di Matteo Giordano
Nel paragrafo 5 del Quaderno 15, scritto nel febbraio del 1933, Gramsci elabora un’originale teoria della crisi. Respinge ogni lettura riduzionista di tipo economicistico: sarebbe erroneo e fuorviante, dice, di fronte ad una crisi economica di dimensioni mondiali, ricercare od isolare una sola causa; si deve invece ricostruire un intero periodo storico, inquadrando al suo interno le manifestazioni economiche della crisi ed analizzando le strategie dei vari attori mondiali volte alla ricostruzione di un nuovo equilibrio.
Applicando questo criterio all’andamento della crisi tra il 1929 e il 1932, Gramsci ne individua l’origine nel contrasto tra “il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica”, e perciò propone di leggere quella fase all’interno di un periodo storico molto più lungo, caratterizzato dal manifestarsi di quella contraddizione e dalla incapacità delle classi dirigenti di risolverla nell’unico modo possibile, cioè adeguando le forme e gli spazi della regolazione politica a quelli di un’economia sempre più pienamente mondiale.
La crisi non è un fatto prodotto da una unica causa, ma un processo, il quale ha molte manifestazioni, che si accavallano e si complicano. Non ha dunque un “inizio”, ma piuttosto ci sono solo alcune “manifestazioni più clamorose” di questo processo, che vengono “erroneamente e tendenziosamente” identificate come il punto d’attacco della crisi. Secondo Gramsci, “tutto il dopoguerra è crisi” ed addirittura la Prima Guerra Mondiale potrebbe essere letta anch’essa come una manifestazione della crisi.
Non è possibile separare la crisi economica da quella politica, sociale, culturale ed ideologica: la crisi è una sola, organica e generale.
Infine, per Gramsci, la crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè di produzione e di scambio, non in fatti politici o giuridici. La crisi non sarebbe altro che “l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma lo sviluppo del Capitalismo è stata una «continua crisi», se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di «crisi», che sono più gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano.”
Infine, per Gramsci, la crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè di produzione e di scambio, non in fatti politici o giuridici. La crisi non sarebbe altro che “l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma lo sviluppo del Capitalismo è stata una «continua crisi», se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di «crisi», che sono più gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano.”
Dal momento che alla radice di questo processo c’è l’asimmetria fondamentale tra la vita economica, che si gioca su una dimensione cosmopolita e globale, e la vita politica statale, l’analisi di Gramsci risulta ancora più esplosiva e dirompente in un periodo storico come il nostro in cui la globalizzazione dell’economia mondiale è assai più estesa e basata su un sistema di connessioni interdipendenti. La storia del Capitalismo è una storia di crisi cicliche: un continuo succedersi di cicli di sviluppo e di depressione. Eppure, stiamo assistendo ad un fenomeno di aumento esponenziale non solo della virulenza di queste crisi, ma anche della loro frequenza: i cicli economici sono sempre più corti e si susseguono più rapidamente. Questo processo è stato definito “stagnazione secolare”. Dai tempi della Rivoluzione industriale nell’Inghilterra del 1700, l’economia capitalista si è sempre retta su tre motori propulsivi: la crescita economica, l’aumento demografico e l’accelerazione del progresso tecnico. Attualmente, le proiezioni demografiche segnalano una brusca frenata nella crescita della popolazione mondiale ed una sua rapida e drastica riduzione verso circa la metà del secolo: questo fenomeno ha delle implicazioni enormi nell’organizzazione strutturale delle società e degli equilibri, che regolano l’economia mondiale.
