweder/oder, alla fine, in politica, non è tra Schicksal e Begeisterung, tra corso della storia e destinazione dello spirito. È piuttosto esattamente tra chi ha e chi non ha riflessione sul proprio destino. «Proprio destino»: che cosa vuol dire? Qual è il mio proprio destino? Ecco la domanda originaria. Ed ecco l’abbozzo di una risposta non provvisoria. «Proprio destino», per me, è quello della mia parte, quello della parte cui appartengo, la sua determinatezza storica, la sua situazione nel mondo, e quindi il suo tempo-ora, con cui quotidianamente mi misuro, le sue ragioni che sono anche le mie, i suoi bisogni che sono anche i miei. Adsum, appunto. Io sto lì, quello io sono. E tuttavia – ecco la cosa difficile da capire – lì, in questa decisione di appartenenza, c’è uno straordinario esercizio di libertà. Libertà maggiore, rispetto a quelle libertà minori concesse dai sistemi politici illuminati. Perché trascende, è la parola giusta, il limite imposto da quella figura principe della modernità borghese, che è l’individuo così-detto sovrano ma così-fatto subalterno (PED 17).
Quando diceva che «proprio destino» è «quello della mia parte, quello della parte cui appartengo, la sua determinatezza storica, la sua situazione nel mondo, e quindi il suo tempo-ora, con cui quotidianamente mi misuro», Tronti non esplicitava semplicemente, per l’ennesima volta, un’appartenenza politica, o la centralità di un impegno militante costantemente conservato durante un’intera vita. La complessiva indagine intorno ai compiti del «spirito libero» – e dunque la riflessione sulla relazione fra politica e destino, l’equivalenza fra politica e libertà, l’insistenza sul frammento hegeliano, l’enfasi sull’essere «senza destino» – non può così essere compresa se non a partire dal riconoscimento che, nel discorso di Tronti, il presupposto è sempre l’assunzione della parzialità, la rivendicazione di appartenenza a una parte. Riconoscere il proprio destino, riflettere sul «proprio destino», per Tronti, è sempre l’assunzione delle condizioni storiche di una parte, un ‘noi’ collettivo, che non è mai, e non può essere, un «Intero» in senso hegeliano. Così – proprio perché Tronti non è un «pensatore politico», ma un «politico pensante» – il riconoscimento del «proprio destino», il riconoscimento «della mia parte», è il presupposto di ogni lavoro di riflessione. E l’unica porta attraverso la quale lo «spirito libero» può passare.
Flashback
Flashback
Nel corso degli anni sono diventate quasi proverbiali le formule che Tronti, nella Politica al tramonto, dedicava all’esperimento operaista. «Dentro gli anni sessanta ci siamo tutti felicemente sbagliati», si leggeva. «A noi, a molti, sembrò […] che un’epoca si aprisse. […] Il rosso all’orizzonte c’era: solo che non erano i bagliori dell’aurora, ma del crepuscolo» (PAT 22). Simili giudizi hanno rafforzato l’impressione in molti lettori che il percorso di Tronti sia segnato da alcune nette cesure: più in particolare, l’impressione è che, in un primo tempo, all’inizio degli anni Settanta, venga abbandonata l’impostazione operaista, e che dopo il cruciale snodo 1989/1991, definitivamente accantonata l’ipotesi dell’«autonomia del politico», Tronti imbocchi con decisione la direzione che conduce alla teologia politica (passando per più di qualche episodica incursione sul terreno dello spiritualità).
Senza dubbio in simili impressioni c’è più di qualche fondamento, anche perché le scansioni che si ritrovano nel pensiero di Tronti sono davvero queste. Probabilmente – e questa è la tesi di chi scrive – sarebbe però improprio interpretare queste scansioni nei termini di vere e proprie cesure. Dinanzi un mondo completamente mutato, a rapporti di forza abissalmente differenti, il «politico pensante» Tronti certo non poteva non modificare strumenti e formule, ma il punto è che sarebbe scorretto interpretare tali mutamenti nei termini di rotture drastiche. Nella riflessione di Tronti si può infatti ritrovare anche una strabiliante coerenza: una coerenza qualche volta persino occultata dietro un certo ermetismo, ma riconoscibile con una lettura attenta. Questa coerenza non sta però tanto (o soltanto) nelle soluzioni, nelle risposte che vengono fornite di volta in volta, quanto soprattutto nell’assunzione dei problemi e nella rivendicazione della prospettiva. In questo quadro di enorme continuità, vengono infatti a collocarsi, di volta in volta, innovazioni e sperimentazioni, che non vanno però intese come nuove ipotesi che sostituiscono le vecchie, ‘falsificate’ dal confronto con la storia.
Al contrario, le vecchie ipotesi continuano a essere comprese nel quadro interpretativo, vengono cioè conservate come presupposti dell’analisi, anche se sono accantonate perché giudicate ‘non sufficienti’ dinanzi alla nuova congiuntura. E questo riguarda paradossalmente persino l’«operaismo», le cui coordinate rimangono probabilmente anche alla base della riflessione successiva di Tronti[30].
A dispetto della differenza dei toni, non è d’altronde impossibile trovare più di qualche elemento in comune tra la ricerca odierna di Tronti e le più lontane pagine giovanili. A ben guardare, infatti, quando Tronti oggi trova il tratto dominante del presente nell’egemonia dell’homo democraticus, nella vittoria dell’«ultimo-uomo», nella centralità dell’«uomo-massa democratico», colloca al cuore del discorso un aspetto tutt’altro che residuale, e forse persino ‘fondativo’, persino negli scritti degli anni Sessanta e Settanta. È probabilmente una forzatura leggere in termini di fedele continuità l’odierna avversione per l’«uomo-massa democratico» e alcuni passi del giovane Tronti, come quello in cui, verso la fine del Piano del capitale, nel 1963, scriveva: «Lo spontaneismo appartiene sempre e solo alle ‘masse’ in senso generico, mai agli operai della grande fabbrica» (OC
Ma probabilmente una continuità tra ieri e oggi esiste davvero, quantomeno sul piano dei presupposti (non sempre esplicitati) dell’operazione che orientava la «rivoluzione copernicana» degli anni Sessanta[31]. Fin dal momento in cui Tronti delineò il progetto di ridefinire la prospettiva marxista rompendo con la tradizione storicista italiana, il suo tentativo – almeno nella lettura di chi scrive – consisteva infatti nell’utilizzare Il Capitale per criticare il neo-capitalismo e i suoi miti, oltre che naturalmente la trasformazione del marxismo in «un’ideologia populista, un arsenale di banali luoghi comuni per la giustificazione di tutti i possibili compromessi nel corso della lotta di classe» (OC 34). In qualche misura, si può ritenere che Tronti non si limitasse a ritenere infondate le rappresentazioni, diffuse nella sociologia americana del tempo e fra i cultori della Scuola di Francoforte, che iniziavano a dar forma all’immagine di una società di consumatori passivi, soggiogati dalla seduzione dei mezzi di comunicazione e dallo spettacolo delle merci.
Piuttosto, Tronti – pur scorgendo la formidabile presa della società dei consumi – trovò l’argine alla Vermassung non al livello dell’ideologia, ma, sulla scorta di Marx, dentro il laboratorio della produzione. E seguendo le tracce del percorso indicato dal Capitale si trovò a incrociare quei giovani militanti che, raccoltisi a Torino attorno a Ranziero Panzieri, andavano scoprendo le prime tracce di quello che in seguito sarebbe stato definito l’«operaio massa», ossia uno strato di lavoratori tutt’altro che passivo o integrato all’interno della «società a una dimensione».
Soprattutto negli ultimi anni molti interessanti contributi hanno ricostruito, da differenti prospettive, la genesi dei «Quaderni rossi», l’utilizzo (innovativo, ma non privo di problemi) della sociologia, la nascita della «conricerca» come metodo anche politico, le lacerazioni fra Panzieri e Tronti, la formazione di «classe operaia» e la graduale definizione del concetto di «composizione di classe»[32]. Un serio confronto con la riflessione di Tronti non può non partire dalla ricostruzione di questo dibattito e delle diverse posizioni. Ma in questa sede è forse opportuno soffermarsi su alcuni passaggi importanti, che in qualche misura possono contribuire a chiarire quanto la riflessione di Tronti sia in realtà segnata da un robusto filo di continuità, almeno rispetto ad alcune questioni. Da questo punto di vista, probabilmente, non era fortuito che, quando introduceva gli Scritti inediti di economia politica di Marx per gli Editori Riuniti, più o meno nello stesso periodo in cui preparava i saggi per i «Qr», Tronti scrivesse che «la civiltà dell’individuo liberale è proprio la premessa storica della civiltà democratica di massa», o che «l’ipotesi dell’individuo astratto non poteva che rovesciarsi nel culto della massa empirica indistinta»[33]. In quel passaggio, in cui già profilava la nuova lettura di Marx articolata in Operai e capitale, Tronti ribadiva la validità del Capitale come chiave per giungere a una critica della società neocapitalistica, perché, dopo un secolo, la «natura del capitalismo» era rimasta immutata. In questo contesto, l’«alienazione» riportata all’attenzione del dibattito dalle ricerche sociologiche non era una novità, ma semplicemente l’effetto dell’estensione al campo della produzione intellettuale del meccanismo che «l’operaio moderno […] ha sperimentato sulla sua produzione materiale da quando esiste il capitale e insieme al capitale la classe dei capitalisti»[34].
Ma forse il punto nevralgico consisteva proprio nella sostanziale omogeneità intravista fin da allora tra «la civiltà dell’individuo liberale» e la «civiltà democratica di massa», e dunque fra l’«individuo astratto» celebrato dal liberalismo settecentesco e il successivo «culto della massa empirica indistinta». In altre parole, già per il giovane Tronti degli anni Sessanta «la civiltà democratica di massa» coincideva per molti versi con il regno della «massa empirica indistinta», proprio come oggi in Dello spirito libero la vittoria della «democrazia politica» coincide con la vittoria storica dell’homo democraticus, dell’«uomo-massa democratico». La differenza tra ieri e oggi, dunque, non va cercata sotto questo profilo, perché la «società borghese», ossia la dimensione in cui si muovono gli individui come consumatori, coincide fin dagli anni Sessanta per Tronti con la sfera in cui domina la «massa empirica indistinta». La distanza fra il Tronti di Operai e capitale e l’autore di Dello spirito libero va invece rinvenuta nel tipo di forza cui viene consegnato il compito di ‘frenare’ l’impetuoso avanzare della «civiltà democratica di massa»[35]
Quale fosse la ‘forza frenante’ cui pensava il giovane Tronti è quasi superfluo ricordarlo. Ma anche in questo caso può essere utile rileggere alcuni celebri passi di La fabbrica e la società, il primo saggio di Tronti apparso sui «Qr», e forse anche quello in cui si possono trovare in nuce tanto l’operaismo successivo quanto il post-operaismo che giunge sino ai nostri giorni. «Quando tutta la società viene ridotta a fabbrica, la fabbrica – in quanto tale – sembra sparire», scriveva Tronti (OC 52). Nonostante la terziarizzazione, nonostante l’apparente scomparsa della fabbrica, era invece indispensabile per Tronti tornare a contrapporre quelle due dimensioni. E proprio seguendo questo sentiero, Tronti avrebbe continuato a rappresentare il rapporto tra fabbrica e società come un rapporto sostanzialmente contraddittorio: la fabbrica veniva cioè a identificare il momento della cooperazione produttiva all’interno del processo lavorativo, mentre la società veniva a coincidere con la sede dello scambio di merci, in cui il processo di valorizzazione poteva ogni volta chiudere il proprio ciclo.
‘Vedere’ la fabbrica nella società equivaleva dunque a riconoscere – anche nel neo-capitalismo, anche nella società in cui all’apparenza trionfava la «massa empirica indistinta» – la classe operaia come soggetto conflittuale, capace di rompere l’apparentemente infrangibile nesso di produzione-riproduzione-scambio-consumo. La coppia fabbrica vs. società palesava le due facce della produzione capitalistica: da un lato, il processo di produzione; dall’altro, il processo di valorizzazione. E si trattava di due momenti che era indispensabile vedere, dal «punto di vista operaio», come contrapposti l’uno all’altro, perché solo nella fabbrica la classe operaia poteva conquistare quella forza che era invece destinata a perdere nella società, nella sfera dello scambio e del consumo. Solo dentro il processo produzione la cooperazione rendeva possibile l’aggregazione dell’antagonismo operaio e l’utilizzo del salario come terreno di scontro. All’opposto, nel processo di valorizzazione – o, meglio, fuori dalla fabbrica, nella società, nella sfera dello scambio e del consumo di merci – i lavoratori dovevano tornare a essere semplici individui, atomi isolati, inermi consumatori del tutto privi di strumenti di lotta.
E proprio nella misura in cui la società coincideva solo con la sede della mediazione mercantile, era indispensabile (politicamente) incardinare il conflitto all’interno della fabbrica, ossia – come scriveva Tronti con una delle frasi tanto famose dei suoi testi giovanili – «piantare la lotta generale contro il sistema sociale dentro il rapporto sociale di produzione, mettere in crisi la società borghese dall’interno della produzione capitalistica» (OC 55).
Sviluppando questa lettura del giovane Tronti – una lettura che naturalmente è tutta rivolta a interpretare la centralità assegnata oggi da Dello spirito libero all’homo democraticus – forse, con qualche forzatura (ma probabilmente senza distorcere il testo), si potrebbe anche tradurre la vecchia contrapposizione tra fabbrica e società nella contrapposizione (vecchia e nuova) tra classe e massa. Era infatti solo passando dalla fabbrica, e cioè solo attraversando i cancelli dell’officina, che l’«uomo-massa» – l’atomo altrimenti perduto nella «folla solitaria» delle metropoli del consumo – poteva dare muscoli e sangue alla classe operaia.
E per molti versi era col grimaldello di quella formidabile intuizione teorica e politica che in Operai e capitale Tronti poteva ritrovare alla base dell’operazione marxiana la scoperta del Doppelcharakter della forza lavoro. Per Tronti, il «doppio carattere» della forza lavoro diventava infatti la chiave per aprire l’arcano della trasformazione da forza lavoro a classe operaia (o, se si vuole, da «massa» di individui a «classe»). Erano cioè solo la socializzazione e l’oggettivazione della forza lavoro che potevano consentire il passaggio dalla passività al conflitto, perché esclusivamente l’integrazione rendeva possibile alla classe operaia al tempo stesso di essere ‘parte’ del capitale e di mostrare la propria estraneità, mediante il rifiuto a essere passivo fattore di produzione.
L’intuizione di assumere il «punto di vista operaio» come chiave di lettura strategica doveva condurre Tronti a proporre quell’inversione teorica che caratterizza la «rivoluzione copernicana» di Operai e capitale. Alla base di questa operazione stava naturalmente una consapevole ‘forzatura’ politica dei testi marxiani, anche perché si trattava di far emergere un Marx ‘soggettivista’ tra le righe del Marx ‘oggettivista’ del Capitale e del marxismo ortodosso. Ma in questa forzatura – che si giocava in gran parte proprio nell’opposizione tra fabbrica e società – si nascondevano delle implicazioni che avrebbero avuto un peso enorme per gli esiti teorici dell’operaismo. Avendo posto il processo di valorizzazione e il processo lavorativo non solo come distinti ma, dal «punto di vista operaio», come contraddittori, Tronti doveva in qualche modo assumere che anche il processo di estensione della fabbrica alla società non potesse mai giungere a conclusione. Dal momento che la fabbrica e la società coincidevano in sostanza con due differenti modalità di sintesi sociale – la prima basata sulla cooperazione produttiva interna alla fabbrica, la seconda basata sullo scambio mercantile – si sarebbe potuta immaginare una soluzione del contrasto solo in seguito alla soppressione di uno dei due poli, ossia a seguito della senescenza del modo di produzione basato sullo scambio, oppure per effetto del completo scioglimento della fabbrica nella società. Ma si trattava di ipotesi che Tronti non prendeva in considerazione, e che anzi scartava esplicitamente a proposito della socializzazione della fabbrica. Tanto che in un passo famoso di Operai e capitale scriveva che, benché il processo di socializzazione conducesse tendenzialmente il rapporto di produzione a coincidere con il rapporto sociale, non sarebbe mai venuto meno «uno scarto […] tra il capitale come rapporto di produzione e il capitale come società capitalistica» (OC 206). In altre parole, anche nel caso in cui l’integrazione si fosse realizzata completamente, tra i due momenti sarebbe rimasta sempre una contraddizione sostanziale. «Anche quando fabbrica e società avranno raggiunto un perfetto grado di reciproca integrazione a livello economico, continueranno pur sempre politicamente a contrapporsi», aveva scritto, e proprio sulla scorta di questo schema prevedeva che «uno dei punti più alti e maturi della lotta di classe» sarebbe consistito nello «scontro frontale tra la fabbrica come classe operaia e la società come capitale» (OC 235).
L’idea della contrapposizione tra fabbrica e società – per molti versi davvero un’intuizione cruciale per l’operaismo – iniziò paradossalmente a mostrare le proprie dimensioni problematiche nel momento in cui la contrapposizione parve plasticamente prendere forma nelle lotte operaie della fine degli anni Sessanta, e cioè nel momento in cui davvero il salario divenne chiaramente uno strumento di lotta ‘dentro’ lo sviluppo capitalistico.
Ma proprio l’altezza della pressione raggiunta con l’«Autunno caldo» del ’69 iniziò a mettere in discussione, più che la dicotomia di fabbrica e società, il modo con cui era stato rappresentato il loro conflitto. Fino a quel momento Tronti non aveva infatti considerato l’ipotesi che il conflitto di classe all’interno della fabbrica potesse raggiungere un livello tanto elevato da porre in crisi il funzionamento della società capitalistica. In altri termini, Tronti fino ad allora sembrava assumere come presupposto del proprio discorso l’idea che la società – ossia i meccanismi istituzionali esterni alla fabbrica, ma anche la dinamica della società dei consumi – avrebbe continuato a funzionare secondo la propria logica, anche nel caso in cui la classe operaia avesse raggiunto un potere elevatissimo all’interno dei luoghi della produzione. Il conflitto di classe era cioè inteso come ‘motore’ dello sviluppo capitalistico, ma conflitto e sviluppo venivano sempre visti come poli di una relazione conflittuale irresolubile (proprio come era irresolubile il conflitto fabbrica/società, e forse persino quello classe/massa). Era invece proprio il livello raggiunto dalle rivendicazioni in fabbrica – contestualmente all’esplosione di conflitti radicali anche ‘oltre’ i cancelli della fabbrica, nella società – a mettere in crisi quello schema. Ma, a ben vedere, i diversi esiti dell’operaismo continuarono a operare in gran parte dentro le coordinate individuate da Tronti negli anni Sessanta, pur proponendone differenti modificazioni.
Una soluzione all’‘enigma’ posto dal rapporto tra fabbrica e società poteva consistere innanzitutto nell’eliminazione di uno dei due poli, ossia nell’eliminazione della società. Dal momento che l’opposizione tra fabbrica e società era stata presentata da Tronti in fondo come un contrasto che racchiudeva la lotta operaia solo dentro i confini della fabbrica, una soluzione poteva giungere – detto in termini brutali – dalla ‘soppressione’ della società, ossia dalla soppressione logica della sintesi sociale fondata sullo scambio mercantile, e dunque dalla completa ‘socializzazione’ della fabbrica. In questo modo, raggiunto il più elevato livello dell’integrazione, fabbrica e società potevano finalmente cessare di contrapporsi: la fabbrica infatti si sarebbe estesa alla società intera, e così non sarebbe rimasta più alcuna distinzione tra l’una e l’altra. Una conseguenza di questa soluzione consisteva nel riconoscimento che la classe operaia tendesse ormai a coincidere pienamente con l’intero fronte del lavoro (salariato e non salariato), e che dunque tutto il lavoro tendesse a diventare ‘produttivo’.
E fu proprio questa strada che Negri, a partire dai primi anni Settanta, iniziò a imboccare, raccogliendo le suggestioni del celebre Frammento sulle macchine, apparso già sul quarto numero dei «Qr»[36]. E da un certo punto di vista – anche se il discorso è ovviamente più complesso – si possono considerare come conseguenze della necessità di ‘dissolvere’ logicamente la società l’introduzione di una serie di passaggi che, da quel momento, sarebbero quasi costantemente tornati nella riflessione post-operaista, ossia l’idea della ‘fine della società civile’, l’idea dell’esaurimento della legge del valore, la convinzione che la vita si trasformi interamente in lavoro.
Naturalmente non era questa l’unica opzione possibile. Un’altra strada consisteva infatti nel rimettere in discussione lo stesso schema centrato sui due poli della fabbrica e della società, non per negarne qualsiasi valenza esplicativa, ma per affiancarlo a una prospettiva capace di comprendere come le dimensioni esterne alla fabbrica non fossero sempre riconducibili solo alla società, e cioè soltanto alla semplice dimensione dello scambio mercantile. In altre parole, si trattava di allargare lo sguardo, riconoscendo come gli ambiti della riproduzione sociale esterni al processo lavorativo potessero diventare sedi di conflitto, nella misura in cui al loro interno era in gioco la riproduzione di forza lavoro in forma di merce, nonostante non si fosse di fronte a forza lavoro salariata (e nonostante il conflitto non fosse dunque sul salario). In altre parole, questa soluzione non implicava il ricorso all’idea di una piena estensione della fabbrica a livello sociale, ma suggeriva piuttosto un’analisi capace di scoprire le dinamiche con cui, all’esterno della produzione in senso stretto (ma in un ambito che non era quello dello scambio di merci), si producevano i ‘presupposti’ stessi del modo di produzione capitalistico, e cioè una forza lavoro disponibile a vendersi sul mercato: perché – ed era questa l’innovazione principale – anche in questo ambito potevano maturare conflitti, spesso ‘microfisici’, capaci di andare a influire sulla definizione del lavoro socialmente necessario. E, per molti versi, era proprio lungo questa direzione che si sarebbero mossi negli anni Settanta sia il lavoro storiografico di «Primo maggio» e di Sergio Bologna, sia la lettura ‘femminista’ dell’operaismo sviluppata per esempio da Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici e Leopoldina Fortunati, sia – non senza contraddizione con l’ipotesi della ‘socializzazione’ della fabbrica – lo stesso Negri, con la sua teoria dell’«autovalorizzazione»[37].
L’adozione di queste due soluzioni – che in termini semplificati procedevano, per un verso, a riconoscere la trasformazione dell’intera società in fabbrica, per l’altro, a ritrovare il conflitto capitale-lavoro anche nella società (e dunque fuori dalla relazione salariale in senso stretto, ma anche all’esterno del processo lavorativo) – può essere considerata come un momento di snodo cruciale nella storia dell’operaismo. È infatti in corrispondenza di questo passaggio – da situare più o meno all’inizio degli anni Settanta – che si può forse collocare la cesura tra l’operaismo in senso proprio e il post-operaismo, le cui vicende giungono fino ai nostri giorni. Tronti non adottò nessuna di queste due soluzioni. Anche se in alcuni passi di La fabbrica e la società, nel 1962, aveva prefigurato proprio l’idea di una piena estensione della fabbrica alla società, in seguito abbandonò, anche esplicitamente, questa opzione.
Nel Poscritto di problemi pubblicato nel 1971 come appendice alla seconda edizione di Operai e capitale, escluse infine senza esitazioni l’idea di rinunciare alla centralità politica degli operai di fabbrica e a una definizione «oggettiva» di classe operaia. «Il problema è certo quello di trovare nuove definizioni della classe operaia, ma senza abbandonare il terreno dell’analisi oggettiva, senza ricadere in trappole ideologiche», scriveva allora, e proprio per questo ai suoi occhi «ampliare i confini sociologici della classe operaia per includervi tutti coloro che lottano contro il capitale dal suo interno, fino a raggiungere la maggioranza quantitativa della forza-lavoro sociale, e addirittura della popolazione attiva» era un grave errore teorico, oltre che «una grave concessione alle tradizioni democratiche» (OC 310). Tronti avrebbe per questo cercato un’altra chiave per risolvere l’‘enigma’. Per molti versi avrebbe così continuato a conservare l’idea della strutturale contrapposizione tra fabbrica e società. Ma accanto – o, meglio, fra queste due dimensioni – avrebbe iniziato a intravedere un terreno almeno relativamente (e potenzialmente) ‘autonomo’, il terreno del «politico». E proprio quella convinzione avrebbe da allora indotto Tronti a rivolgersi verso una nuova dimensione, e ad articolare quel progetto di «critica della politica», e della «democrazia politica», che conduce fino alle pagine recenti di Dello spirito libero.
Il ‘politico’
A molti anni di distanza, è per noi oggi sin troppo facile riconoscere i limiti – non solo ideologici – dell’ipotesi dell’«autonomia del politico», e dunque di una serie di valutazioni, tattiche e strategiche, rapidamente smentite dal corso degli eventi. Proprio mentre giungevano i primi, preliminari risultati della ricerca sul «politico» avviata da Tronti negli anni Settanta, cominciava infatti quel processo che Rita Di Leo ha definito in un suo libro recente come Il ritorno delle élites, un processo che ha sancito per molti versi proprio l’affermazione dell’«autonomia dell’economia»[38]. Sul finire del secolo, nella Politica al tramonto, lo stesso Tronti ha d’altronde calato – non senza malinconia – il sipario sulla stagione dell’«autonomia del politico»: «La nostra assunzione dell’autonomia del politico», scriveva allora, «ha avuto su di sé la ‘sfortuna’ machiavelliana», perché «la sua assunzione teorica ha coinciso con la sua inapplicabilità pratica» (PAT 71). Ma, se la «sfortuna machiavelliana» può forse indurre a consegnare quell’ipotesi tra gli scaffali più o meno polverosi del pensiero radicale, chi legge Dello spirito libero non può non riconoscere nella riflessione condotta oggi da Tronti sul ‘politico’ proprio uno sviluppo di quella ricerca: uno sviluppo in cui gli evidenti elementi di discontinuità sono probabilmente, più che l’esito di un’autocritica teorica, il frutto della necessità di confrontarsi col proprio «destino» che Tronti assume come compito non solo intellettuale.
Negli anni Settanta l’ipotesi dell’«autonomia del politico» divenne l’oggetto di una infuocata discussione teorico-politica, non certo immune da ben più di qualche forzatura polemica, nella quale soprattutto gli intellettuali vicini alla sinistra extra-parlamentare puntarono a mostrare la stretta parentela tra l’idea trontiana dell’«autonomia del politico» e la strategia berlingueriana del «compromesso storico». Alcuni critici inoltre intravidero il presupposto dell’approdo dell’autore di Operai e capitale all’autonomia del politico nel mancato confronto con l’eredità ingombrante della concezione leninista dell’organizzazione, mentre altri videro nello sviluppo della ricerca di Tronti niente altro che la conferma dell’impronta «idealistica» e «gentiliana» che già sarebbe stata ravvisabile nella «rivoluzione copernicana» degli anni Sessanta[39]. Benché nella messe di quel dibattito non mancassero certo anche osservazioni acute, la forzatura polemica di molti passaggi non consentiva però di cogliere per quali motivi Tronti si rivolgesse al ‘politico’, e, soprattutto, a cosa corrispondesse il ‘politico’. Per molti versi, la nuova fase di ricerca avviata da Tronti scaturiva infatti dalla necessità di trovare una differente soluzione al rompicapo della relazione tra fabbrica e società. Dal momento che il quadro ereditato dagli anni Sessanta era contrassegnato dalla contrapposizione (in fondo irresolubile) tra fabbrica e società, e dal momento che aveva rifiutato la via della ‘socializzazione’ della fabbrica, Tronti doveva cercare un’area potenzialmente ‘neutrale’, nella quale si potessero decidere le sorti del contrasto. Il tentativo di definire la politica come «autonoma» nasceva dunque anche dall’esigenza di trovare uno sbocco a questa contrapposizione, perché era dinanzi alla contrapposizione tra due forze uguali che emergeva, come possibile terreno di risoluzione del conflitto, proprio il livello ‘politico’. Ed è forse solo tenendo presente questa domanda che è possibile cogliere, al di là dell’autonomia che gli era attribuita, in cosa allora consistesse davvero il ‘politico’ per Tronti.
A partire dagli anni Settanta – in particolare, da quando è stato reintrodotto nel dibattito il celebre Begriff des Politischen di Carl Schmitt – non solo in Italia è diventato familiare riferirsi al ‘politico’ come a quell’ambito, spesso sfuggente, in cui è possibile trovare il ‘cuore’ stesso della politicità, se non la sua ‘essenza’. Da allora, è anche diventato quasi scontato associare il ‘politico’ sia al cosiddetto criterio della distinzione tra amicus e hostis, sia alla capacità di decidere sullo «stato di eccezione», che distinguerebbe in modo specifico il potere sovrano e che sarebbe in fondo in gioco in ogni conflitto davvero ‘politico’[40]. Anche Tronti avrebbe instaurato con la riflessione di Schmitt un lungo confronto, destinato a raggiungere per molti versi il culmine negli anni Ottanta e Novanta. A dispetto di un rapporto tanto stretto (e tanto sottolineato in anni recenti), sarebbe però probabilmente scorretto intendere in senso schmittiano il «politico» di cui Tronti argomentava l’autonomia negli anni Settanta. Presumibilmente – anche se si tratta solo di un’ipotesi – Schmitt entrò nell’orizzonte teorico di Tronti solo attorno alla metà degli anni Settanta. E comunque solo a partire da quel momento l’intellettuale comunista incominciò a riflettere sui tanti aspetti su cui attirava l’attenzione la riflessione del giurista di Plettenberg[41]. La formulazione esplicita delle prime ipotesi sull’«autonomia del politico» risaliva invece alla fine del 1972, e cioè a un famoso seminario tenuto da Tronti all’Università di Torino (AP). E nel discorso svolto in quel seminario, l’espressione «autonomia del politico» era adottata in un significato ancora piuttosto differente da quello schmittiano.