Inoltre, nel marzo del 2014, gli analisti di Morgan Stanley hanno pubblicato uno studio sull’economia statunitense in cui si dice che il “tasso di crescita naturale”, cioè il tasso di crescita potenziale calcolato come media degli ultimi tassi di variazione annua del PIL, considerato per gli Stati Uniti intorno al 2,5% dovrebbe essere abbassato al 2%, in quanto “la contrazione della produttività e del tasso di partecipazione al lavoro tracciano un percorso di crescita più basso di quello a cui siamo sempre stati abituati.” Le aspettative di crescita per i prossimi, non anni ma decenni, vengono abbassate drasticamente: ci si aspetta una crescita perennemente debole, una variazione di tasso di sviluppo simile a quella della temperatura corporea di un paziente appena febbricitante, e quindi uno stato di “crisi permanente”. Crescita bassa o quasi inesistente, calo della popolazione e della forza lavoro, disoccupazione strutturalmente a doppia cifra. Due dei tre principali fattori di sviluppo dell’economia capitalistica verrebbero, contemporaneamente e per la prima volta dalla Rivoluzione industriale, a mancare.
Prima della crisi c’erano condizioni come una politica monetaria molto lasca, elevato indebitamento del settore privato e spese che hanno precorso il reddito. “Troppa liquidità, troppi prestiti, troppa ricchezza”, ha chiosato Laurence Summers. Questo però non ha generato un aumento del tasso di inflazione, nessuna sovrapproduzione del sistema economico e, anzi, una disoccupazione rimasta sempre al di sopra del suo livello naturale. Nel novembre del 2013, Summers sostenne ad un seminario organizzato dal FMI che il “tasso naturale di equilibrio”, ovvero il tasso capace di assicurare la piena occupazione e quindi una solida crescita economica, fosse ormai di segno negativo. Solo un tasso negativo avrebbe potuto spiegare la mancata ripresa dopo la Depressione del biennio 2008-2010; Summers ha sostenuto che, se il tasso naturale di equilibrio fosse davvero sceso ad un -2 o -3%, non ci potrebbe essere a questo punto alcun eccesso di domanda aggregata, neppure con politiche fiscali espansive, né un ritorno alla piena occupazione (nemmeno se il credito fosse erogato a condizioni normali). E’ la famosa “trappola della liquidità”: la situazione in cui la politica monetaria non riesce più ad esercitare influenza sulla domanda; il denaro è a zero, ma non ci sono effetti sull’economia.
Ci sono poi due altri ordini di problemi: primo, l’economia “del debito”. Il debito mondiale, a fine 2014, veniva calcolato intorno a 200 mila miliardi di dollari, ovvero tre volte il PIL globale, una situazione insostenibile nel lungo periodo. Tutti i principali attori economici mondiali vogliono avere una bilancia commerciale in attivo, cioè un’economia export-led, ma questo non è possibile per una banale ovvietà: se qualcuno esporta, qualcun altro deve importare in modo da equilibrare i due piatti della bilancia. Secondo, la immensa concentrazione di risparmio privato. Nel mondo, oggi, c’è una gigantesca bolla di risparmio privato che si sposta tra le maggiori piazze finanziarie del pianeta. Viene attirata lì dove si crea una bolla del mercato finanziario e dove i guadagni sono più alti. Quando la bolla scoppia, questa immensa massa di risparmio privato si sposta verso una piazza finanziaria diversa. Ma i danni che lo scoppio di queste bolle causano alle economie reali dei paesi non possono essere riassorbiti in tempo breve; le crisi quindi aumentano la loro virulenza e frequenza: dopo lo scoppio della bolla dei mutui sub prime negli USA del 2007-8, la bolla di risparmio privato si è spostata verso l’Europa, dove alla crisi finanziaria si è aggiunta una crisi dei debiti sovrani accentuata dallo squilibrio dell’architettura istituzionale dell’Unione. Infine, la bolla si è spostata verso i mercati cinesi, che infatti nell’agosto del 2015 hanno subito un drammatico crollo verticale. L’economia mondiale, oggi funziona grazie alla propulsione di quattro “motori”: quello americano, quello europeo, quello cinese e quello delle economie emergenti. Lo scoppio di queste bolle ha messo fuori uso in pochi anni i primi tre di questi motori ed attualmente solo quello americano è tornato a funzionare, anche se ancora non a pieno ritmo. La crescita mondiale così stenta a decollare e la crisi organica aggrava i suoi effetti. Inoltre, per sostenere la domanda, le Banche centrali avviano programmi di quantitative easing e taglio dei tassi di interesse del denaro, immettendo ancora più liquidità sui mercati. Probabilmente questo è l’unico tipo di intervento che possono mettere in campo nelle condizioni date, nel breve periodo, per tamponare la falla, ma così facendo preparano le condizioni per futuri scoppi di altre bolle, sempre più violenti e sempre più ravvicinati.
Dobbiamo allora iniziare a ragionare nell’ordine di idee che questa Grande Crisi è un “conflitto economico mondiale” tra le grandi potenze, che cercano di ridefinire un nuovo equilibrio dei rapporti di forza e lottano per l’egemonia. I due principali assi su cui si combatte questo conflitto sono la dorsale nordatlantica e quella trans pacifica. Da una parte abbiamo la contrapposizione euro-dollaro, che mette in discussione il signoraggio del dollaro e la capacità degli Stati Uniti di poter attirare enormi quantità di risparmio privato, le quali permettano loro di sostenere l’immenso debito pubblico che hanno accumulato; dall’altra l’abbraccio mortale tra l’economia americana e quella cinese, con la Cina che detiene la maggior quota di titoli del debito statunitense e gli Stati Uniti che sono il principale paese importatore delle esportazioni cinesi.
Quindi, per tornare a Gramsci ed alla teoria della crisi del Quaderno 15, quella che stiamo vivendo non è una semplice crisi ciclica del Capitalismo, ma una crisi organica, che sta ridefinendo gli equilibri di potenza a livello globale. Una crisi economica, ma anche politica ed ideologica: da un lato è entrata nella sua fase calante l’egemonia mercatista neoliberale che ha governato il mondo negli ultimi quarant’anni; dall’altro, chiusasi in fretta e malamente la parentesi dell’unipolarismo unilaterale americano e delle ambizioni dei neocon statunitensi di un “new american century”, non è ancora emerso un nuovo e stabile equilibrio di potenza tra i vari attori geopolitici. “Il vecchio non può più, il nuovo non può ancora”.
Come se ne esce? E’ evidente che non basta nemmeno solo invertire le politiche economiche a livello nazionale (per esempio abbandonando l’austerità e tornando a fare politiche espansive e neokeynesiane di supporto alla domanda ed all’occupazione): serve una generale ristrutturazione dell’impalcatura fondamentale su cui si regge il Capitalismo finanziario moderno ed una nuova conferenza economica mondiale (una nuova Bretton Woods) per regolare i conflitti valutari e superare l’unilateralismo del dollaro come sola moneta di riferimento internazionale. Questo scenario presuppone però una profonda messa in discussione dell’equilibrio di potenza a livello geopolitico fra i grandi attori e la cessione di ampie fette di influenza di alcuni di essi. E’ possibile un così profondo mutamento degli equilibri politici globali senza una guerra? Probabilmente no.
Questa crisi organica, che è anche una stagnazione secolare, rischia di diventare una crisi perenne e senza fine. Senza uscita, senza futuro. Una continua scissione, una progressiva disgregazione. Appunto, un “eterno presente”, in cui muta anche il profilo antropologico dell’essere umano. Non possiamo limitarci ad una lettura riduzionista ed economicistica della crisi. Dobbiamo inserire il processo in un più ampio periodo storico, ricostruire tutti i collegamenti e sondarne le profonde implicazioni culturali e politiche. Il rischio, però, è che all’interno della gabbia di un eterno presente, stretta nella camicia di forza di una medietas di crisi perenne, la Sinistra non abbia alcun margine di azione. E che al massimo essa possa vivacchiare in una sacca marginale di protesta sociale e malcontento, senza avere la capacità di rompere il continuum storico della stagnazione secolare e riprendere una lotta verticale per la conquista dell’egemonia. Se fosse davvero così, la sconfitta storica subita sarebbe così devastante e definitiva da rendere inconsistente persino il senso e la ragione dell’esistenza di una forza progressiva di cambiamento reale del mondo. Il nostro sarebbe solo un tempo di macerie, di totale desertificazione. Una terra di mezzo insopportabile in cui non è possibile sopravvivere. Per cui a noi la scelta: o aprire le ali al folle volo, o accettare una resa senza condizioni.
Fonte: Pandorarivista
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