Senza dubbio, la formula «autonomia del politico» – che peraltro era mutuata dal gruppo di giovani ricercatori che avevano invitato Tronti al seminario torinese (AP 50) – evocava l’autonomia dei criteri operativi dell’uomo politico dalla morale e dalla religione, ma si trattava però di un aspetto che a Tronti interessava solo in modo marginale. Come sembrava suggerire un accostamento tra Lenin e il Max Weber di Politik als Beruf istituito nel Poscritto di problemi del 1971, a Tronti premeva sottolineare la necessità dell’autonomia del partito (e dunque del ceto politico di partito) dalla classe, e dunque dai suoi concreti movimenti conflittuali[42]. Inoltre, nella scelta di quella formula si poteva scorgere una sensibilità nei confronti del mancato riconoscimento dell’«autonomia della politica» spesso rimproverato al marxismo[43]. Ma, forse, nell’espressione «autonomia del politico» si poteva anche ritrovare l’eco delle posizioni di Althusser, che fin da Per Marx aveva individuato una specifica istanza politica all’interno della totalità sociale[44], e che dalla fine degli anni Sessanta aveva incominciato a interrogarsi più specificamente – come alcuni suoi allievi, tra cui in particolare Nicos Poulantzas – sull’autonomia (relativa) non solo dello Stato, ma anche di quella ‘regione’ della totalità sociale identificabile come la dimensione del ‘politico’[45]. E benché Tronti fosse molto lontano dall’accogliere questo schema, era però molto probabile che avesse ben presente la discussione e i termini con cui era condotta. D’altronde, era proprio la potenziale autonomia mostrata dai livelli istituzionali nei momenti di crisi a interessare Tronti.
Come emergeva già nella relazione torinese, il ‘politico’ per Tronti non veniva a coincidere semplicemente con lo Stato, perché comprendeva sia «il livello oggettivo delle istituzioni di potere», sia «il ceto politico, cioè l’attività soggettiva del fare politica», e dunque – detto in termini ancora più chiari – identificava complessivamente «lo stato più la classe politica» (AP 10). Definito il ‘politico’ in questi termini, il problema di Tronti era di capire quali rapporti esso intrattenesse con lo sviluppo capitalistico. E la sua ipotesi era, a questo proposito, che in determinate fasi storiche, il terreno delle istituzioni politiche non registrasse fedelmente i mutamenti che avvenivano nell’ambito economico, e che dunque le trasformazioni che contrassegnavano lo sviluppo capitalistico potessero talvolta trovarsi ‘sfasate’ rispetto al ‘politico’, costretto a ‘inseguire’. Il «ritardo del politico» non era infatti da imputare all’insufficiente sviluppo economico, bensì soprattutto alla natura peculiare delle istituzioni politiche. «Qualche volta», diceva Tronti, «si tratta di un ritardo in sé», e cioè di «un ritardo di adeguamento della macchina statale che ha le sue ragioni, le sue cause, nel funzionamento stesso di questa macchina», tanto che si poteva parlare addirittura di «un’insufficienza di capitalismo, e, più precisamente, di grande capitalismo, nello stato moderno» (AP 10-11). La scoperta del «ritardo del politico» suggeriva però a Tronti l’idea che si dovessero rileggere alcuni passaggi della storia del capitalismo, per riconoscere, accanto alla continuità dello sviluppo economico, le rotture politiche, intese come rotture della rigidità delle strutture istituzionali e del ceto dei governanti, come «discontinuità politica» e «salto politico» (AP 11). Ma soprattutto suggeriva anche l’idea secondo cui, a fronte di un ciclo economico del capitale, si sarebbe dovuto parlare di un vero e proprio «ciclo politico del capitale», un ciclo legato alla tradizione, alla cultura, all’esperienza consolidata nel ceto politico al potere e alla rigidità delle strutture istituzionali ed amministrative di governo.
Il modello da cui le considerazioni di Tronti prendevano le mosse era naturalmente il New Deal di Roosevelt, perché proprio in quel periodo si era delineata chiaramente quell’autonomia del terreno politico che aveva consentito allo Stato di intervenire sul terreno economico. Ma anche l’Italia degli anni Settanta sembrava presentare condizioni simili. E per questo Tronti indicava allora come compito indispensabile andare alla ricerca delle «leggi di movimento dello stato moderno» (AP 16).
Verso la fine degli anni Settanta Lapo Berti, allora membro della redazione di «Primo maggio» e tra i più originali esponenti della «scuola della composizione di classe», notava, pur solo incidentalmente, come nell’itinerario di Tronti si potessero rinvenire le tracce di una sostanziale coerenza nel passaggio dalla riflessione operaista a quella successiva sull’«autonomia del politico». E contro tutte quelle interpretazioni che ravvisavano una rottura brusca e irrimediabile tra l’impostazione proposta dalla «rivoluzione copernicana» e la fase successiva, Berti suggeriva di andare a riscoprire le radici della svolta degli anni Settanta in alcuni passaggi di Operai e capitale, che al momento erano passati inosservati. «Avendo voglia e tempo di dedicarsi all’archeologia ideologica della sinistra», osservava infatti Berti, «si potrebbe ben più solidamente argomentare la continuità e la coerenza della riflessione trontiana lungo tutto il percorso che dall’affermazione della priorità storica e politica dei movimenti della classe operaia rispetto al capitale giunge a riconsiderare la sfera della ‘politica’ e il problema dello Stato»[46].
Nonostante fossero indirizzate da un non celato intento polemico, le annotazioni di Berti coglievano senz’altro un dato reale. Anche negli scritti trontiani degli anni Sessanta non erano infatti mancati motivi – certo solo accennati – che preludevano alla ricerca sull’«autonomia del politico». In primo luogo, Tronti, anche nei primi anni Sessanta, era sempre stato distante da quella sorta di ‘spontaneismo’ luxemburghiano che invece contrassegnava l’impostazione di Panzieri e di molti dei giovani raccolti attorno ai «Quaderni rossi», e questa differenza era emersa chiaramente dagli editoriali di «classe operaia», in cui il «partito» tendeva a riconquistare una propria autonomia. In Lenin in Inghilterra, il celebre editoriale con cui si apriva il primo numero del giornale, nel 1964, Tronti – seppur solo genericamente – osservava per esempio come una nuova organizzazione dovesse registrare le novità emerse nelle forme del conflitto operaio, ma non mancava di notare anche come il lavoro articolato a livello di fabbrica, «per funzionare sul terreno del rapporto sociale di fabbrica», avesse bisogno di «essere continuamente giudicato e mediato da un livello politico che lo generalizzi» (OC 93-94). E qualche mese più tardi, in Classe e partito, quel riferimento al «livello politico» avrebbe mostrato un profilo più netto, perché in questo caso la mediazione svolta dall’organizzazione assumeva un profilo ‘neo-leninista’, nel senso che solo grazie a «un intervento soggettivo, cosciente, dall’alto» diventava possibile «non solo prevedere e anticipare i momenti di svolta nel ciclo di sviluppo del capitale, ma anche misurare, controllare, gestire e quindi organizzare la crescita politica della classe operaia» (OC 112)
In questa prospettiva, Tronti tendeva dunque a declinare il concetto di «composizione di classe» – un concetto inizialmente delineato soprattutto dalle ricerche di Romano Alquati, e divenuto per molti versi il cardine teorico dell’operaismo e del post-operaismo – in una direzione che enfatizzava già la dimensione ‘politica’ rappresentata dal rapporto fra i lavoratori e le loro forme organizzative. Senza dubbio nei saggi di Operai e capitale, Tronti disegnava un quadro in cui l’«ideologia» della classe operaia, i suoi ‘valori’, la sua ‘coscienza politica’ apparivano collocati sostanzialmente in una posizione secondaria, perché il cuore del discorso era piuttosto occupato dalla «composizione in classe», cioè dal consolidamento delle pratiche conflittuali nella struttura soggettiva della forza lavoro[47]. La classe operaia sembrava così essere definita principalmente dal deposito storico di una serie di ‘comportamenti’, più o meno spontanei, cristallizzati nel corpo collettivo della forza lavoro, mentre appariva in fondo secondario il fatto che quei comportamenti potessero essere influenzati (o anche scoraggiati) da determinate ideologie politiche. Ma già a partire da quella fase, e dunque con qualche anno di anticipo rispetto all’esplicitazione delle ipotesi sull’«autonomia del politico», si poteva intravedere nell’impostazione di Tronti l’idea – poi sviluppata soprattutto da Massimo Cacciari e dal gruppo di ricercatori raccolti attorno alla rivista «Contropiano» – che una corretta interpretazione della «composizione di classe» non potesse escludere la relazione storica con partiti e sindacati, con il loro ceto politico e la loro ideologia[48]. E proprio l’enfasi su questa dimensione ‘politica’ aveva l’effetto di ridimensionare tanto il latente ‘determinismo tecnologico’ quanto l’enfasi ‘spontaneista’ senz’altro presenti in alcune delle prime formulazioni del concetto
In secondo luogo, accanto agli elementi che facevano trapelare l’idea che l’organizzazione fosse in qualche misura ‘autonoma’ dalla classe, negli scritti trontiani degli anni Sessanta si potevano già intravedere anche le labili tracce di una visione che assegnava al terreno istituzionale una potenziale autonomia dallo sviluppo capitalistico. In un passaggio di La fabbrica e la società, mentre rileggeva le pagine marxiane sulla regolazione della giornata lavorativa e sull’intervento risolutivo dello Stato, Tronti sottolineava infatti che in quel caso il conflitto di classe si era trasferito sul «terreno politico», «il terreno ideale su cui solo può svolgersi lo scontro generale di classe» (OC 47). Se in quel caso tutta la discussione era rivolta alle modificazioni della fabbrica, Tronti non mancava però di appuntare, un po’ cripticamente: «Non è detto che il terreno politico borghese debba vivere in eterno nel cielo della società capitalistica» (OC 47). E anche il significato di quell’accenno generico si sarebbe chiarito solo più tardi, al termine dell’esperienza operaista.
In una relazione a un seminario del 1967, che di fatto chiudeva l’esperienza di «classe operaia», Tronti indicava già sommariamente gli estremi di quella che – di lì a qualche anno – sarebbe diventata l’ipotesi dell’«autonomia del politico». Stilando un bilancio del percorso compiuto dai primi anni Sessanta, in quell’occasione enunciava infatti la necessità di introdurre nuove ipotesi, la principale delle quali riguardava la vocazione di «classe dominante» della classe operaia, e cioè la possibilità che la classe operaia esercitasse il proprio dominio «su tutta la società dall’interno del rapporto di produzione capitalistico»: una possibilità che conduceva «alla conquista del potere, al governo dello Stato, non nell’interesse della società, ma nel proprio particolare interesse»[49]. Il presupposto, anche in questo caso, era che il «terreno politico» fosse potenzialmente autonomo dallo sviluppo capitalistico, e che dunque potesse essere utilizzato da parte operaia ‘contro’ la società. E proprio in questa direzione si sarebbe mossa negli anni seguenti la riflessione di Tronti.
Nel Poscritto di problemi del 1971 il discorso di Tronti iniziava a svolgere – in modo in realtà ancora piuttosto problematico – l’idea di un utilizzo di tipo nuovo del «terreno politico». Innanzitutto, riferendosi a Lenin e alla sua teoria dell’organizzazione, utilizzava l’espressione «autonomia della politica», con la quale intendeva una logica che, come nel caso del leader bolscevico, «non partiva dalle lotte, non voleva partirci», ma «era fondata su un concetto di razionalità politica assolutamente autonoma da tutto, indipendente dallo stesso interesse di classe, comune semmai alle due classi» (OC 277). In questo primo senso, l’autonomia della politica sembrava essere ancora soltanto l’autonomia del partito dalla classe. E se questa dimensione, già affiorata sin dai tempi di «classe operaia», sarebbe sempre rimasta centrale, persino costitutiva, nel discorso di Tronti, non era tanto (o soltanto) a questo livello che si sarebbe rivolta la sua ricerca successiva. Il discorso sul ‘politico’ e la sua autonomia avrebbe coinvolto infatti soprattutto la dimensione statale e il suo rapporto con lo sviluppo capitalistico. E non è difficile ritrovare la premessa di questo nuovo interesse proprio nella consapevolezza dell’insufficienza dello schema centrato solo sui due poli della fabbrica e della società. La vittoria operaia secondo Tronti segnava la conclusione dell’epoca «classica» della lotta di classe, e per comprendere quali fossero gli scenari possibili spingeva lo sguardo al di là dell’Oceano, verso l’America degli anni Trenta, nella convinzione che la lotta operaia avesse raggiunto «il livello più alto dello sviluppo durante gli anni che vanno dal 1933 al 1947 negli Stati Uniti» (OC 282). Era dunque guardando al passato degli Usa che si potevano prevedere quali fossero, in Italia (e in Europa), le alternative in gioco. «I nostri anni sessanta in Italia, nel loro più limitato orizzonte quantitativo, sono l’adeguato riflesso, senza grandi ombre, di questo sole rosso che ci viene dall’occidente» (OC 310). E il caso americano dimostrava in special modo che il ‘blocco’ in fabbrica poteva rivelarsi insufficiente se, dalla parte opposta, il capitale continuava a conservare saldo il controllo sulla società, e se – ed era questo il rischio che Tronti soprattutto paventava – veniva lasciata al capitale l’arma della ristrutturazione, non solo in fabbrica ma sull’intero contesto sociale:
Il capitale, dopo una parziale sconfitta anche in seguito a una semplice battaglia contrattuale, è violentemente spinto a rifare i conti con se stesso, a rimettere in gioco appunto la qualità del suo sviluppo, a riproporre il problema del rapporto con l’avversario di classe non in forma diretta, ma mediata da un tipo di iniziativa generale che coinvolge riorganizzazione del processo produttivo e ristrutturazione del mercato, razionalizzazione in fabbrica e pianificazione nella società, e che chiama in suo aiuto tecnologia e politica, nuovi modi del consumo del lavoro, nuove forme nell’esercizio dell’autorità. È qui il vero grande pericolo di una possibile sconfitta operaia (OC 306).
L’insegnamento delle lotte americane degli anni Trenta, secondo Tronti, risiedeva proprio nel fatto che esse dimostravano l’importanza del livello politico per la gestione del conflitto sul lungo periodo. La classe operaia doveva riuscire per Tronti ad affiancare alla strategia del rifiuto – che pure continuava a rimanere la guida dell’azione nei luoghi di lavoro – una strategia di sviluppo alternativa a quella capitalistica. Un simile compito richiedeva una «new politics operaia», capace di essere all’altezza della «new economics del capitale» (OC 310)[50]. Ed era questa esigenza che richiedeva un aggiornamento teorico, ossia, come scriveva, «la ricerca, l’impostazione di nuove dimensioni non dell’economia politica […], ma di nuove dimensioni della politica», «una nuova scoperta dell’orizzonte politico che va fatta proprio dal punto di vista operaio»[51].
Nel 1970 l’allusione alla «nuova scoperta dell’orizzonte politico» doveva apparire ancora piuttosto criptica, e poteva essere intesa solo nella direzione di un aggiornamento della teoria dell’organizzazione finalizzata ad adeguare la fisionomia del Partito comunista – in cui ormai Tronti aveva fatto pienamente ritorno – al livello raggiunto dal conflitto operaio. In realtà, però, leggendo con attenzione alcuni passi del Poscritto di problemi, e soprattutto alcuni accenni alla «società complessa, stratificata, contraddittoria» del capitalismo avanzato, era possibile intravedere già la nuova sensibilità con cui Tronti iniziava a guardare ai livello istituzionale e allo Stato[52]. Qualche anno dopo in La politica al primo posto, un testo pubblicato solo più tardi nell’antologia Soggetti Crisi Potere, il discorso appariva infatti già più chiaro. Secondo Tronti, ci si trovava allora, al principio degli anni Settanta, dinanzi a un bivio, che poneva due alternative alla risposta capitalistica: per un verso poteva essere scelta «una politica di ammodernamento e sviluppo delle strutture di classe nell’organizzazione produttiva, saltando in avanti»; oppure, per l’altro, poteva essere adottata come opzione «una politica di ristagno e riflesso, di lungo stallo e di congelamento del rapporto di classe così com’è, spingendo all’indietro».
Un’alternativa, dunque, che poteva essere espressa anche in questi termini: «o sviluppo economico con un prezzo politico, o stabilizzazione politica con un prezzo economico»[53]. Diventava per questo cruciale proprio «il livello dello stato», e – ancora prima di porsi il problema del governo – diventava cruciale guadagnare una conoscenza adeguata dei meccanismi di funzionamento del terreno politico. Ed era effettivamente a questa dimensione che sarebbe stata rivolta la ricerca successiva sull’«autonomia del politico».
Finale di stagione
La figura del ‘politico’ che Tronti veniva a costruire negli anni Settanta appariva anche per questo articolata al proprio interno, e comunque non riducibile, per un verso, né al ‘politico’ schmittiano, né al semplice livello istituzionale e alla forma-Stato. Il ‘politico’ era inteso come un complesso di istanze di mediazione, che partivano dal livello più basso, per giungere poi al vertice della macchina statale. Quando, qualche anno dopo, Tronti rileggeva il giovane Hegel esaltando la sua scoperta del ‘politico’, mostrava proprio la non-coincidenza tra ‘politico’ e ‘statuale’, ma soprattutto sottolineava come nel ‘politico’ andasse riconosciuta quella concreta azione politica – che per il filosofo tedesco sarebbe rimasta sempre irraggiungibile – capace di rivoluzionare lo Stato tedesco. «Questa parte contro il tutto, questa parte che vorrebbe essere la totalità, ma che non può diventarlo», scriveva commentando le pagine in cui Hegel si avvicinava alla ‘crisi’ di Francoforte, «è appunto il politico, ‘das Politische’, la politica come natura storica dell’uomo moderno, post-rivoluzionario, che ha superato, negando e conquistando, non solo la Grecia, non solo il cristianesimo, ma le stesse rivoluzioni borghesi»[54]. E, nonostante i limiti, l’operazione di Hegel era corretta, perché riusciva a cogliere la ‘ricchezza’ del ‘politico’. «Dentro», scriveva, «c’è il terreno politico come tutto, come intero, come totalità, e in più, separato, non risolto, non conciliato, il momento dell’agire politico, la ricerca delle leggi per l’azione», ma, insieme a questo anche, «come dramma, come tragedia, come ‘destino’, un muoversi storico del soggetto politico, che è poi il problema […] di come il politico pratico può arrivare a una presa concreta sulle cose, sugli uomini e sui loro rapporti»[55].
Se il libro su Hegel era presentato da Tronti come una sorta di premessa metodologica al progettato Per la critica della politica, un mattone significativo doveva giungere anche da una serie di scritti degli anni successivi, tra cui quello probabilmente più ambizioso era Hobbes e Cromwell, il denso capitolo conclusivo di Stato e rivoluzione in Inghilterra[56].
La tesi centrale del discorso di Tronti era che nella transizione inglese l’intervento dello Stato avesse giocato un ruolo cruciale. La crisi del Seicento era così interpretata come il presupposto della genesi del capitalismo, perché il decollo del processo di accumulazione capitalistica aveva richiesto un precedente «passaggio politico» e «un rivolgimento nella forma dello Stato»[57]. In questo modo Tronti non si limitava a sottolineare il ruolo centrale giocato dallo Stato nell’«accumulazione primitiva», anche perché così avrebbe in fondo ripercorso il sentiero già indicato da Marx nel Capitale. Piuttosto, cercava di mostrare – con l’esplicito riferimento al caso inglese – come in alcuni casi storici fosse davvero emersa l’autonomia del terreno politico. In altri termini, secondo la sua ipotesi, nelle fasi critiche in cui l’egemonia sociale ed economica della classe dominante iniziava a perdere il proprio radicamento, ma in cui la nuova classe in ascesa non aveva ancora scalzato l’avversario, la sede istituzionale del potere restava potenzialmente vuota, e così solo la forza organizzata capace di occuparla avrebbe potuto stabilire il controllo sull’intera società.
Nell’Inghilterra del Seicento, dopo la dissoluzione degli antichi rapporti feudali era emerso infatti un nuovo potenziale ceto politico, radicato tra le forze agrarie ma cementato dall’iniziativa della gentry: era così proprio nella gentry che si doveva scoprire «un concetto politico, una nuova classe dirigente», «un partito, che trova uno spazio di movimento lasciato vuoto dalla vacanza di potere, e aggrega politicamente un blocco di forze sociali su un obiettivo pratico, la nuova forma dello Stato, e intorno a un’ideologia, il puritanesimo»[58]. In questo quadro, Hobbes e Cromwell apparivano a Tronti come i due lati, necessariamente connessi, della scoperta della politica ‘moderna’ compiuta durante la rivoluzione inglese: per un verso, il Leviatano hobbesiano definiva la nuova teoria dello Stato come «macchina», come apparato istituzionale e burocratico autonomo rispetto alla società; per l’altro, il New Model Army mostrava la scoperta del lato ‘soggettivo’ della politica moderna, e dunque della politica come organizzazione, come ceto politico, come partito capace di mediare e di imporre la decisione a livello sociale
Un ulteriore tassello del lavoro finalizzato all’annunciato Per la critica della politica fu la redazione di una ‘storia antologica’ delle dottrine politiche moderne, realizzata fra gli anni Settanta e Ottanta presso l’editore Feltrinelli[59]. Ma probabilmente molte delle domande e delle ipotesi cresciute negli anni Settanta dovevano confluire, proprio all’inizio del decennio seguente, mentre il clima generale mutava repentinamente, nelle pagine della rivista «Laboratorio politico», cui collaborarono intellettuali provenienti dall’operaismo e cultori delle scienze sociali. In Cercare, pensare, lavorare sul politico, l’editoriale di presentazione della rivista, Tronti chiariva che l’obiettivo era rispondere alla ‘crisi del marxismo’: «non come vittime designate che vedono comparire la propria funzione di nuovi soggetti di una grande trasformazione delle teorie, non come passivi gestori di una fase di riflusso del lavoro intellettuale fuori dalle pratiche della politica»; e dentro questa ‘crisi’, l’esigenza era la «costruzione consapevole di un pensiero politico transitorio», l’elaborazione di «una strumentazione di tecniche appunto teoriche in grado di produrre conoscenze entro un arco predeterminato di tempo storico»[60].
A dispetto della trasformazione che si andava profilando piuttosto chiaramente (e che in Italia aveva ormai costretto il Pci di Berlinguer in un sentiero privo di concrete prospettive di azione), anche in quella fase la lettura di Tronti non risultava modificata nei suoi punti nevralgici, nonostante il bilancio che stilava dovesse risultare fatalmente meno positivo rispetto ad alcuni anni prima. Ancora nel 1980, nel Tempo della politica, poteva così rilanciare l’idea dell’«autonomia del politico», questa volta in una chiave esplicitamente politica. Dinanzi all’estendersi a tappeto del conflitto sociale, ben al di fuori della fabbrica, Tronti sosteneva che fosse indispensabile che il partito – ovviamente il Pci – garantisse a livello istituzionale un rapporto tra la classe operaia di fabbrica e le nuove forze sociali. In altre parole, Tronti riconosceva come la stessa centralità operaia fosse entrata in crisi e non potesse più funzionare con le stesse modalità degli anni Sessanta. Ma il ‘blocco’ non comportava tanto il tramonto della centralità, quanto il suo spostamento verso il livello politico. Per mezzo di una catena di mediazioni successive, la centralità operaia poteva funzionare ormai solo «politicamente». «Per produrre governo non basta più il meccanismo ideologico di una macchina di dominio», scriveva, ma «occorre il riferimento a un punto di forza reale, a una potenza vera, capace di conquistare consenso, e questa non c’è più ormai da nessuna parte nel fronte capitalistico, c’è solo ormai nel corpo storico della classe operaia», e dunque, per superare l’«autonomia borghese della politica», era necessaria «la centralità dell’operaio di fabbrica che da sociale si fa politica»[61]
Solo pochi anni dopo le valutazioni di Tronti sarebbero mutate bruscamente, e il nuovo quadro avrebbe indotto il «politico pensante» a chiudere un’intera stagione. Già introducendo Con le spalle al futuro, al principio degli anni Novanta, non esitava a riconoscere dal decennio appena trascorso, culminato con la dissoluzione dell’Urss, la traiettoria di un clamoroso passaggio storico: «Il dato d’epoca, il nocciolo del bisogno di nuova sintesi, l’elemento che lega gli eventi e spiega gli esiti», scriveva allora, «è ‘in ultima istanza’ uno solo: si chiama il tramonto della classe operaia», l’«episodio conclusivo di quel tramonto dell’Occidente, che ha attraversato appunto il secolo e lo conclude adesso precipitando, non dunque con l’impennata di azioni volute ma con la decadenza di fatti ineluttabili» (CSF X). I «sofferti anni ottanta», si legge ora in Dello spirito libero, portavano «in grembo quell’esito annunciato, che sarà poi l’Ottantanove» (DSL 17). «Il movimento operaio organizzato era entrato nella sua grande crisi: crisi di soggetto e crisi di struttura, di potenza geopolitica e di forza produttiva, tutto insieme contemporaneamente», scrive Tronti, che si chiede anche: «Poteva essere, questo quasi crollo, fermato e ricacciato indietro? Non lo sappiamo. Sappiamo che una risposta di questo genere non è stata nemmeno tentata» (DSL 17-18). Per quanto si trattasse forse di un’arma fin da allora spuntata, o forse di un’idea maturata come la Nottola di Minerva quando ormai la sua stagione storica volgeva al tramonto, l’ipotesi dell’«autonomia del politico» nasceva comunque dalla convinzione che la risposta capitalistica alla crisi degli anni Settanta potesse in qualche modo ‘aggirare’ la fabbrica, investendo direttamente la società. Era proprio in quest’ottica che per Tronti la gestione politica della ristrutturazione diventava fondamentale. Ed era per questo che riteneva indispensabile tentare una risposta a quella trasformazione che invece, nell’arco di pochi anni, avrebbe rapidamente modificato la scena delle società occidentali.
Critica della politica
Oltre a segnare il capolinea storico dell’«autonomia del politico», gli anni Ottanta fissarono anche un momento di forte discontinuità nella ricerca trontiana sul ‘politico’. Le ipotesi degli anni Settanta erano nate da uno sviluppo logico – forse da una forzatura – di quelle stesse premesse da cui era scaturita la «rivoluzione copernicana». Ma, soprattutto, avevano rappresentato un tentativo di integrare, con nuove ipotesi, quello schema centrato sulla dicotomia tra fabbrica e società elaborato negli Sessanta e, per molti versi, storicamente realizzatosi nella fase compresa tra l’«Autunno caldo» e la sconfitta operaia di Mirafiori dell’ottobre 1980. Negli anni Settanta il ‘politico’ appariva in sostanza a Tronti come quel terreno articolato – in cui si sommavano il livello istituzionale e l’azione politica, lo Stato e il partito, l’apparato e il ceto politico – che, potenzialmente, poteva mostrarsi ‘autonomo’ rispetto al capitale e alla logica del suo sviluppo, e che dunque poteva essere utilizzato «da parte operaia». Come dimostravano l’Inghilterra del Seicento e il New Deal di Roosevelt, in determinate fasi storiche il ‘politico’ poteva mostrare la sua autonomia, e dunque diventare una macchina capace di controllare lo sviluppo capitalistico, indirizzandone le traiettorie. La premessa del ragionamento di Tronti era però che esistesse una sorta di equilibro tra fabbrica e società, e cioè la classe operaia potesse esercitare in fabbrica un potere reale: solo un simile presupposto – che davvero contrassegnava l’Italia degli anni Settanta – rendeva credibile, o quantomeno pensabile, un utilizzo operaio dell’autonomia del terreno politico. Una volta preso atto del venir meno di questo dato e di questi rapporti di forza reali, si dissolvevano anche le condizioni che – nel ragionamento di Tronti – potevano far emergere l’autonomia del livello politico nei confronti dello sviluppo capitalistico. Questo non significava però che Tronti recepisse davvero la tesi di quanti – anche nello stesso gruppo di «Laboratorio politico» – salutavano (anche con un certo entusiasmo) l’avvento della società «postindustriale», o l’irrompere di una società complessa, irriducibile a ogni centralità. Di fatto, quando Tronti riconosceva allora il «tramonto della classe operaia», probabilmente (leggendo tra le pieghe del suo discorso) non intendeva infatti sostenere che la classe operaia si fosse davvero estinta, e che il conflitto tra capitale e lavoro fosse esaurito. Il conflitto di classe secondo Tronti – e su questo punto è tornato in diverse occasioni anche di recente – non si era affatto esaurito[62].
Ma il punto, nel suo ragionamento, era che il conflitto capitale-lavoro non risultava più in grado di innescare, sulla dinamica dello sviluppo, quegli stessi meccanismi che operavano negli anni Sessanta e Settanta. Detto con le formule del giovane Tronti, la «fabbrica come classe operaia» non appariva più capace di contrapporsi alla «società come capitale», mentre – con le formule odierne – la classe non sembra più in grado di funzionare (né economicamente, né politicamente) come alternativa, come ‘potere frenante’, dinanzi all’irrompere dell’«uomo-massa», al trionfo dell’homo democraticus. Ed è proprio per questo che il ‘politico’ per Tronti non può più essere – o non può più essere soltanto – come negli anni Settanta «lo stato più la classe politica».
Nella riflessione di Tronti c’era probabilmente un presupposto implicito che orientava tanto la discussione degli anni Sessanta sulla classe operaia, e che ancora oggi orienta l’idea della sua sconfitta politica. Questo presupposto era costituito dalla convinzione che la forza politica della classe operaia scaturisse dalla «concentrazione», perché – con le parole di Tronti – solo «una forza concentrata si può dare forma organizzata, potenzialmente dominante» (PAT 100). In un passaggio importante di Noi operaisti, proprio a proposito della dimensione di fabbrica, Tronti chiarisce infatti come il dato della concentrazione fisica in un luogo specifico consentisse alla classe operaia di diventare «aristocrazia di popolo», e cioè di diventare un soggetto capace di sottrarsi al destino della massificazione
La concentrazione dei lavoratori nel luogo di lavoro determinava le masse, senza fare massa. Quelle che si dicevano le masse lavoratrici, sindacalmente e politicamente organizzate, erano a loro volta il contrario dei processi di massificazione, indotti dalle produzioni, dai consumi, dalle comunicazioni, appunto di massa. La classe operaia è stata detta, ed è stata veramente, per quanto riguarda l’uso dei concetti politici, come aristocrazia di popolo. L’immagine simbolica dell’operaio collettivo portava direttamente a questa idea, perché la teneva implicitamente dentro di sé. Essa sfuggiva all’alternativa tragica che il Novecento aveva materializzato storicamente: o la personalità autoritaria o la massa democratica. Alternativa che residua, nelle fue forme deboli, in questo dopo-Novecento: o la personalizzazione della leadership o la partecipazione dell’opinione[63]
Naturalmente un simile presupposto (peraltro in latente contraddizione con la scoperta della fabbrica come rapporto sociale, e non solo come «fabbrica empirica», compiuta negli anni Sessanta) spiega le resistenze di Tronti a estendere il perimetro della classe operaia ai soggetti esterni alla sfera del lavoro produttivo. Ma si farebbe un grave torto alla riflessione di Tronti se davvero si costringesse la sua lettura della sconfitta della politica e del trionfo dell’homo democraticus alle coordinante di una sorta di implicito determinismo tecnologico. Perché la sconfitta subita dalla classe operaia nel passaggio che conduce agli anni Ottanta indusse in realtà Tronti a inserire nella propria prospettiva una riflessione nuova sulla dimensione simbolica della politica. Una dimensione che in precedenza era sostanzialmente assente, ma che, a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Ottanta, venne ad arricchire notevolmente – e anche a complicare – la sua indagine sul ‘politico’.
Non è probabilmente casuale che, a un certo momento dell’itinerario trontiano, il titolo del progettato Per la critica della politica si sia tramutato in Per la critica della democrazia politica. A spingere Tronti a operare quella modifica fu probabilmente lo Zeitgeist degli anni Ottanta e Novanta, perché in quella fase la democrazia incominciava a essere celebrata come il punto culminante, e insuperabile, dell’«evoluzione ideologica» del genere umano. Ma «critica della politica» era una formula autorevole, persino fondativa, perché riecheggiava il lavoro marxiano e, in particolare, i testi da cui negli anni Cinquanta la ricerca di Tronti era partita seguendo le orme di della Volpe: la giovanile critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, oltre che l’Einleitung del 1857 e il successivo Per la critica dell’economia politica del 1859. Alla base della decisione di accantonare la formula «critica della politica» ci furono così, probabilmente, altre motivazioni, non puramente formali o stilistiche, che originavano dall’utilizzo che di quell’espressione si era diffuso negli anni Settanta, peraltro proprio nell’ambito di quella teoria radicale che guardava all’operaismo di Operai e capitale (ma non al Tronti dell’«autonomia del politico»).
Il dibattito scaturiva allora dalla crisi dei «gruppi» della sinistra extra-parlamentare e dalla ricerca di «un nuovo modo di fare politica»[64]. E, in questo quadro, la «critica della politica» si traduceva per esempio nell’idea che andassero valorizzate le forme ‘spontanee’ di manifestazione del conflitto e l’«autonomia dei bisogni» che essi esprimevano. Ma, soprattutto, alla base di quella riflessione – spesso fortemente segnata dall’urgenza dell’azione – stava anche l’idea che andasse superata la netta divisione del lavoro tra vertice e base, tra dirigenti e militanti, e dunque quella forma di «alienazione politica» inevitabilmente prodotta dalla classica organizzazione partitica[65]. Dinanzi a quella discussione Tronti mise allora in guardia dal confondere la «critica della politica», di cui andava argomentando la necessità, con un discorso che, esaltando i bisogni, a suo avviso conduceva soltanto verso un «rifiuto della politica»[66]. Alla fine, la diffusione dell’espressione in un significato così lontano dalla logica della sua ricerca sul ‘politico’ dovette però suggerire a Tronti l’opportunità di un mutamento di titolo, che, a quel punto, nel nuovo scenario apertosi negli anni Ottanta, sollecitava anche una precisazione dell’oggetto dell’indagine.
Quella variazione all’apparenza lieve – che spostava il fuoco analitico dalla «politica» alla «democrazia politica» – ancora oggi rivela però un punto sostanziale della posizione trontiana, un punto che aiuta anche a spiegare l’insistenza della critica indirizzata dall’intellettuale al Sessantotto e ai movimenti. Più di recente, in una conversazione con Pasquale Serra, Tronti è tornato a ribadire la propria distanza dalla formula che invocava «un altro modo di fare politica», una formula che anzi viene giudicata ora come sostanzialmente analoga alla contemporanea retorica anti-politica. «Questa massima» per Tronti è infatti «all’origine dell’attuale crisi della politica, e del fatto che risultano praticamente bloccate le possibili vie d’uscita», mentre «non esiste ‘un altro modo di fare politica’», semplicemente perché «la politica con cui abbiamo a che fare è la politica moderna», «un universo conchiuso, compatto, in sé logico, con regole e leggi, non scientificamente esatte, questo è il bello, ma mutabili e interpretabili nella contingenza, con un fondo, dentro, di irrazionalità, il caso, l’occasione, l’eccezione»[67].
Sarebbe ingenuo considerare questi accenti polemici come rivolti solo a un dibattito ormai lontano. Perché – e qui il discorso di Tronti può diventare davvero indigesto per alcuni lettori – la sua celebrazione della politica viene a confliggere (almeno potenzialmente) con quel principio cardine del «partire da sé» cui si richiamava tanto il progetto di un diverso modo di «fare politica», quanto – assai più di recente – quel «pensiero della differenza» con cui pure Tronti ha intrattenuto un lungo rapporto e un dialogo costante dagli Ottanta[68]. Se infatti ai tempi di Con le spalle al futuro scriveva che la «rivendicazione della differenza» poteva diventare «la nuova frontiera per la rivolta del soggetto», e che «la politica come organizzazione delle differenze è l’unica, che conservi oggi un senso eticamente sovversivo» (CSF 14), la sua opinione sembra ora diversa. E non è certo incidentale il fatto che, in uno scritto di alcuni anni fa, abbia definito «quella della differenza femminile» come un’«emergenza postpolitica», o che abbia scritto che «la politica al femminile ha subìto l’urto di quella reazione antinovecentesca, emersa già dentro il Novecento, che si è espressa come narrazione antipolitica»[69].
Nella propria critica del ‘politico’, il pensiero della differenza, secondo Tronti, rimuove infatti ciò che della politica è costitutivo, e cioè il conflitto, con la conseguenza che in questo modo di fatto diventa incapace di pensare la politica stessa. «Che cosa volete che sia la politica se non il pensiero e la pratica di questo conflitto?», ha scritto in un passaggio esemplare nella sua linearità, perché «chi vi dice che non ci deve essere più il nemico, vi sta dicendo che è amico delle cose come stanno, che devono restare così»[70]. Una simile precisazione – ben al di là dell’aspetto polemico indirizzato al pensiero della «differenza» – scaturisce d’altronde dai cardini stessi che reggono il progetto trontiano di «critica della democrazia politica».
Quando lamenta l’assenza di un confronto col ‘politico’ da parte del pensiero femminile, o quando scrive che «i favolosi anni sessanta libertari, cioè giovanili e femminili, hanno fatto [un grosso favore] al sistema generalizzato di oppressione liberamente volontaria che ne è seguito, quello di aver espresso pensieri di libertà come comportamenti trasgressivi» (DSL 44), o anche quando lamenta gli effetti politicamente disastrosi della crisi dell’«autorità» (CP 125), Tronti senza alcun dubbio si trova a collidere sia con il ‘senso comune progressista’, sia con alcuni punti cardinali di quella riflessione radicale che mezzo secolo fa trovò in Operai e capitale le tracce di una «differenza» irriducibile.
Ma ciò che Tronti rimprovera al pensiero femminile, ai movimenti di contestazione e agli studenti anti-autoritari che ‘partivano da sé’ per criticare le istituzioni educative e la stessa struttura familiare, è in fondo proprio ciò che negli anni Settanta rimproverava alla «critica della politica» articolata dai teorici dei «bisogni»: e cioè un discorso sulla politica che si traduce in un «rifiuto della politica». Un «rifiuto della politica» che non consiste semplicemente nel rifiuto di confrontarsi con le «leggi» del potere e con le «regolarità» della politica, ma – più in generale – un rifiuto che, sottovalutando la dimensione strettamente ‘politica’, finisce col trascurare completamente la necessità di costruire e preservare ogni identità collettiva, e dunque con l’accettare quella logica di individualizzazione che permea la Zivilisation capitalistica.
Sciolta dal radicamento materiale in una parte – una parte che è ovviamente contrasto a un loro, a un ‘nemico’, ma una parte che è sempre anche un ‘noi’, e non un ‘io’, come d’altronde l’hostis non è mai inimicus – la libertà si risolve infatti solo nella libertà dell’«ultimo uomo», nella libertà egoistica dell’homo democraticus, nell’interminabile ricerca della felicità individuale dell’«uomo-massa» perduto nello spettacolo della merce. «Il pensiero di libertà non può esprimersi immediatamente in una rivolta comportamentale», scrive oggi Tronti, perché «tra il pensiero alternativo e la libertà dello spirito, in mezzo, ci vuole la politica», «la mediazione, che fa analisi delle forze in campo e progettazione della pratica delle azioni» (DSL 44-45). Sempre in questa direzione, in un passaggio importante di alcuni anni fa, attaccando uno dei più classici slogan dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, diceva: «Il privato non è politico. Mai. Per diventare il pubblico deve trasvalutarsi, trascendersi, uscire dall’individuo per farsi collettività, riconoscere la propria condizione come la stessa dei molti insieme a lui» (ibi, p. 34). Ed è probabilmente proprio avendo presente questa dimensione della politica – una dimensione che chiama in causa il processo misterioso con cui l’individuo deve «trascendersi», «farsi collettività» – che può essere pienamente compreso l’interesse che ha spinto Tronti ad accostarsi alla teologia politica e alla dimensione della spiritualità.
Teologie
Nella sensibilità che Tronti, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, iniziò a mostrare verso il pensiero religioso – in particolare collaborando con «Bailamme. Rivista di spiritualità e politica» – non è difficile riconoscere oggi i tratti «dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore». Ma sarebbe ingenuo ritenere che il «politico pensante» si volgesse alla dimensione interiore solo per effetto di un ripiegamento individuale, o solo sull’onda di un’attrazione – che evidentemente c’era e c’è ancora oggi – per la spiritualità. Anche mentre si accostava a questi temi, e soprattutto quando si intratteneva con la riflessione teologica, Tronti non rinunciava infatti a uno sguardo che era sempre, e prevalentemente, politico. Ed è per effetto di questa nuova stagione di ricerca che il ‘politico’ indagato dall’autore di Operai e capitale, cessa di essere semplicemente un «terreno», per chiamare in causa una prospettiva e un orizzonte.
Anche nei «frammenti» di Dello spirito libero si trova ben più di qualche fugace accenno alla dimensione della spiritualità, e quasi in ogni pagina ricorrono termini adottati dal linguaggio religioso. Tronti chiarisce quali sono le radici di questa scelta, non solo stilistica ma anche tematica, che spinge verso la spiritualità: «il capitalismo ha fatto il deserto all’interno dell’uomo, ha reciso le radici dell’anima nella persona: questo è il motivo – culturale – di conflitto, una forma politica nuova di lotta, che nessuna delle poche forze anticapitalistiche rimaste agita» (DSL 224). Dinanzi al trionfo dell’homo democraticus, dinanzi all’egemonia dell’«ultimo uomo», la spiritualità – che «è fondamentalmente interiorità, è il mondo interiore dell’essere umano, declinato in forma duale, al femminile e al maschile, come due modi differenti di essere, complementari e conflittuali» (DSL 226) – costituisce la sola residua forza culturale che consenta di far sapere che «c’è qualcosa di non misurabile, di non calcolabile, di non sottoponibile a ragione strumentale, infinito anche come indefinito, non dicibile in numeri, in leggi, in codici e soprattutto oggi in immagini» (DSL 227). La spiritualità appare allora davvero l’ultimo katechon, l’ultima ridotta dinanzi alla marcia della Zivilisation, l’«ultima e definitiva frontiera di resistenza all’aggressione del mondo di fuori», «il primo, più profondo, incisivo ed efficace punto culturale di attacco al suo attuale ordine di senso, al presente dominio democratico sulle coscienze» (DSL 227)
In questa prospettiva si chiarisce anche il significato della lettera aperta firmata da Tronti nell’ottobre 2011 insieme a Pietro Barcellona, Paolo Sorbi e Giuseppe Vacca, e dedicata a denunciare l’«emergenza antropologica»[71]. Quando infatti quel documento segnalava la necessità per la sinistra di prendere seriamente la condanna del «relativismo etico» formulata da Benedetto XVI, toccava un tema che – nella riflessione più recente di Tronti – è divenuto fondamentale, ma che non è comunque affatto in contrasto la precedente ricerca. La «manipolazione della vita» costituisce infatti niente altro che la trasformazione in merce non solo della forza lavoro, ma della vita stessa degli individui. «L’essere umano», ha scritto nel 2013 nel breve saggio La sinistra e l’oltre, «non può vivere come appendice della merce, come funzione di mercato, come produttore di reddito e consumatore del prodotto che produce», e dunque la «questione antropologica» coincide con la «lotta contro la disumanizzazione della vita da parte dell’attuale organizzazione del mondo» (CP 146-147)
Tronti non guarda però alla spiritualità soltanto per cercare quella nuova forza ‘frenante’ che la classe operaia non è più in grado di esprimere, perché il ‘politico’ oggi non può non comprendere anche una dimensione ‘escatologica’: una dimensione che negli anni Sessanta e Settanta era sostanzialmente trascurata, probabilmente perché una proiezione di questo genere si trovava inglobata, seppur talvolta occultata, nella prospettiva del «progresso» socialista. Proprio la caduta di una simile proiezione escatologica costituisce invece la più profonda ripercussione culturale della «fine della Storia» celebrata fra il 1989 e il 1991. E non si tratta per Tronti di un dato secondario, ma di un aspetto cruciale, che lo induce a considerare la dimensione profetica come una componente costitutiva – seppur accanto ad altre – della politica. «La fine della profezia», si legge per esempio in Dello spirito libero, in un commento a Massimo Cacciari, «è il fondamento della depoliticizzazione», perché «la politica non è solo profezia», ma è «anche profezia» (DSL 217). Ed è in fondo proprio perché Tronti ritiene indispensabile la costruzione di una nuova escatologia, di un nuovo orizzonte simbolico, che esplora da almeno due decenni il terreno delle teologia politica.
Nel volumetto Il nano e il manichino – un testo apparso contemporaneamente a Dello spirito libero e in cui sono raccolti i testi di alcune lezioni tenute nel 2010 – Tronti si confronta con alcuni classici della «teologia politica», e rilegge soprattutto alcune famose pagine di Schmitt, Benjamin, Taubes, Bloch e Kojève. Illustrando l’importanza della teologia politica, scrive che il suo emergere nel corso del Ventesimo secolo era l’effetto dello stesso Weltbürgerkrieg. È infatti «il grado di intensità del politico che giustifica la necessità del teologico», scrive, nel senso che «ci vuole la compresenza di due forti sovranità, di due blocchi di potenza, di due diverse e opposte concezioni dell’amico-nemico»[72]. Nel momento in cui invece «la Storia scende di livello, quando le alternative antagoniste si spengono», la tensione cade, «la teologia politica non ha più ragione di esistere»[73]. C’è però soprattutto un passaggio in cui, commentando una lettera di Taubes, Tronti chiarisce un aspetto importante della sua visione del ‘politico’, e soprattutto esplicita il motivo per cui la teologia politica è decisiva per una sua piena qualificazione. A proposito della distinzione, attribuita da Taubes a San Paolo, fra il dentro e il fuori del ‘politico’, Tronti scrive infatti
È necessario distinguere, per il ‘politico’, tra un dentro e un fuori. Nel tutto dentro, nell’immanenza, nel monismo, siamo subalterni ai poteri, siamo cioè dentro l’ordine costituito. E allora non siamo umanamente liberi. Tra lo spirituale e il mondano va tracciata ogni volta una demarcazione, una delimitazione: questo fa Paolo, questo fa Hobbes, questo fa Schmitt, e questo è il motivo che rende falsa la leggenda di una liquidazione della teologia politica. Compito della teologia politica è marcare tale confine. La teologia è una necessità della politica. Ripeto, non della politica en géneral, che è quella delle classi dominanti, dei padroni del mondo, ma della politica dei subalterni, dei dominati. Questi ultimi – ultimi in tutti i sensi – devono però capire che non basta un’apocalittica dal basso: ci vuole anche un’apocalittica dall’alto. Possedere la politica di chi comanda è assolutamente indispensabile per chi non vuole più obbedire[74].
Per Tronti il confronto con la teologia comporta sicuramente il riconoscimento della massima che apriva il celebre capitolo schmittiano: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti politici secolarizzati»[75]. Ma, senza dubbio, comporta anche un’esplicitazione della dimensione escatologica della politica sottolineata soprattutto da Benjamin. A ben guardare, Tronti non riprende infatti da Benjamin solo l’immagine del «nano gobbo», nascosto nell’automa giocatore di scacchi, così come la teologia è nascosta nel «materialismo storico»[76], ma anche l’idea che nella dimensione del ‘politico’ si trovi – come componente non esaustiva, eppure necessaria – una proiezione escatologica (certo chiamata problematicamente a convivere con una salda istanza realista). E da questo punto di vista è probabilmente ancora valido – e utile per decifrare il «puzzle» di Dello spirito libero – tornare a rileggere quanto Tronti scriveva in Con le spalle al futuro, proprio interrogandosi sulla possibilità, e sulla opportunità, di una «riteologizzazione dei concetti secolarizzati».
«È un problema di pensiero sul politico, ma anche di pratica della politica», scriveva, perché «bisogna darsi il coraggio di riproporre il ‘regno’ utopico di un altro mondo di uomini e per gli uomini», ma, al tempo stesso, «bisogna farsi forza per continuare a ‘sporcarsi le mani’ con questa terra secca di rapporti tra le cose» (CSF 26).
In qualche misura Dello spirito libero assume proprio un simile compito di una «riteologizzazione dei concetti secolarizzati», nella convinzione che la teologia politica sia uno strumento indispensabile per sottrarsi al destino della Zivilisation, e che dunque solo una teologia politica possa oggi elevare un argine al trionfo dell’«uomo-massa democratico» e alla sua logica individualistica
Nella prospettiva che indirizza Dello spirito libero è d’altronde facile ravvisare l’eco delle riflessioni di Benjamin. La critica all’«ottimismo storico» indirizzata da Tronti al socialismo (DSL 78), si richiama in modo esplicito ai passi in cui l’autore di Angelus Novus scriveva che «nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente», e che sosteneva dunque che dovesse diventare oggetto di critica teorica e politica l’idea, coltivata dalla socialdemocrazia tedesca, di un progresso inteso come «progresso dell’umanità intera», come progresso «interminabile» e «incessante»[77].
È anche benjaminiana l’idea di utilizzare il passato ‘contro’ il presente, un’idea su cui Tronti insiste con forza particolare: «Solo il passato è oggi alternativo al presente, non più catturabile dal suo selvaggio istinto predatorio», perché il futuro «è già tutto inscritto nel presente: questo farà di quello tutto ciò che vorrà» (DSL 79). Ed è proprio in questa chiave che acquista la sua cruciale importanza il discorso che Tronti svolge sulla memoria. In una delle più importanti Tesi di filosofia della storia, Benjamin scriveva infatti che in Marx la classe operaia appariva «come classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti»[78], mentre nella retorica progressista della socialdemocrazia il suo ruolo risultava proiettato verso il futuro, con l’effetto però di dissolverne le stesse potenzialità politiche. Quando la socialdemocrazia «si compiaceva di assegnare alla classe operaia la parte di redentrice delle generazioni future», di fatto «le spezzava il nerbo migliore della sua forza», tanto che – concludeva – la classe «disapprese a questa scuola, sia l’odio che la volontà di sacrificio», due componenti che «si alimentano all’immagine degli avi asserviti, e non all’ideale dei liberi nipoti»[79]
E per Tronti diventa oggi decisivo assumere la prospettiva indicata da Benjamin, rompendo definitivamente con quella visione lineare, ottimistica del «progresso» che in qualche modo alimentava anche l’operaismo degli anni Sessanta, ma nella quale la sensazione di «nuotare con la corrente» non faceva che ricondurre ogni apparente istanza di rottura dentro la logica acquisitiva dell’«ultimo uomo» e l’individualismo dell’homo democraticus. «Il nostro problema è il nostro passato», scrive per esempio Tronti in un passaggio di Dello spirito libero, e dunque la continuità del passato «che ritroviamo nelle varie forme di presente: quelle forme che scegliamo, volta a volta, come nostro presente» (DSL 71). E ciò significa dunque che la costruzione di un’identità collettiva oggi non può limitarsi a proiettarsi in un futuro più o meno lontano, ma deve piuttosto ‘decidere’ il proprio passato, perché solo scegliendo un proprio passato, può vedere un ‘presente’ diverso da quello trionfante della Zivilisation:
Il nostro presente non è quello che viviamo. Questo è il presente degli altri, e anche loro se lo meritano. Il nostro presente è quello in cui avremmo voluto vivere: lì si srotola quotidianamente, e si raggomitola come il serpente, la nostra esistenza di pensiero. Il genuino, autentico esistere. Per Warburg era il primo rinascimento, che vedeva la rinascita del paganesimo antico. Per noi è il primo Novecento, che ha visto la rinascita dell’umanesimo moderno (DSL 71).
L’«Atlante della Memoria Operaia», di cui Tronti ha da qualche anno iniziato a delineare la sagoma, diventa in questo quadro uno strumento di ricostruzione di un’identità collettiva consapevolmente rivolta al passato delle classi subalterne. E non si tratta neppure, a ben vedere, di una proposta del tutto nuova, perché già al principio degli anni Ottanta Tronti, mentre tentava di trovare un senso alla sbiadita etichetta di «sinistra», guardava in fondo in questa direzione[80].
Ma il ruolo della memoria diventa oggi addirittura esiziale. «Accogliere nel proprio processo, nella propria esperienza, più personale, ‘il retaggio del passato conquistandolo di nuovo’» è infatti per Tronti «un compito teorico-politico di sconvolgente pregnanza attuale» (DSL 75). Sulla scorta di Aby Warburg, Tronti prefigura così quella che già da tempo ha definito una sorta di «Mnemosyne proletaria, che racconti, per figure, e per forme, i luoghi e i tempi di una presenza»[81]. Un «Atlante» che possa assolvere al compito di raccogliere «un deposito archeologico», il quale è anche – e la precisazione non è certo superflua – un «repertorio mitico», nel senso di Cassirer, ossia «non mito mobilitante, ma mito fondante» (DSL 82).
«Abbiamo il dovere di sapere»
Alcuni anni fa, interrogato da Pasquale Serra sul «testamento politico» che intendeva indirizzare ai giovani, Tronti ricordava le parole di Emily Dickinson: «Per quanto lontano tu possa andare, non raggiungerai mai i confini della tua anima». E alla nuova generazione ‘globale’, in grado di viaggiare per il mondo e di percorrere senza limiti lo sterminato spazio virtuale della rete, diceva che il compito più importante era proprio coltivare questo «infinito dentro», «l’arma totale per combattere senza essere mai sconfitto»[82]. È in fondo proprio questo il vero «messaggio» che si nasconde nelle pagine di Dello spirito libero, un messaggio destinato, forse più che al lettore contemporaneo, alle generazioni che verranno. D’altronde la figura dello «spirito libero» evocata da Tronti non si richiama solo al frammento hegeliano Freiheit und Schicksal, ma anche a quegli «spiriti liberi» cui Nietzsche dedicò Umano, troppo umano, e a proposito dei quali più tardi scrisse: «Di simili ‘spiriti liberi’ non ce ne sono, non ce n’erano. […] Che tali spiriti liberi potranno esserci un giorno, […] di ciò io vorrei essere l’ultimo a dubitare. Li vedo già venire, lentamente, lentamente»[83]. E per molti versi anche Tronti si rivolge a quegli «spiriti liberi», che forse – come Nietzsche – vede venire «lentamente, lentamente».
«Ribellarsi è giusto», diceva Tronti in Politica e destino, «ma bisogna saperlo fare bene, imparare a farlo bene, e questo è il compito di una vita» (PED 28). E Dello spirito libero può essere letto come un «manuale di sopravvivenza, di libera sopravvivenza tra le pareti della prigione di sistema in cui siamo tutti rinchiusi» (DSL 315), proprio nel senso che definisce, riassume e celebra la figura di un «intellettuale totus politicus»: un intellettuale capace di «libertà e responsabilità», di «ironia e disincanto», di «passione e realismo», e soprattutto spinto dalla «‘contraddizione sempre crescente’, mirata a produrre verità di parte come arma di lotta nel combat con la storia in atto» (DSL 316). «Essere spirito libero», scrive in questo senso Tronti, «vuol dire fondare una scuola interiore, dove si è maestri di se stessi, e discepoli di se stessi» (DSL 265). Ma non può mai significare ripiegamento individualistico. E se mezzo secolo fa apriva Operai e capitale con il formidabile incipit «Dobbiamo avvertire», oggi chiude Dello spirito libero con un «Abbiamo il dovere di sapere una cosa» forse altrettanto perentorio, nel quale si trova depositato il cuore di un testamento politico:
Abbiamo il dovere di sapere. In quel che resta del popolo, un paesaggio anch’esso devastato, in quelle figure concrete di persone semplici che calcano ancora la terra con i passi che erano dei contadini, lì sta la vita prima. Noi intellettuali viviamo una vita seconda. Vediamo il riflesso delle cose nella nostra testa. Leggiamo la vicenda umana nello specchio dei libri. Se non camminiamo mano nella mano con quelle persone, di perdiamo. Non capiamo quanto più crediamo di capire, se la quotidiana solitudine del pensiero non incontra questa quotidiana compagnia. Alla fine, e nel fondo, è questo compagnonnage che rende veramente libero lo spirito (DSL 316).
Non c’è dubbio che anche quanti cercano – e cercheranno – nelle pagine di Dello spirito libero le parole di un «maestro» debbano incontrare nelle riflessioni di Tronti più di qualche insidia, e forse anche più di qualche dissonanza rispetto alle loro più salde convinzioni. Le dure parole del realismo politico e lo stesso accostamento fra il «pensare estremo» e l’«agire accorto» non possono che apparire formule ostiche, intraducibili, persino incomprensibili per quella lingua, cresciuta nel culto della semplicità e della trasparenza, che risuona in ogni interstizio della nostra quotidianità. Ciò nondimeno, è ben chiaro come la prospettiva indicata oggi da Tronti colga e affronti un aspetto davvero sostanziale, che ha finora solo tangenzialmente lambito la ricerca teorica[84].
Per quanto l’utilizzo del linguaggio della spiritualità da parte di Tronti debba essere inteso sempre (o prevalentemente) in una chiave politica, è evidente che l’immagine del ‘politico’ che scaturisce dalla revisione ‘teologica’ compiuta soprattutto nel corso degli ultimi decenni introduce nel percorso dell’intellettuale romano forse non una vera cesura, ma comunque un ‘salto’. E i termini di questo ‘salto’ rendono senza dubbio più fragili i legami che stringono la riflessione più recente di Tronti a quel concetto di «composizione di classe» che probabilmente rappresenta il lascito teorico più consistente dell’operaismo degli anni Sessanta. Quando oggi Tronti ripone nella coltivazione della memoria del passato l’unica chiave per riaprire il presente, imbocca d’altronde una traiettoria ben diversa sia dal ‘prometeismo’ operaista che, dopo ogni ristrutturazione capitalistica, induce a confidare nella nascita di una nuova figura conflittuale.
Ma percorre anche un itinerario radicalmente differente da quello compiuto da Marco Revelli nell’ultimo quindicennio, perché Tronti – a differenza dell’autore di Oltre il Novecento – non rinuncia a considerare centrale il lavoro, pur nella consapevolezza che la dimensione della fabbrica non è più quel luogo in cui, quasi ‘spontaneamente’, prendeva forma il katechon capace di ‘trattenere’ la Zivilisation[85]. Come si è visto, la lettura di Tronti aveva già impresso al concetto, fin dagli anni Sessanta, una curvatura specificamente ‘politica’, una curvatura che tendeva a includere nella figura della composizione di classe anche gli elementi più propriamente politici. Ma oggi Tronti – il quale peraltro non ha mai utilizzato frequentemente l’espressione «composizione di classe» – introduce in questo quadro un elemento ‘teologico politico’, una dimensione escatologica, che risulta senz’altro assai poco in linea con l’originaria prospettiva operaista, e che pare semmai riavvicinare a Gramsci. E non solo al Gramsci che nei «Quaderni» guardava al «mito» soreliano come a quella «fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva»[86]. Ma forse soprattutto a quello ‘bergsoniano’ che nel «biennio rosso» trovava nel partito rivoluzionario un’istituzione che poteva «raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo», e grazie al quale poteva attuarsi il «miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale e la propria libertà di costruire nell’ordine delle idee, lottando contro la stanchezza, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore»[87].
Come per Gramsci, anche per Tronti l’escatologia non può d’altronde rimanere solo un’utopia in senso blochiano, perché deve essere fatta propria da una forza organizzata, capace di agire politicamente. E quando alcuni anni fa, rimettendo al centro il lavoro, evocava la necessità di un Berlinguer a Pomigliano, Tronti intendeva proprio affermare l’esigenza di una «soggettività collettiva, una forza politica di alternativa, che butti sul tavolo da gioco la carta di un atto di potenza, capace di egemonia»[88].
A proposito della necessità di riguadagnare un orizzonte culturale per rendere nuovamente praticabile una politica, Tronti qualche tempo fa ha scritto: «Va ricostruito un orizzonte, c’è bisogno più che di una narrazione di una visione, l’assunzione di un compito appunto storico» (CP 127). Le pagine di Dello spirito libero certo non possono consegnare ai lettori di oggi e di domani quella «visione» e quel «compito storico». Ma invitano a cercarla, puntando lo sguardo non verso il futuro, verso gli scenari più avveniristici della società dello spettacolo e le trasformazioni probabili del capitalismo digitale, ma nel passato novecentesco delle classi subalterne, nel loro deposito di memoria e cultura. E nel momento in cui colloca al cuore del discorso sul «mito fondativo», sulla memoria da coltivare, sulla scelta di un passato da cui leggere il presente, indica forse veramente l’unico modo possibile uscire dalla secche dell’esaurimento dell’immaginario del «Progresso». «Max Weber», scrive Tronti, «nel suo disincanto scientista, raccomandava: chi vuole le visioni vada al cinema. Non abbiamo mai mancato di prenderlo sul serio. E allora, siamo andati al cinema» (DSL 21). Oggi probabilmente neppure «quel miracolo simbolico novecentesco che è il cinema» (PED 28) si è sottratto al destino della Zivilisation, e i linguaggi delle avanguardie sono ormai entrati a far parte dell’armamentario della società dello spettacolo[89].
Ma forse con una piccola licenza – pescando in quella sorta di limbo in cui si sfogliano le pagine dei libri mancati e in cui scorrono i fotogrammi dei film mai realizzati – possiamo davvero leggere i «frammenti di vita e di pensiero» offerti da Dello spirito libero un po’ come quell’interminabile piano-sequenza immaginato da Sergio Leone per la pellicola sull’assedio di Leningrado. Perché, come ci indicano i frammenti di Tronti, «razzi lanciati dal fuoco del pensiero a illuminare, almeno provvisoriamente, la terra desolata di […] un tempo senza epoca» (SL 304), probabilmente solo muovendo dal passato del Welt von Gestern, solo procedendo dal ‘cuore di tenebra’ del Novecento, solo partendo dalle memorie di mondo ormai quasi perduto, diventa possibile ‘riaprire’ quella Storia che la fine del secolo sembra aver chiuso nella gabbia di un presente immodificabile. Ed è in fondo agli «spiriti liberi» di domani, a quegli «spiriti liberi» che si avvicinano «lentamente», che Tronti affida il compito di proseguire il cammino, e di dar forma a quella visione.
«In politica», scriveva d’altronde molti anni fa, «un lavoro produttivo di nuove scoperte non può accettare la felice condizione artigianale – bottega di prodotti raffinati per soli intellettuali – a cui rischia di ridurlo l’alta tecnologia del kombinat». «Il primo passo è pensare insieme […]. Il secondo passo è farsi capire. Il terzo passo è crescere, il contrario di scomparire…» (AP 8).
Note
[1] In questo articolo alcune opere di Mario Tronti verranno indicate con le seguenti abbreviazioni, accompagnate dal numero di pagina a cui rimanda il riferimento: AP = Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977; CP = Per la critica del presente, Ediesse, Roma, 2013; CSF = Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, Roma, 1992; DLS = Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, il Saggiatore, Milano, 2015; OC = Operai e capitale, Einaudi, Torino, 19712 (I ed. 1966); PAT = La politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998; PED = Politica e destino, in M. Tronti et. al., Politica e destino, Sossella, Roma, 2006.
[2] A. Asor Rosa, Mario Tronti, stile e destino, in M. Tronti et al., Politica e destino, Sossella, Roma, 2006, p. 34.
[3] M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma, 2009, p. 11.
[4] Ibidem.
[5] Sono da questo punto da vedere, per esempio, M. Filippini, Mario Tronti e l’operaismo politico degli anni Sessanta, in «Cahiers du GRM», 2011, n. 2, pp. 76-132, M. Filippini – E. Macchia, Leaping Forward. Mario Tronti and the history of political workerism, Crs-Jve, Maastricht, 2012, S. Mezzadra, Senza lacrime per le rose. «Operai e capitale» di Mario Tronti e l’operaismo italiano, in M. Baldassari – D. Melegari (a cura di), La rivoluzione dietro di noi. Filosofia e politica prima e dopo il ’68, Manifestolibri, Roma, 2008, pp. 61-77, e F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano, 2014. Per una lettura preliminare del pensiero di Tronti, rimando anche al saggio Il crepuscolo dell’operaismo (2001), compreso in D. Palano, I bagliori del crepuscolo. Critica e politica al termine del Novecento, Aracne, Roma, 2009, pp. 69-160.
[6] Cfr. D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna, 2012, D. Gentili – E. Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Derive Approdi, Roma, 2015, A. Toscano – L. Chiesa (eds.), The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics, Re.Press, Victoria – Australia, 2009. Ma letture importanti, che riconoscono il ruolo cruciale del pensiero di Tronti, sono soprattutto offerte da R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 2010, specie pp. 206-212, e A. Negri, La differenza italiana, Nottetempo, Roma, 2005. Per la storia dell’operaismo, rimangono invece fondamentali il monumentale volume di G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, e il testo di S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (2002), Alegre, Roma, 2008.
[7] Cfr. A. Accornero, L’opera mancata, in M. Tronti et. al., Politica e destino, cit., pp. 85-95.
[8] Per chiarire il senso di questo accostamento, scrive: «Periodizzazione: lascerei cadere grande e piccolo Novecento. È servita per capire certe cose. La tipica scala che, una volta saliti, con un calcio la si butta via. E poi non passa nella testa. Ho verificato che nessuno è disposto ad ammettere che il tempo del suo vivere è un tempo minore e che la sua sovrana intelligenza non sarà dunque protagonista di eventi epocali» (DSL 64).
[9] Nella dodicesima tesi, scrive per esempio: «Democrazia e borghesia, dunque. Borghesia media, e cioè oggi borghesia di massa, riflessiva e acculturata. Non c’è più separazione, tanto meno contrapposizione, tra bourgeois e citoyen. Tanto il borghese è l’uomo sociale medio, quanto il cittadino è l’uomo politico medio. La medietà che fa massa: ecco la democrazia» (DSL 186).
[10] M. Tronti, Per la critica della democrazia politica, in M. Bascetta et. al., Guerra e democrazia, Manifestolibri, Roma, 2005, p. 22. Ma sulla centralità dell’«uomo-massa democratico» Tronti sarebbe tornato anche in molti interventi: cfr. per esempio M. Tronti, Lettera, provocatoria, agli amici del Crs, in Aa.Vv., Passaggio Obama. L’America, l’Europa, la sinistra. Una discussione al Crs provocata da Mario Tronti, Ediesse, Roma, 2009, pp. 9-16, e l’intervento raccolto in M. Cacciari – M. Tronti, Teologia e politica al crocevia della storia, a cura di M. Gasparri, Albo Versorio, Milano, 2007, specie pp. 28-30.
[11] Cfr. l’intervista concessa di recente ad A. Gnoli, Mario Tronti: «Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del ‘900», in «la Repubblica», 28 settembre 2014, pp. 52-53
[12] Lo notava per esempio Carlo Galli, Politica e politico nella fine del moderno, in «Filosofia politica», XIII (1999), n. 3, pp. 497-504,
[13] M. Tronti, Non si può accettare, a cura di P. Serra, Ediesse, Roma, 2009, p. 19.
[14] C’è da questo punto di vista un passaggio piuttosto netto, che palesa un certo scarto rispetto ai toni di La politica al tramonto: «Sembrano non esserci più risorse, né materiali né intellettuali né morali, che possano nutrire un attacco in grande stile allo stato di cose presente. Eppure, questo stato delle cose merita un attacco generale. Eppure, quelle risorse ci sono state, sono storicamente esistite, non sono da invocare come l’utopia di qualcosa che mai si è visto. Adesso siamo in grado di rivederne le forme, realizzate nel passato, senza nuovi inizi, senza vecchi continuismi. Penso a una forza civile, collettiva, organizzata, cosciente di sé, dotata di mezzi, motivata da un fine, non minoritaria e parolaia, non fondamentalista e violenta, critica di ciò che c’è ma credente in qualcosa d’altro rispetto a ciò che c’è, cioè capace di sostenere una fede, come scelta libera, e però senza paura di un riconoscimento di autorità» (DSL 28-29).
[15] G.W.F. Hegel, Libertà e destino, in Id., Scritti politici, a cura di C. Cesa, Einaudi, Torino, 1972, pp. 9-10
[16] Ibi, p. 10
[17] Ibidem
[18] M. Tronti, Hegel politico, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1975, p. 3 (il frammento era invece citato a pp. 59-60 e pp. 103-104)
[19] Ibi, p. 104.
[20] Ibi, p. 106
[21] Ibi, p. 107.
[22] Non casualmente a Libertà e destino è dedicata un ricordo della figura di Luporini steso alcuni anni fa, nel quale Tronti richiama anche l’importanza su «quel grande libro che è Situazione e libertà nell’esistenza umana», pubblicato dal filosofo nel 1942: «Un testo», scrive Tronti, «che ho scoperto tardi, sviato dalla conoscenza anche personale del Luporini marxista, che sembrava esclusivo di altri interessi e altre suggestioni. Ma quando lo scopersi me ne entusiasmai e lo feci leggere ai miei studenti di Siena e insieme lo studiammo. In fondo, situazione e libertà non è un altro modo di dire libertà e destino?» (M. Tronti, Libertà e destino, in Id., Dall’estremo possibile, cit., p. 64).
[23] G.W.F. Hegel, Libertà e destino, cit., p. 10.
[24] «È facile riconoscere l’entusiasmo dell’uno legato, cioè non libero, nell’uomo-massa che si identifica con un capo, oppure nell’uomo integralisticamente collocato dentro un’assolutezza fondamentalista» (DSL 41). Ma, anche se l‘operazione è meno immediata, Tronti propone di riconoscere le sembianze dell’individuo «legato» proprio «nell’individuo accanto a noi, qui, oggi, prodotto raffinato della deriva modernizzatrice» (DSL 41).
[25] Cfr. G. della Volpe, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica, Editori Riuniti, Roma, 1997 (I ed. 1957). Per la polemica con Bobbio, cfr. invece F. della Volpe, Comunismo e democrazia moderna, in «Nuovi Argomenti», 1954, n7, e N. Bobbio, Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, in «Nuovi Argomenti», 1954, n. 11, poi in Id., Politica e cultura, Einaudi, Torino, 1955, 160-194.
[26] Queste critiche risalgono in origine all’accusa di costruire una sorta di «filosofia della classe operaia» che Raniero Panzieri mosse all’impostazione di Tronti, quando ancora all’interno della redazione dei «Quaderni rossi» non si era delineata compiutamente la frattura con il gruppo della futura «classe operaia»: cfr. R. Panzieri, Intervento alla riunione della Redazione Quaderni Rossi-Cronache operaie, in Id., La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Sapere, Milano, 1973, pp. 301-305. Ma col tempo quel giudizio si è tramutato quasi come un luogo comune interpretativo, frequentato dai più diversi critici dell’operaismo: cfr. per esempio D. Bigalli, Due figure hegeliane: in margine a Tronti e Marcuse, in «Classe e Stato», 1967, n. 4, G.M. Cazzaniga, I giovani hegeliani del capitale collettivo, in «Giovane critica», 1967, n. 17, A. Mangano, Per la critica del trontismo e delle ideologie autonome, in Id., Autocritica e politica di classe. Diario teorico degli anni settanta, Edizioni Ottaviano, Milano, 1978, pp. 79-131, C. Preve, La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (1976-1983), Dedalo, Bari, 1984 e R. Sbardella, La Nep di «Classe operaia», in «Classe», XI (1980), n. 17, pp. 239-263.
[27] Cfr. U. Spirito, Critica della democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009 (I ed. Sansoni, Firenze, 1963). In effetti, dal punto di vista dell’itinerario accademico, Spirito – allora Ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza – fu relatore della tesi di laurea che il giovane Tronti dedicò ai Manoscritti economico-filosofici di Marx. Naturalmente sarebbe da esplorare l’esistenza di una qualche influenza sulla formazione del giovane Tronti da parte di Spirito, il quale, partendo da posizioni filosoficamente attualiste negli anni del fascismo (nel passaggio tra gli anni Venti e Trenta) fu, insieme ad Adriano Volpicelli, uno dei principali teorici della «corporazione proprietaria», ossia di un indirizzo favorevole alla trasformazione della proprietà privata in proprietà pubblica, gestita dalle corporazioni. In realtà, è probabile che, più della relazione con Spirito, abbia pesato in quel passaggio la mediazione, svolta da Colletti, con la riflessione dellavolpiana. In una testimonianza di alcuni anni fa, Tronti ha ricordato il rapporto intrattenuto con Spirito, che comunque lo lasciò durante la redazione della tesi «completamente libero». Ma, in questo quadro, ha sottolineato anche il ruolo giocato da Colletti: «Fu Lucio Colletti a farci conoscere il pensiero di della Volpe, la sua lettura originale del marxismo e soprattutto dell’opera di Marx, dei rapporti tra Marx ed Hegel». Cfr. la testimonianza riportata in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 590.
[28] In un altro passaggio, pur commentando ancora il giovane Hegel (ma accettandone in fondo la logica), scrive: «Il negativo è il terreno dello scontro: da sopprimere, assumendolo, per superarlo. Ci vuole una coscienza, che si dà una volontà. La politica, come forma di libertà nel carattere di destino della storia, non si può separare da sé, senza ingenuamente affidarsi all’inefficacia dell’agire. Conoscere il destino in tutta la sua ampiezza, per contrapporvisi. La politica non è il regno dei fini, è la repubblica dei mezzi» (DSL 38).
[29] E proprio in questo senso ha scritto: «Oggi, per la storia che il movimento operaio ci ha lasciato in eredità, la tua parte te la devi andare a cercare con intelligenza, paziente, con passione, pensante, strappandola quasi giorno per giorno alla narrazione che l’ha sepolta, bucando il velo delle idee dominanti che l’hanno data per morta, e poi facendola scorgere da lontano, con la visione, facendola toccare con mano da vicino, con il realismo, sempre consapevole di star e di operare tra le sbarre di una gabbia d’acciaio» (CP 15).
[30] Può essere utile leggere quanto alcuni anni fa Tronti diceva a Pasquale Serra a proposito del libro che andava «componendo»: «Un pensatore va giudicato per il suo intero percorso. Se tra svolte, avanzamenti, ritorni indietro, abbandoni e riprese, dimostra di tenere la barra, cioè pensa continuamente in coerenza con se stesso, allora vale la pena di prenderlo sul serio. Se rimane fermo alla prima opera, la ripete, la ricicla, scrive, come si dice, sempre lo stesso libro, oppure salta di qua e di là, si adegua ai tempi che cambiano, si pente di essere stato, e vuole proporsi come nuovo, lasciatelo perdere, non c’è niente da imparare. Sto lungamente e lentamente ‘componendo’ […] un libro […] dove si cerca di far capire la cosa più difficile da capire: e cioè che quando parlo degli operai di Pomigliano, o della amata politique politiciènne, di sacro e secolarizzazione, di Warburg e di San Paolo, di Lenin o di Silesius, della classe o della persona, sto dicendo la stessa cosa. Il mio problema: come si abbatte questo sporco mondo. Quali le vie praticamente efficaci, quali le più realisticamente effettuali, per rovesciare il rapporto di forza tra coloro che attualmente stanno sopra e quello che stanno, appunto, sotto» (M. Tronti, Dall’estremo possibile, a cura di P. Serra, Ediesse, Roma, 2011, p. 41).
[31] Rimando, per questa lettura, a D. Palano, Il crepuscolo dell’operaismo, cit.
[32] Cfr. S. Wright, L’assalto al cielo, cit., anche M. Filippini – F. Tomasello, Il pensiero come arnese. Note sul metodo operaista degli anni Sessanta, in A. Simoncini (a cura di), Dal pensiero critico. Filosofie e concetti per il tempo presente, Mimesis, Milano, 2015, pp. 313-331.
[33] M. Tronti, Introduzione a K. Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1963, p. XXXIV.
[34] Ibidem.
[35] In qualche modo, si può forse leggere in questa direzione quanto ha scritto di recente Alberto Asor Rosa, ricostruendo la genesi teorica dell’operaismo in quel piccolo gruppo di intellettuali romani che faceva capo proprio a Tronti: «L’eguaglianza nelle condizioni di lavoro imposte dal capitale imponeva un generale ‘livellamento’ anche nelle condizioni sociali circostanti […], di cui a distanza di un secolo dalle previsioni si avvertivano ormai le conseguenze, dispiegate forse soltanto in quel momento per la prima volta ai nostri occhi. […] A quel ‘livellamento’ intendevamo sottrarci, perché non farlo avrebbe significato spianare la strada, in tutte le sue forme, al ‘piano del capitale’, il quale, per sua natura, registrava, eguagliava e, ovviamente, abbassava. Die Kritik, ovviamente, serviva anche a questo: cioè a respingere e mettere in crisi ‘l’eguaglianza capitalistica’. Per riuscirci era necessario individuare la leva da cui l’intero sistema sarebbe stato sollevato». Cfr. A. Asor Rosa, Prefazione storica, in Id., Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970), Einaudi, Torino, 2011, p. XXXIV.
[36] Cfr. K. Marx, Frammento sulle macchine, in «Quaderni rossi», n. 4, 1964, pp. 289-300.
[37] Per un’articolazione di questa ipotesi di lettura, che in questa sede non può che essere solo accennata, mi permetto di rinviare a D. Palano, Cercare un centro di gravità permanente?, in «Intermarx», novembre 1998 (ora in Id., Il bandolo della matassa. Pensiero critico nella società senza centro, Multimedia Publishing, Milano, 2009, pp. 115-167), Id., Sogni, incubi e visioni. Immagini della politica nella crisi della società del lavoro (1999), in Id., Politica nell’età postmoderna. Teoria e critica nella trasformazione sociale, Aracne, Roma, 2015, pp. 23-104, Id., Dioniso postmoderno. Classe e Stato nella teoria radicale di Antonio Negri, Multimedia Publishing, Milano, 2008, e Id., The «excesses» of cognitive capitalism, in «Historical Materialism», 2013, n. 3, pp. 229-245.
[38] R. Di Leo, Il ritorno delle élites, Manifestolibri, Roma, 2012, p. 68.
[38] R. Di Leo, Il ritorno delle élites, Manifestolibri, Roma, 2012, p. 68.
[39] Per una quadro del dibattito, cfr. A. De Martinis e A. Piazzi, Alle origini dell’autonomia del politico, in M. Tronti, Soggetti, crisi, potere. Antologia di scritti e interventi, Cappelli, Bologna, 1980, pp. I-XXVIII, ma anche F. Milanesi, Nel Novecento, cit.
[40] Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa tre corollari, in Id., Le categorie del ’politico. Saggi di teoria politica’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972.
[41] In un testo del 1976, peraltro pubblicato solo alcuni anni dopo, Tronti scriveva: «Mi sono posto il problema di come affrontare questo testo e, quindi, da quale parte prendere la personalità di Schmitt: ho fatto una scelta che non so se è corretta. La scelta è quella di percorrere la via del confronto tra le fondamentali idee di Schmitt e l’attuale dibattito intorno alla scienza politica, al problema politico oggi, come si pone al livello teorico. E dico subito che da questo punto di vista, malgrado qui da noi questo personaggio risulti del tutto marginale rispetto al contenuto del dibattito, accade che a una prima lettura, anche ad una lettura superficiale, salta in primo piano l’estrema attualità del suo discorso». (M. Tronti, Su Schmitt. «Le categorie del politico», in Id., Soggetti Crisi Potere, cit., p. 71). Ma al proposito si veda anche Id., Marx e Schmitt: un problema storico-teorico, in G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Arsenale, Venezia, 1981, pp. 25-40. Sulla rilettura di Schmitt condotta da Tronti e dall’operaismo italiano nel corso degli anni Settanta cfr. però C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1979, n. 1, pp. 81-160 (specie pp. 128-142), ma anche la lettura proposta da R. Cavallo, L’autonomia del politico: Carl Schmitt e il marxismo, in «Democrazia e Diritto», 2012, n. 1-2, pp. 309-324.
[42] In un passaggio importante, benché incidentale, osservava infatti a proposito della riflessione della socialdemocrazia tedesca dei primi del Novecento: «la vera teoria, l’alta scienza, non era dentro il campo del socialismo, ma fuori e contro. E questa scienza tutta teorica, questa teoria scientifica, aveva come contenuto, come oggetto, come problema, il fatto della politica. E la nuova teoria di una nuova politica ecco che sorge in comune nel grande pensiero borghese e nella prassi sovversiva operaia. Lenin era più vicino alla Politik als Beruf di Max Weber che alle lotte operaie tedesche, su cui montava – colosso dai piedi di argilla – la socialdemocrazia classica» (OC 279). Sulle influenze weberiane nel pensiero di Tronti, cfr. S. R. Farris, Workerism’s Inimical Incursions: On Mario Tronti’s Weberianism, in «Historical Materialism», 2011, n. 3, pp. 29-62.
[43] Su questo aspetto Tronti si soffermava d’altronde pochi mesi dopo il seminario torinese, a proposito di una simile critica indirizzata genericamente al marxismo da Giovanni Sartori: cfr. M. Tronti, L’incerto approccio alla politica come scienza (1973), in Id., Soggetti Crisi Potere, cit., pp. 183-191.
[44] Cfr. L. Althusser, Per Marx (1965), Editori Riuniti, Roma, 1972, dove per esempio si leggeva, in una discussione dedicata alla funzione sociale dell’ideologia: «’Soggetti’ della storia sono determinate società umane; esse si presentano come totalità la cui unità è costituita da un certo tipo di articolazione interna, dunque da un determinato tipo di articolazione interna, dunque da un tipo specifico di complessità che mette in giuoco certe istanze le quali, sulle orme di Engels, possono essere molto schematicamente ridotte a tre: economia, politica, ideologia» (ibi, p. 207).
[45] In uno dei saggi più importanti di Leggere il Capitale, Balibar aveva d’altronde per esempio rivisitato lo schema originariamente elaborato da Althusser, scrivendo: «gli elementi combinati dai diversi modi di produzione non sono omogenei: nei diversi modi di produzione, le tre istanze ‘economica’, ‘giuridica’, e ‘politica’, ed i loro rapporti assumono figure, partizioni, e dunque definizioni differenziali diverse. […] È quindi chiaro, forse, perché nel modo di produzione feudale non sia abbia adeguata consapevolezza, perché non può darsi coscienza del ruolo del ‘politico’» (E. Balibar, Sui concetti fondamentali del materialismo storico, in L. Althusser et.al., Leggere il Capitale (1965), a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano, 2006, p. 293). Ma cfr. anche N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali (1968), Editori Riuniti, Roma, 1975. Per un confronto con la ricerca trontiana, cfr. Sara R. Farris, Althusser and Tronti: the Primacy of Politics versus the Autonomy of the Political, in: K. Diefenbach – S.R. Farris, G. Kirn – P. Thomas (eds.), Encountering Althusser. Politics and Materialism in Contemporary Radical Thought, Bloomsbury, New York, 2013, pp. 185-203.
[46] L. Berti, L’idea del potere, in «aut aut», 1979, n. 169, pp. 51-68.
[47] Sulla teoria della composizione di classe cfr. G. Bossi, Classe e ricomposizione di classe. Per una riconsiderazione delle ipotesi della nuova sinistra, in «aut aut», 1975, n. 149-150, pp. 256-289. Ma sul punto mi permetto il rinvio anche a D. Palano, Il Bandolo della matassa. Forza lavoro, composizione di classe e capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta», in Intermarx, in «Intermarx», 1998 (ora in Id., Il bandolo della matassa. Pensiero critico nella società senza centro, cit., 115-167), Id., L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser, in «Tysm», maggio 2015 [www.tysm.org], e Id., Nel cervello della crisi. La “storia militante” di Sergio Bologna tra passato e presente, in A. Simoncini (a cura di), Dal pensiero critico, cit., pp. 333-357.
[48] Come segnalava Massimo Cacciari a proposito di questa lettura, attenta alle dimensioni ‘politiche’ e già implicita nella prima impostazione: «il concetto di ‘composizione di classe’ è politico, in quanto mai riducibile all’analisi della forza-lavoro. E l’organizzazione politica, a sua volta, va ridefinita su un terreno che ha una storia e uno spessore ‘relativamente autonomi’ rispetto ai ‘linguaggi’ precedenti. Se si vogliono ricomporre questi diversi livelli, essenziale è appunto coglierne le ‘differenze’ – non disporle in modo da renderne a priori un ‘superamento’ dialettico. ‘Composizione di classe’ è un concetto politico non solo, allora, perché riflette la struttura del rapporto capitale-lavoro dal punto di vista delle forme del conflitto di classe – ma perché è espressione della storia delle forme di organizzazione e lotta». Cfr. M. Cacciari, Problemi teorici e politici dell’operaismo nei nuovi gruppi dal 1960 ad oggi, in F. D’Agostini (a cura di), Operaismo e centralità operaia, Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 52. Ma esempi di questa lettura sono A. Asor Rosa, Composizione di classe e movimento operaio, in «Contropiano», III (1970), n. 3, pp. 423-464, e M. Cacciari, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917-1921, in G. Lukács, «Kommunismus» 1920-1921, Marsilio, Venezia, 1972, pp. 7-66.
[49] M. Tronti, Dentro e contro, in «Giovane critica», 1967, n. 17, pp. 17-27, ora in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 579.
[50] Nel novembre 1970, in occasione di un convegno organizzato da «Contropiano», Tronti affermava per esempio: «Rifiuto del lavoro in fabbrica e lotta per lo sviluppo nella società. Credo che proprio dalla coesistenza di questi due aspetti contraddittori all’interno della classe operaia si può cominciare ad elaborare un tipo di strategia che possiamo chiamare provvisoria. Una strategia provvisoria deve riuscire oggi a legare insieme proprio queste due facce, che sono una la faccia direttamente operaia e l’altra la faccia indirettamente operaia, capitalistica della classe operaia. Queste due facce si ripropongono continuamente come due tipi diversi di strategia e noi non possiamo escludere nessuna delle due, perché se ne escludiamo una perdiamo il contatto con un moto reale, con un fatto concreto» (M. Tronti, Classe operaia e sviluppo, cit., p. 474).
[51] M. Tronti, Classe operaia e sviluppo, cit., p. 476.
[52] Al termine del Poscritto, si leggeva infatti: «una società a capitalismo avanzato ci offre oggi lo spettacolo e ci dà in mano tutti gli strumenti per partecipare a questo gioco di autonomie non soltanto formali, tra sfera politica e mondo economico, tra scienza e interesse a breve della produzione capitalistica, tra organizzazione operaia e classe appunto in quanto capitale. Il semplicismo dell’economicismo – struttura e sovrastruttura – vale per le prime fasi del capitalismo, che somigliano troppo, per essere prese politicamente sul serio, alle società precapitalistiche. E il volontarismo della politica pura – la rivoluzione a tutti i costi – sta, se possibile, ancora più indietro, è socialismo sempre utopistico […]. Il capitalismo maturo è una società complessa, stratificata, contraddittoria, con più di una sede che si attribuisce la fonte del potere e con una lotta per la supremazia fra queste sedi, mai definitivamente risolta, perché senza possibilità di soluzione entro questa società» (OC 310-111).
[53] M. Tronti, La politica al primo posto (1972), in Id., Soggetti Crisi Potere, cit., p. 174.
[54] M. Tronti, Hegel politico, cit., p. 56.
[55] Ibi, p. 95.
[56] M. Tronti, Hobbes e Cromwell, in Id. (a cura di), Stato e rivoluzione in Inghilterra. Teoria e pratica della prima rivoluzione inglese, Il Saggiatore, Milano, 1977, pp. 183-317
[57] Ibi, p. 193.
[58] Ibi, p. 238.
[59] M. Tronti ( a cura di), Il politico, Feltrinelli, Milano, 1979-1982, 2 voll.
[60] M. Tronti, Cercare, pensare, lavorare sul politico, in «Laboratorio politico», I (1981), n. 1, p. 10.
[61] M. Tronti, Il tempo della politica, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 82.
[62] In un’intervista recente, per esempio ha osservato: «Le grandi classi non ci sono più, il conflitto frontale non c’è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di classe c’è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro» (M. Tronti, La lotta di classe c’è ancora, in M. Revelli, Post-Sinistra. Cosa resta della politica in un mondo globalizzato, Laterza – la Repubblica, Roma, 2014, p. 88).
[63] M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 58.
[64] La formula era adottata per esempio dal Gruppo Gramsci, Una proposta per un diverso modo di fare politica, in «Rosso», 1973, n. 7.
[65] A titolo esemplificativo, possono essere citati: F. Berardi, Finalmente il cielo è caduto sulla terra, Squilibri, Milano, 1978, P.A. Rovatti – R. Tomassini – A. Vigorelli, Bisogni e teoria marxista, Mazzotta, Milano, 1976, S. D’Alessandro et al. Bisogni, crisi della militanza, organizzazione proletaria, Savelli, Roma, 1977, e R. Sbardella et al., Contro l’autonomia della politica, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977.
[66] Cfr. al proposito M. Tronti, Critica della politica, oggi (1977), in Id., Soggetti Crisi Potere, cit., pp. 259-279.
[67] M. Tronti, Dall’estremo possibile, cit., p. 32.
[68] Cfr. per esempio M. Tronti, «Partire da sé». Fa problema (1997), in Id., Cenni di castella, Cadmo, Fiesole, 2001, pp. 127-131.
[69] M. Tronti, La Politica al femminile, il Politico al maschile, in Id., Dall’estremo possibile, cit., p. 201 e p. 205.
[70] Ibi, p. 206.
[71] Cfr. P. Barcellona – P. Sorbi – M. Tronti – G. Vacca, L’emergenza antropologica: per una nuova alleanza, in «Avvenire», 16 ottobre 2011, ora in Ead. (a cura di), Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza tra credenti e non credenti, Guerini e Associati, Milano, 2012, pp. 15-18.
[72] M. Tronti, Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi, Roma, 2015, p. 27.
[73] Ibidem.
[74] Ibi, p. 57.
[75] C. Schmitt, Teologia politica. Quatto capitoli sulla dottrina della sovranità (1922), in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 61.
[76] Era l’immagine evocata dalla prima delle Tesi di filosofia della storia, in W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1995 (II ed.), pp. 75-86.
[77] Ibi, p. 81 e p. 83.
[78] Ibi, p. 82.
[79] Ibidem.
[80] Allora, sulle pagine di «Laboratorio politico», scriveva: «Se ‘movimento operaio’ maturo vuol dire la fine della storia delle classi subalterne, ‘sinistra’ vuol dire l’eredità di questa storia, la forma, la veste che le lotte di oggi devono ancora assumere dal passato. Eredità non delle forze sociali oppresse, ma delle loro ideologie di vendetta integrale e di totale negazione» (M. Tronti, Sinistra, in «Laboratorio politico», 1981, n. 3, p. 147).
[81] M. Tronti, Memoria e storia degli operai (2001), in Id., Noi operaisti, cit., p. 124.
[82] M. Tronti, Dall’estremo possibile, cit., 58.
[83] F. Nietzsche, Umano, troppo umano I e II e scelta di frammenti postumi 1876-1879, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano, 1970, cit. in DSL 261.
[84] Sulla necessità di rimettere al centro l’«autonomia del politico», cfr. però C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011, e Id., Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna, Jaca Book, Milano, 2013, per cui rinvio ad anche alcune considerazione svolte in D. Palano, Lenin a Pechino? Leggendo «Utopie letali» di Carlo Formenti, in «Tysm», giugno 2014 [www.tysm.org].
[85] Per un confronto tra le due ipotesi, si veda il dialogo M. Tronti – M. Revelli, Quando Nietzsche incontrò Marx: per un bilancio storico dell’operaismo italiano, a cura di E. Carnevali, in Un’onda vi seppellirà, supplemento a «Micromega», 2008, n. 6, pp. 173-196.
[86] A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato, Editori Riuniti, Roma, 1977, p. 4.
[87] A. Gramsci, Il partito comunista (1920), in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 150-151.
[88] M. Tronti, Berlinguer a Pomigliano, in Fondazione Crs (Gruppo Lavoro), Nuova panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, Derive Approdi, Roma, 2011, p. 164.
[89] Ma si veda su questo l’analisi di A. Simoncini, Governare lo sguardo. Potere, arte, cinema tra primo Novecento e ultimo capitalismo, Aracne, Roma, 2013.
Fonte: Tysm.org
Originale: http://tysm.org/mario-tronti/
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